Oggi è possibile trovare sugli scaffali dei supermercati uova e carni prodotti senza l’uso di antibiotici: “Allevato senza uso di antibiotici”.
Tale dicitura sarebbe riferibile al disciplinare di etichettatura volontaria delle carni di pollame (pollo, gallina, tacchino, faraona, anatra) autorizzato dal Ministero della politiche agricole, alimentari e forestali nel 2005, di cui è titolare Unaitalia associazione di categoria che rappresenta oltre il 90% dell’intera filiera avicunicola. Lo scopo è fare scacco matto alla “antibiotico-resistenza“, un problema che mina la salute delle persone e degli animali.
Questa etichetta “Allevato senza uso di antibiotici” significa che gli animali non hanno mai, fin dalla loro nascita, ricevuto alcun trattamento antibiotico. Sembrerebbe una vera e propria rivoluzione anche perché secondo l’ultimo report di EMA, EFSA e ECDC, il 71% degli antibiotici venduti in Italia viene somministrato agli animali. Quest’utilizzo massiccio degli antibiotici è una delle cause della crescente resistenza antimicrobica. Secondo uno studio britannico, entro il 2050 la resistenza agli antibiotici potrebbe diventare ancora più mortale del cancro, con più di 10 milioni di vittime all’anno.
Dobbiamo credere davvero nella scritta che troviamo su questi prodotti? Dobbiamo fidarci degli organi che dovrebbero garantirne l’affidabilità e la tracciabilità? Oppure è solo marketing?
Secondo CIWF Italia l’eliminazione degli antibiotici da parte delle aziende non significa per forza una migliore qualità di vita per gli animali. Smettere semplicemente di usare antibiotici senza cambiare l’ambiente in cui vivono gli animali potrebbe non avere alcun impatto sul loro benessere o potrebbe addirittura avere un impatto negativo.
Il vero nodo della questione, segnala l’associazione, e che gli animali dovrebbero avere diritto a condizioni di allevamento che riducano al minimo la possibilità di ammalarsi. E queste non sono comunque mai quelle dei sistemi intensivi, in cui gli animali sono spinti al limite delle loro possibilità fisiologiche e soprattutto raddoppiano il rischio di nascita di superbatteri, quelli resistenti agli antibiotici.
In caso di malattia, i singoli animali malati dovrebbero ricevere il trattamento farmacologico tempestivamente, perché una mancanza, un’interruzione o un ritardo potrebbe comprometterne la salute e il benessere. Va da sé che l’etichetta con scritto “allevato senza uso di antibiotici” non voglia dir nulla.
Per questa ragione, i prodotti “senza antibiotici” negli attuali allevamenti intensivi non sono di per sé una garanzia di benessere animale. Per una questione di trasparenza, CIWF chiede che le aziende che scelgono di utilizzare questa dicitura dovrebbero comunicare pubblicamente anche le precise misure e i miglioramenti che hanno adottato per giungere a un uso ridotto o all’eliminazione del farmaco. Solo in questo modo avremo animali più sani, carne più sana e umani più sani.