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Non solo Made in Italy

La Top 20 dell'appeal del marchio "Made in" nel mondo

La Top 20 dell’appeal del marchio “Made in” nel mondo

Borse, vestiti, arredamento, vini, Prosciutto di Parma: nel mondo il Made in Italy è un marchio forte. Attenzione però, sedersi sugli allori è vietato. Perché quello italiano non è l’unico “Made in” che conta sulla piazza globale. Siamo troppo abituati a guardare all’Italia e alle nostre eccellenze coi nostri occhi. Se ci affacciamo al mercato mondiale dei consumatori da una finestra diversa, scopriamo che il marchio made in Italy è quinto: davanti, nell’ordine, ha Made in Usa, Made in France, Made in Germany e anche Made in Japan.

La classifica è stata stilata da FutureBrand, che ha vagliato il peso specifico di 140 Paesi e ha dato voce a tutti i consumatori, anche ai consumatori dei Paesi emergenti. Cosa hanno chiesto? Di valutare la reputazione che i Paesi d’origine hanno sulle loro scelte di consumo, di dare un punteggio all’importanza che attribuiscono alla provenienza di un prodotto. Un giudizio sulla qualità, ma anche sulla sicurezza – un tema quanto mai caldo, in epoca di scandali alimentari – e sulla reale provenienza di un bene, dato che sempre più spesso il luogo di progettazione e quello di produzione delle merci non coincidono più.

Dalle indagini è emersa prepotente la forza del marchio Made in Usa: aziende come Gap, Nike, Donna Karan o Calvin Klein sono le primi che balzano alla mente dei consumatori, soprattutto nei Paesi emergenti. Se gli Stati Uniti ottengono il massimo punteggio nelle categorie Moda e Cura della persona, la Francia vince nella Cibo e bevande, mentre la Germania primeggia nella categoria Auto ed è terza per l’elettronica di consumo. Il Giappone, infine, è primo per l’elettronica e va forte anche nel settore automobilistico. E l’Italia? I brand dell’alimentare devono cedere il primo posto ai marchi francesi, che tra gli intervistati esercitano un richiamo maggiore, specie nel settore dei vini. Nel lusso, nonostante le nostre numerose firme, l’Italia è solo terza, alle spalle di Francia e Svizzera.

Il primo posto dei Cantoni in questa categoria è dato dalla presenza di brand che hanno saputo rafforzare il concetto di lusso trasversalmente a diversi segmenti di mercato: dagli orologi (con Rolex, Omega, Longines, Tag Heuer, Vacheron Constantin) al caffè con Nespresso, alla cosmesi con La Prairie, ai sigari con Davidoff, alla gioielleria con Chopard.
«È un fatto – conferma Alessandra Iovinella, managing director di FutureBrand Italia – che le aziende europee tendono a sovrastimare il proprio appeal all’estero. Ma quando entrano in campo l’America Latina o il Medio Oriente, i marchi a stelle e strisce non sono solo fra i primi citati, ma sono anche quelli più in grado di rassicurare sulla provenienza del prodotto, cioè sull’effettivo Made in». Nell’opinione dei consumatori intervistati, i parametri “Paese di origine”, “Paese di progettazione” e “Paese di produzione” sono stati giudicati più importanti di altri fattori di scelta come, per esempio, il prezzo, la disponibilità e lo stile, e si sono posizionati alle spalle del fattore di scelta numero uno: la sicurezza. Ecco perché oggi non è più sufficiente essere identificati con un Paese – per esempio, l’Italia con la moda – per essere riconosciuto come Made In: i brand oggi devono dimostrare di avere una reale e profonda connessione con il Paese da cui provengono per poter contare su un vantaggio competitivo.

Ben vengano dunque le normative a tutela del Made in. Ma potrebbero non essere abbastanza: sia chiaro, la quinta posizione italiana è di tutto rispetto, ma ci obbliga a confrontarci con altre quattro e a imparare a essere competitivi rispetto a loro. «Dobbiamo usare questa posizione per guardare in avanti e avere una prima indicazione delle potenzialità che potrebbero ancora crescere – sostiene Silvia Barbieri, head of strategy di FutureBrand Italia – per esempio, credo che abbiamo la sostanza e la forza potenziale di superare la Francia nel Food & beverage e di attaccare insieme alla Francia il primato della Svizzera nel lusso. Nelle altre categorie, invece, ritengo che l’Italia occupi una posizione che rispecchia le sue forze».

(Da Il Sole 24 Ore del 10 Febbraio 2014)

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Piccoli Mostri tossici nei vestiti per bambini

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C’erano una volta, in un regno non molto lontano, gigantesche fabbriche che producevano i vestiti per i bambini di tutto il mondo. Lontano da occhi indiscreti, furono fatti entrare dei Piccoli Mostri tossici nel processo produttivo. Pericolosi e dispettosi, i mostriciattoli decisero ben presto di fuggire, diffondendosi in tutto il Mondo attraverso laghi e fiumi, e causando GROSSI guai! La cosa più terrificante fu che queste piccole e spaventose creature scelsero come loro nuova casa gli abiti dei bambini: contagiarono ogni indumento, da quelli più economici ai più costosi, dai vestiti sportivi di Adidas ai capi firmati Burberry. 

Una nuova ricerca di Greenpeace rivela sostanze chimiche pericolose nei vestiti e nelle scarpe per bambini di note marche di abbigliamento, da quello casual e sportivo a quello di lusso. Il rapporto “A little story about the monsters in your closet…” fa seguito a numerose ricerche pubblicate da Greenpeace nell’ambito della sua campagna “Detox”, che hanno rivelato come diverse sostanze chimiche pericolose siano presenti nei tessuti e nei prodotti in pelle, a causa del loro utilizzo nella fase di produzione.

Questa ricerca conferma che l’uso di sostanze pericolose è ancora diffuso, perfino nella produzione di vestiti per bambini e neonati. Sono stati testati 82 articoli per bambini acquistati tra maggio e giugno 2013 in 25 Paesi del mondo in negozi monomarca o da altri rivenditori autorizzati. Gli articoli sono risultati prodotti in 12 Paesi. Il campionamento comprendeva marchi popolari come American Apparel, C&A, Disney, GAP, H&M, Primark, e Uniqlo e marchi di abbigliamento sportivo come Adidas, LiNing, Nike e Puma, per arrivare a marchi del lusso come Burberry.

I prodotti sono stati inviati ai laboratori di Greenpeace presso l’Università di Exeter in Gran Bretagna, da dove sono stati smistati a laboratori indipendenti accreditati. In tutti i campioni è stata ricercata la presenza dei nonilfenoli etossilati (NPEs); alcuni prodotti sono stati analizzati anche per verificare la presenza di ftalati, composti organostannici e composti chimici perfluorurati (PFCs) o antimonio, nei casi in cui il tipo di prodotto giustificava ulteriori analisi. I test per rilevare l’antimonio sono stati condotti dai laboratori di Greenpeace presso l’Università di Exeter. Nonostante i prodotti acquistati fossero destinati a bambini e neonati, non è stata riscontrata una differenza significativa tra il livello di sostanze chimiche rilevate in questo studio e quello riscontrato in analisi precedenti (per lo stesso tipo di sostanze chimiche pericolose) su capi di abbigliamento per adulti (uomo/donna).

Principali scoperte

• Nonilfenoli etossilati (NPEs): sono stati trovati in 50 prodotti su 82, a livelli che vanno da appena 1 mg/kg (il limite di rilevamento) fino a 17.000 mg/ kg. Si tratta del 61% di tutti i prodotti testati. Tutti i marchi hanno almeno un prodotto nel quale sono stati rilevati nonilfenoli etossilati. I marchi con i livelli più elevati di NPEs nei loro prodotti (superiori a 1.000 mg/kg) sono C&A, Disney e American Apparel. I valori rilevati per Burberry non sono molto inferiori, con 780 mg/kg in uno dei prodotti. I NPEs sono stati rilevati in prodotti provenienti da 10 Paesi di produzione su 12.

Gli ftalati sono stati trovati in 33 campioni dei 35 che presentavano stampe al plastisol. Due di questi campioni contenevano concentrazioni molto elevate di ftalati se confrontati con precedenti analisi effettuate da Greenpeace: una maglietta di Primark venduta in Germania conteneva l’ 11% di ftalati, mentre una tutina per bambini di American Apparel venduta negli Stati Uniti ne conteneva lo 0.6%. I livelli di ftalati rilevati in questi due articoli non sarebbero consentiti dalla legislazione europea, che però non si applica agli indumenti, ai giocattoli e articoli per bambini.

• I composti organo-stannici (composti organici dello stagno) sono stati trovati in tre articoli con stampe al plastisol (sui 21 testati) e in tre calzature su cinque. Le concentrazioni più elevate di composti organostannici sono state riscontrate in tre calzature di Puma e Adidas, con i livelli più elevati trovati in un paio di scarpe sportive della Puma. Per queste calzature, la concentrazione di composti organo-stannici (detta DOT) rilevata era più alta dello standard Oeko-texs – una certificazione di sostenibilità volontaria – e degli standard fissati da Adidas e Puma per i DOT nelle proprie liste di sostanze proibite.

• Uno o più PFCs (composti perfluorurati) sono stati rilevati in ciascuno dei 15 articoli testati per il rilevamento di tali sostanze. Tre prodotti Adidas, una giacca da bambino di Nike e un giacchetto di Uniqlo hanno mostrato concentrazioni relativamente elevate di PFCs (sia volatili, sia ionici). Le analisi per i PFCs ionici hanno mostrato la presenza di PFOS (perfluorottani sulfonati) in una scarpa Adidas15 e in un costume Burberry. Le concentrazioni di PFCs e PFOA ionici trovate in un costume Adidas17 erano molto più elevate del limite di 1 µg/m² fissato dalla Norvegia per il 201418 e perfino da Adidas nella sua lista di sostanze proibite.

• L’antimonio è stato ritrovato in tutti e 36 gli articoli in cui è stato cercato. Si tratta di prodotti contenenti tessuti di poliestere al 100% oppure di poliestere e altre fibre.

Le maggiori imprese tessili che si muovono sul mercato globale possono adottare soluzioni con un impatto significativo per arrivare all’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose nell’industria nel suo complesso. Greenpeace chiede alle imprese di riconoscere l’urgenza del cambiamento e di agire da leader sulla scena globale, impegnandosi all’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose entro il 1 gennaio 2020. L’impegno che chiediamo è di avviarsi lungo un percorso ambizioso ma realizzabile, con una serie di scadenze per arrivare all’eliminazione progressiva di tutte le sostanze chimiche pericolose. Dal lancio della campagna di Greenpeace “Detox” nel luglio 2011, 18 importanti aziende del settore dell’abbigliamento si sono impegnate pubblicamente. Mentre la maggioranza di loro si sta impegnando realmente, tre compagnie – Adidas, Nike e LiNing – non stanno tenendo fede alle loro promesse. Allo stesso tempo altri marchi non hanno ancora preso alcun impegno Detox, nonostante il loro coinvolgimento in scandali ambientali riportati in numerosi rapporti di Greenpeace.

I risultati di questo rapporto in cui ogni marchio ha uno o più prodotti per bambini contenenti sostanze pericolose mostra l’urgenza con cui le aziende del settore devono ripulire la loro filiera e assicurare un futuro pulito alle prossime generazioni. Greenpeace chiede al governo cinese di adottare un impegno politico per arrivare all’obiettivo “Scarichi Zero” di sostanze chimiche pericolose nell’arco di una generazione. Si tratta di applicare il principio di precauzione, incluso un approccio preventivo che eviti la produzione e l’uso di sostanze pericolose e il loro successivo rilascio nell’ambiente. L’impegno deve essere seguito da una serie di politiche e regolamenti con obiettivi a breve-medio termine per il bando della produzione e l’uso di queste sostanze; una lista dinamica di sostanze che richiedono un’azione immediata (in base al principio di sostituzione) e un registro pubblico dei dati sulle emissioni e le perdite di sostanze pericolose.

I nostri bambini meritano di vivere in un mondo libero da sostanze chimiche pericolose e gli adulti in tutto il mondo possono trasformare questo sogno in realtà. Come genitori, cittadini globali e consumatori, agendo insieme possiamo sfidare i maggiori marchi mondiali e i governi a realizzare il cambiamento urgente di cui abbiamo bisogno. La richiesta di un mondo della moda libero da sostanze tossiche ha già visto l’impegno di 18 tra le maggiori aziende del settore, tra cui H&M, Zara, Valentino e Puma. Non fermiamoci qui. L’impegno Detox deve essere di tutti.

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Industria dell’abbigliamento: Violenze in Cambogia per un salario dignitoso

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La Clean Clothes Campaign, insieme alle organizzazioni in difesa dei diritti dei lavoratori e a sindacati da tutto il mondo, condanna duramente le violenze verificatesi recentemente in Cambogia ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici del tessile.

Venerdì 10 Febbraio inizierà una settimana di mobilitazione internazionale per chiedere al governo cambogiano di mettere fine alla violenza sui manifestanti e di ascoltare la loro richiesta di salario minimo dignitoso. Le manifestazioni dei lavoratori del tessile, iniziate lo scorso 24 Dicembre con la convocazione di uno sciopero nazionale per chiedere un salario di 160 dollari al mese, hanno avuto un esito drammatico. Il 3 gennaio, infatti, la polizia ha aperto il fuoco sulla folla di manifestanti uccidendo 4 persone e ferendone molte altre. Molti lavoratori e lavoratrici sono stati picchiati ed arrestati.

Le proteste erano esplose dopo l’annuncio dell’accordo sulla nuova formula per calcolare il salario minimo, che avrebbe dovuto portare gli stipendi mensili a 100 dollari, una cifra del tutto insoddisfacente per condurre una vita dignitosa in quel paese. Secondo i calcoli di alcuni sindacati asiatici e di organizzazioni di difesa dei diritti umani un salario dignitoso che garantisca ad una famiglia un livello di sussistenza in Cambogia dovrebbe aggirarsi intorno ai 394 dollari al mese: quasi 4 volte la proposta di salario minimo. Ben oltre anche la richiesta dei manifestanti, che appare quindi tutt’altro che assurda. L’industria dell’abbigliamento in Cambogia impiega oltre 500.000 persone, è responsabile di circa il 95% dell’industria di esportazione della Cambogia e vale più di 3 miliardi di € all’anno.

Per trovare una soluzione rapidamente chiediamo ai marchi che si riforniscono in Cambogia e al governo del paese di:

  • Porre fine immediatamente all’uso della violenza e alle intimidazioni contro i lavoratori ei loro rappresentanti.
  • Rilasciare tutti coloro che sono stati arrestati nelle lotte.
  • Rispettare la libertà di associazione e il diritto di sciopero degli operai
  • Evitare ripercussioni per i lavoratori e i dirigenti sindacali che hanno partecipato allo sciopero.
  • Impegnarsi a riprendere i negoziati di pace sul salario minimo.
  • Costringere i responsabili delle violenze a pagarne le conseguenze.

Lettere contenenti le richieste sono già state spedite ai principali marchi che hanno interessi in Cambogia: H&M, Puma, adidas, Mark&Spencer, C&A, Next, Tesco , Inditex, GAP, Walmart, Levi’s. H&M, Gap, Puma, Adidas e Inditex hanno inviato una lettera al governo cambogiano perché metta fine alle violenze.

Sono previste manifestazioni davanti alle ambasciate cambogiane in tutta Europa, nonché la sottoscrizione di una petizione già disponibile online.

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Quando il pusher è lo Stato

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Il vicepresidente del Gruppo AbeleLeopoldo Grosso, scrive su Il Manifesto quali siano le necessità per affrontare a livello nazionale l’espansione del gioco d’azzardo patologico.

L’estensione dei danni provocati dal gioco d’azzardo patologico è largamente sconosciuta. Non si dispone in Italia – lo dice anche l’ultima relazione del Dpa al Parlamento – di alcuna rilevazione sistematica su questo e i numeri cui ci si affida sono mutuati per analogia dagli studi di altri paesi, oppure indiziari, oppure estrapolati da qualche volonteroso studio locale. Valutare l’impatto del GAP (gioco d’azzardo patologico) è invece importante, perché significa sapere come attrezzare i servizi, capire quali investimenti effettuare per le cure, significa soprattutto voler “vedere” il problema e smascherare l’ipocrisia che fino ad ora, sul gioco d’azzardo, ha consentito di capitalizzare i tanti profitti (dell’industria delle scommesse, dello Stato, della criminalità) ignorando i costi della dipendenza.

Non c’è giocatore d’azzardo patologico che non si sia indebitato con qualche finanziaria per decine di migliaia di euro. Alcuni sono diventati facile preda degli usurai. Altri sono andati in rosso coi conti bancari, poi hanno chiesto tutti i prestiti possibili a parenti e amici, e infine hanno dilapidato i risparmi di casa, lacerando i rapporti familiari. Quando subentra la patologia, le sicurezze affettive consolidate sono messe in crisi dall’irrompere di emozioni negative e dall’insinuarsi di sentimenti ostili: all’inizio lo shock, quando la famiglia scopre l’impensabile, poi lo spavento e lo sgomento di fronte all’ammanco economico, la delusione per il tradimento del patto di lealtà domestica; poi la rabbia per il danno subito e il rancore di fronte alla difficile quotidianità dei debiti da sanare. Si instaura in famiglia un clima di tormentato sospetto, che cresce di fronte alle reiterate e disattese promesse di smettere, avvelenando così i rapporti. La vergogna, ancora più che la colpa, getta un’ombra di fallimento che tramite il giocatore avvolge l’intera famiglia. E’ la cronaca a dirci che, ogni tanto, qualcuno “non regge”, e si ammazza.

E sempre la cronaca ci ha recentemente raccontato la notizia di un bambino trovato chiuso in auto dai suoi genitori, totalmente “presi” dalle “slot-machines”: è il tipo di episodio che generalmente costituisce la classica “prova manifesta”, la “pistola fumante”, in base alla quale i Tribunali dei Minori sottraggono la potestà genitoriale a madri e padri tossicodipendenti da eroina.

Il Codice Penale (artt. 718-723) vieta il gioco d’azzardo, ma la legislazione in deroga, tramite le concessioni rilasciate da Monopoli di Stato, fa dell’Italia una delle nazioni al vertice mondiale per il fatturato del settore. Se si applicasse all’azzardo la terminologia utilizzata per le droghe illegali, si parlerebbe di “pusher” per chi ne favorisce la diffusione e di “cupole” per quanti ne traggono profitti, spesso illeciti. Forse è per questo che si vuole continuare a negare la realtà della dipendenza da gioco, chiaramente indotta dall’abnorme espansione dell’offerta, a sua volta resa possibile dalla progressiva “liberalizzazione” del settore, avallata da 15 anni di governi, che si sono succeduti continuando a marciare nella direzione del profitto (nel 2011, circa 80 miliardi di euro di fatturato legale, di cui quasi 9 miliardi sono andati allo Stato). Le richieste di porre un freno, di correggere il tiro, di assumersi la responsabilità delle conseguenze e di cambiare rotta poste dalle associazioni “che raccolgono i cocci” di questa dipendenza indotta, sono rimaste puntualmente e totalmente inevase. Al contrario, sulle droghe si mantiene il “pugno duro” e la “Fini-Giovanardi” non si tocca. Consentiteci una domanda ingenua: qual’è la logica di tutto questo?

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