Il giorno in cui mi sono amato per davvero

Charlie Chaplin

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho capito che in ogni circostanza ero al posto giusto, nel momento giusto. E allora ho potuto rilassarmi.
Oggi so che si chiama Stima di sé.

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho percepito che la mia ansia e sofferenza emozionale non erano altro che un segnale quando contrasto le mie convinzioni.
Oggi so che si chiama Autenticità.

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho cessato di volere una vita diversa ed ho cominciato a vedere che tutto quello che mi succede contribuisce alla mia crescita.
Oggi so che si chiama Maturità.

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho cominciato a vedere l’abuso nel forzare una situazione od una persona con l’unico scopo di ottenere ciò che voglio, sapendo benissimo che né la persona né io siamo pronte e che non è il momento.
Oggi so che si chiama Rispetto.

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho cominciato a liberarmi da tutto ciò che non mi era salutare, persone, situazioni, tutto ciò che abbassava la mia energia.
All’inizio la mia ragione chiamava questo Egoismo.
Oggi so che si chiama Amor Proprio.

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho smesso di temere il tempo libero ed ho smesso di elaborare tanti piani, ho abbandonato i grandi progetti per il futuro.
Oggi faccio ciò che è giusto, ciò che mi piace, quando mi piace e secondo il mio ritmo.
Oggi so che si chiama Semplicità.

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho smesso di voler sempre avere ragione e mi sono reso conto di tutte le volte in cui mi sono sbagliato.
Oggi so che si chiama Umiltà.

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho smesso di rivivere il passato e di preoccuparmi per il futuro.
Oggi vivo nel presente, lì dove la vita si svolge.
Oggi vivo una sola giornata alla volta e so che si chiama Pienezza.

Il giorno in cui mi sono amato per davvero
ho capito che la mente poteva ingannarmi e deludermi ma che se la metto a servizio del cuore
diventa un’alleata preziosa.

Tutto questo è Saper vivere.

Charlie Chaplin

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Vivere non recitare! Libertà e leggerezza! Insomma vivere alla Rovescia

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“Eleonora da anni tiene lezioni di Arte Zen, che permettono alle persone di scoprire capacità eccellenti nella pittura. Molti sono convinti di non essere capaci di dipingere. Ma se disattivano alcuni meccanismi che generano la paura di sbagliare, tutti si scoprono provvisti di un esuberante senso dell’armonia e del colore. E scoprono anche che dipingere dà gusto. Sono anni che sperimentiamo con centinaia di persone quanto è semplice mollare alcuni condizionamenti e darsi all’arte di scrivere, recitare, ballare.

Fare arte, esprimere armonia e creare stupore, sono capacità innate. Tutti sanno raccontare a un amico un fatto che ha provocato emozione. Ma quando ci si trova di fronte a un pubblico pare impossibile fare la stessa cosa. I corsi di Yoga Demenziale e i laboratori artistici di Alcatraz sono sostanzialmente percorsi che permettono alle persone di scoprire capacità e conoscenze istintive che possiamo rendere disponibili subito e senza grande fatica. Basta creare un’atmosfera di gioco e vien fuori che sei capace di fare quel che pensavi di non saper fare. Ultimamente Eleonora è riuscita a realizzare un salto di qualità nelle sue lezioni. Prima di proporre alle persone di iniziare a dipingere chiede che tutti, uno per volta, si mettano di fronte a lei e si presentino definendosi artisti: “Piacere, sono Giovanni e sono un artista!” Può sembrare un’azione puerile e con poco senso, ma quel che succede è straordinario. Nel momento in cui una persona, di fronte a decine di altre, si trova a presentarsi definendosi “artista”, scatta qualche cosa nella sua testa: si sente artista! Le parole hanno un potere immenso quando le pensiamo ma ancor di più ce l’hanno quando le pronunciamo ad alta voce. Anche se ognuno sa che è solo un gioco, non può fare a meno di provare a sentire come ci si sente a essere un artista. Se ti dico: “Andiamo al mare e ci buttiamo nell’acqua fresca!” tu non riesci a impedire che il tuo cervello produca l’immagine mentale del mare e la sensazione del fresco sulla pelle. È un meccanismo di una potenza assoluta; anche se vuoi impedire che immagini e sensazioni si proiettino nella tua mente, non ci riesci. Ugualmente se dico: “Io sono un artista!” per forza mi sento un po’ artista. E le persone si divertono a pronunciare questa affermazione. È una situazione infantilmente comica e le persone giocano spontaneamente a inventare un tono di voce, un’espressione del viso, un ammiccamento del corpo, che dia spessore evocativo alle parole. Ci si chiede inconsciamente: “Come si presenta un artista? Come stringe la mano? Come si atteggia con il corpo? Come trasmette il suo essere ARTISTA?”. E istantaneamente ognuno trova la sua risposta a queste domande e si trova a scegliere un registro, un tono, rappresentando la sua idea dell’essere artista. Siamo superlativi nella capacità di ATTEGGIARCI. Siamo bravissimi a inventarci una parte e interpretarla. Ed è incredibile il potere che ha su di noi la parte che interpretiamo. A questo proposito cito il grande Dalì. Un giorno un giornalista gli chiese: “Quando ha capito di essere un genio?” E Dalì rispose: “Quando ho iniziato a dire che ero un genio!”

È stato sufficiente che Eleonora proponesse questo gioco del “io sono un artista” per ottenere una serie di cambiamenti a catena. Prima che Eleonora inventasse questa piccola sceneggiata le persone mentre dipingevano, le rivolgevano moltissime domande: “Come mischio i colori? Va bene se qui metto un giallo? Quanta acqua ci vuole nel pennello?” Invece le persone che hanno dichiarato: “Io sono un artista!” Quando iniziano a dipingere non chiedono più nessun consiglio tecnico. “Sono un artista e l’artista fa quel che gli viene in mente! Per questo è un artista!”

Eh già! L’artista nella nostra società è proprio questo. Ogni professione genera un modo di essere delle persone. Se pensiamo a un avvocato, a un muratore, a un medico, a un contadino, subito ci vengono in mente modi di essere più o meno composti, controllati, affettati. Il ruolo sociale evoca un certo modo di comportarsi, di parlare, di ragionare. Non possiamo immaginare un Papa che ride sguaiatamente, un chirurgo che salta sul tavolo e balla il tip tap, un giudice che scoreggia a trombetta. L’artista invece è uno imprevedibile, proprio perché è un artista, si pone al di fuori delle convenzioni comportamentali. Fa quel che gli pare e trae addirittura guadagno dalla sua capacità di sorprendere, di fare qualche cosa di nuovo. Quindi tolleriamo da un artista comportamenti che sarebbero disdicevoli per altre categorie professionali. Un idraulico che fa il buffone sarà capace di aggiustarmi la caldaia?
Quando siamo al lavoro, in famiglia, con gli amici, quante energie spendiamo nel comportarci secondo certi schemi? Nell’aderire all’idea che abbiamo di quel ruolo? E come è stato possibile insegnarci a comportarci in un certo modo a seconda delle situazioni?

Sicuramente è un processo lungo e complesso insegnare a una scimmietta maleducata il comportarsi da persona civile. Genitori, parenti, vicini di casa e insegnanti si sono impegnati parecchio in un martellamento costante che è durato decenni. Non è stato facile insegnarci a non farci la pipì addosso, non buttare giù gli oggetti dai tavoli, non infilarci le dita nel naso in pubblico. Migliaia di volte ci è stato ripetuto di non urlare, non correre, non toccare le parti intime nostre e altrui, non piangere, non ridere, non disturbare.

Saluta!
Siediti!
Taci!
Stai immobile!
Fai i compiti!
Pulisciti il naso!
Perché non si fa!

Centinaia di ordini impartiti quotidianamente, ogni ora, un bombardamento di imposizioni, minacce, blandizie, ricatti, premi. Attraverso questo mitragliamento e osservando il comportamento degli adulti e delle persone di successo siamo riusciti a compiere un’azione di enorme complessità: abbiamo interiorizzato inconsciamente una serie di modelli di comportamento. Infatti, nel processo educativo non esistono momenti in cui ci viene descritto per filo e per segno come ci dobbiamo comportare, come dobbiamo reagire, come dobbiamo interpretare il nostro ruolo sociale… A chi dobbiamo dare del tu o del lei. Fin da bambini gli umani dimostrano una spiccata capacità di estrarre regole generali e particolari direttamente da un insieme di esperienze. E questo processo crea una specie di Pietra di Paragone comportamentale che diventa il fulcro delle nostre scelte e dei nostri giudizi e lo strumento per decidere quale carattere dare al nostro comportamento nelle diverse situazioni. E riusciamo a scegliere cosa è appropriato e cosa no nel tempo di un battito di ciglia, senza neppure rendercene conto. È un processo inconscio. E difficilmente poi, da adulti, ci troviamo a riflettere su questi processi inconsci che utilizziamo per governare il nostro comportamento e giudicare quello degli altri. Quando incontriamo una persona per la prima volta non ci accorgiamo neppure di sottoporla a un’analisi più profonda e articolata di una Tac. Osservando le sue azioni, il suo modo di parlare, di vestire, di guardare, giudichiamo se questa persona rientra nei canoni di comportamento sociale ammesso o è un deviante. Ci mette subito in allarme una persona che si avvicina troppo quando ti parla, che gesticola troppo, che non segue un filo logico coerente nel discorso… Sono decine, centinaia, i segnali che interpretiamo, sommiamo e sottraiamo e dopo un istante ci arrivano le somme, realizzate da un ufficio contabilità nascosto in  aree misteriose della nostra coscienza. E istantaneamente altre zone altrettanto sconosciute di noi stessi ci forniscono schemi di comportamento da adottare in quella precisa situazione, visto l’incasellamento scelto per quel nuovo interlocutore. Ovviamente in questo processo ha anche un grande peso un altro sistema di giudizio, più animale, che riguarda le sensazioni di pelle, empatiche, che istintivamente una persona genera in noi. Ma questo livello emotivo è strettamente connesso con la sensazione che ci dà la capacità di quella persona di aderire a un registro comportamentale socialmente efficiente e rispettoso del Sistema Relazionale Vigente.

Ma questo lavorìo sottintende una grande ansia da prestazione ed è la fonte della paura di non essere all’altezza. Viviamo sotto la costante minaccia costituita dalla possibilità che la nostra anima spontanea ci faccia fare brutta figura. Siamo spesso in ansia perché abbiamo paura che il nostro comportamento provochi la disapprovazione degli altri. Una parte di noi stessi continua per tutta la vita a sentirsi una creatura di pochi anni ancora esposta al fuoco di fila dei rimbrotti dovuti a comportamenti disapprovati dalla collettività. È una molla potente della nostra vita. Ed è un meccanismo che dovremmo mettere in discussione: quanta energia mi costa impegnarmi a essere come ci si aspetta che io sia? E mi conviene investire così la mia capacità di sforzo e attenzione? La mia risposta è che il bailamme di ruoli non conviene. È uno spreco e soprattutto una limitazione. Mi porta all’abitudine a vedere me stesso secondo schemi prefissati, mi impedisce di sperimentare nuovi approcci e nuove parole. Se negli incontri con altri esseri umani scelgo sempre di adeguarmi a un codice che tutti riconoscono subito come corretto, ne consegue che le persone conoscono già la sostanza di quello che dirò ancor prima di ascoltarmi. Essere secondo gli schemi mi rende prevedibile e quindi mi rende banale agli occhi degli altri proprio perché rinuncio a fare quel che mi viene in mente ma è fuori dagli schemi. Continue Reading

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Domenica in Poesia: Vivere una sola vita

 

Vivere una sola vita
in una sola città,
in un solo paese,
in un solo universo,
vivere in un solo mondo
è prigione.

Amare un solo amico
un solo padre
una sola madre
una sola famiglia
amare una sola persona
è prigione

Conoscere una sola lingua
un solo lavoro
un solo costume
una sola civiltà
conoscere una sola logica
è prigione.

Avere un solo corpo
un solo pensiero
una sola conoscenza
una sola essenza
avere un solo essere
é prigione

Ndjock Ngana Poeta camerunense

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