653 è uno dei topi salvati il 20 Aprile dalle gabbie del Dipartimento di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano.
653 non è il suo nome. È il numero impresso sulla graffetta conficcata nel suo orecchio. Lui un nome non ce l’ha. Da un lato ciò suggerisce che nessun essere umano gli abbia mai prestato sufficiente attenzione da conferirgli la dignità di individuo (e quindi, di conseguenza, un “nome” – ciò che noi utilizziamo per distinguere chi reputiamo degno della nostra considerazione), dall’altro ci ricorda come gli animali, nella loro immensa interezza di abitanti di questo mondo, non abbiano alcun bisogno di un “nome” per affermare sé stessi. Non trovano fine e compimento nella categoria che altri loro simili gli affibbiano (come invece succede a noi umani: una persona “senza nome”, non ha un passato, non ha una storia, non è nessuno, non è “niente”), ma trovano compimento in loro stessi, senza che questo individualismo possa porre alcun freno alla complessità di relazioni sociali intessute.
653 non è nato libero. È nato presso i locali di una multinazionale, la Harlan di Udine, da una madre prigioniera. Ultima espressione di una stirpe creata e vissuta per essere strumento umano. Il suo Dna è stato modificato affinché non esprimesse le basi azotate necessarie alla produzione di una determinata proteina che, esperimenti condotti su altri prigionieri prima di lui, avevano identificato come molto importante nel corretto sviluppo dei neuroni. In particolare, ridotti livelli di quella proteina, avevano evidenziato deficit di apprendimento e memoria nei test mirati a valutare le funzionalità del cervello. Su altri topi prima di lui era stato osservato, dopo averli decapitati ed estratto loro il cervello, come determinati neuroni mostrassero uno sviluppo incompleto, in seguito alla carenza di questa proteina. Migliaia e migliaia di suoi fratelli e sorelle sono nati e morti, negli anni passati, per aggiungere dettagli attorno alla descrizione di questa proteina. Uno degli altri effetti osservati in anni di queste torture è la ridotta plasticità sinaptica (la capacità del cervello di creare e distruggere nuove connessioni, meccanismo ritenuto essere alla base del processo cognitivo) osservata in questi topi.
653, giunto su questo mondo già in catene, col suo destino scritto prima di tutto nel suo Dna, si è affacciato al mondo con l’ingenuità e la speranza che solo un animale può possedere. La stessa ingenuità e speranza condivisa da tutti gli individui che vengono alla luce su questa terra. L’obiettivo dichiarato col quale è stato fatto nascere, venduto, comprato, imprigionato e morbosamente osservato è “chiarire i meccanismi molecolari alla base della ridotta plasticità sinaptica” e constatare se la proteina sopracitata fosse coinvolta o meno nella modificazioni strutturali dei neuroni in topi messi un “ambiente arricchito”. Tutto ciò, nelle giustificazioni dei vivisettori, dovrebbe fungere da modello per l’autismo, dato che la stessa proteina che 653 in virtù del suo dna modificato non può creare, è stata osservata in concentrazioni più basse della media in persone affette da autismo.
L’intera esistenza di 653 è stata concepita attraverso pubblicazioni scientifiche costate la prigionia, la sofferenza e la morte di un numero inquantificabile di suoi predecessori. Sembra la trama di un’angosciante distopia, invece si tratta della realtà quotidiana per milioni di animali. 653, ovviamente, reca in sé i segni indelebili di ciò che la follia umana ha saputo lucidamente immaginare e mettere in pratica. Sembra essere particolarmente timido. Se, con l’obiettivo fotografico, si cerca il suo musino, lui si gira, cercando un pertugio fra le pieghe delle maniche di chi lo accoglie dove rifugiarsi palcidamente da ciò che non conosce. Con un po’ di pazienza, dopo un po’, mostra il suo musino a chi cerca di scorgere i suoi occhi, rivelando uno sguardo misterioso e profondo. I suoi movimenti sono lenti, a tratti un po’ goffi. Non sembra provare disagio nell’essere maneggiato, ma sembra vivere le grandi mani che lo accolgono con una sorta di distacco, di indifferenza.
Non sappiamo quanto rimane da vivere a 653. Vorremmo rendergli giustizia, vorremmo restituirlo al suo vero mondo, vorremmo concedergli la Terra intera, vorremmo che il suo piccolo e ancestrale corpo avesse come solo limite la sua fantasia, le sue corse sfrenate, la sua ricerca di cibo, la sua voglia di un riparo, la sua disponibilità a rapporti sociali e amorevoli. Invece è nato in cattività. Una cattività ancora più assurda e debilitante in quanto inscritta nei suoi geni. Noi ora possiamo solo donargli una luogo più grande e confortevole, delle mani amiche che mai lo decapiteranno per studiarne le sinapsi, una casa sicura dove trovare cibo, rifugio e calore in ogni momento che lo vorrà. Nasce dai miei occhi una lacrima, al suo pensiero, frutto di una grande frattura dentro me: la rabbia per il non poterlo vedere libero e la gioia per il vederlo lontano da chi voleva ucciderlo in quanto semplice oggetto, piccolo insignificante numero segnato a penna su un cartellino colorato.
Non possiamo essere ciò che vorremmo, per 653, ma lui può essere per noi un maestro. Con un solo sguardo ci ricorda la sua dignità. Con ogni suo lento movimento ci mostra come nessun laboratorio, nessuna laurea, nessun titolo, nessuna gabbia di plexiglass, nessuna ricerca per una cura miracolosa, cancelleranno la sua voglia di libertà. Ogni istante in cui posiamo lo sguardo su lui e le sue sorelle e fratelli che hanno avuto la sfortuna di incrociare la nostra specie sul loro cammino, troviamo tutte le motivazioni per impegnarci nella lotta alla sperimentazione animale.
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