La produzione alimentare globale è in pieno boom: produciamo cibo per sfamare 13 milioni di persone.
Ma chi produce il cibo “vero” per sfamare il mondo? Continue Reading
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Ecco l’elenco dei prodotti che contengono residui chimici, micotossine, additivi e coloranti al di fuori dalle norme di legge, presentata dalla Coldiretti, sulla base delle analisi condotte dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) nel Rapporto 2015 sui Residui dei Fitosanitari in Europa. Broccoli cinesi, fragole dal Marocco, prezzemolo del Vietnam, basilico dell’India, peperoncino della Thailandia e piselli del Kenya. Il primato delle irregolarità va alla Cina. Continue Reading
Entro il 2050 la popolazione mondiale si prevede possa aumentare di oltre 2 miliardi di esseri umani rispetto agli oltre 7,3 attualmente presenti (raggiungendo i 9,7 miliardi) (United Nations, 2015). Con ogni probabilità questo incremento potrebbe condurre a un raddoppio della domanda di cibo, come suggerito da diversi studi.
La domanda alimentare si prevede in incremento nei prossimi decenni, a causa di una popolazione mondiale in crescita e dei mutamenti che si verificheranno nella composizione della dieta e nei livelli di consumo associati all’incremento dell’urbanizzazione dei paesi di nuova industrializzazione (dalla Cina all’India, dal Brasile al Sud Africa, ecc.). Tutto questo potrebbe richiedere un aumento nella produzione agricola del 70%.
Ciò determinerà inevitabilmente ulteriore perdita di biodiversità e incremento delle emissioni di gas a effetto serra e inquinamenti di vario tipo. Inoltre l’espansione delle coltivazioni per ottenerne biocarburanti causerà un’ulteriore pressione sui sistemi naturali.
L’agricoltura ha già distrutto o trasformato radicalmente il 70% dei pascoli, il 50% delle savane, il 45% delle foreste decidue temperate e il 25% delle foreste tropicali. Dall’ultima era glaciale, nessun altro fattore sembra aver avuto un impatto tanto distruttivo sugli ecosistemi. L’area occupata dalle attività agricole è pari a 60 volte quella occupata globalmente da strade ed edifici.
Se escludiamo Groenlandia e Antartide, attualmente coltiviamo il 38% delle terre emerse. L’agricoltura è di gran lunga l’attività umana che usa più terreno in assoluto sul Pianeta e la maggior parte di questo 38% include i terreni migliori. Il resto è costituito principalmente da deserti, montagne, tundra, ghiaccio, città, parchi naturali e altre aree non adatte alla coltivazione. Le poche frontiere ancora disponibili si trovano nelle foreste tropicali e nelle savane, che però sono fondamentali per la stabilità degli equilibri dinamici del Pianeta, specialmente come sink di carbonio e riserve di biodiversità. Espandere le coltivazioni in queste aree costituirebbe un grave errore, tuttavia negli ultimi 20 anni sono stati creati tra i 5 e i 10 milioni di ettari di coltivazioni l’anno, di cui una parte significativa nelle zone tropicali. Questo incremento ha però portato a un aumento netto di terreno coltivato pari solo al 3%, a causa delle perdite dovute, per esempio, allo sviluppo delle aree urbane, in particolare nelle zone temperate.
Le attività umane, comprese quelle relative alla produzione, trasformazione, confezionamento, distribuzione, vendita al dettaglio e consumo di cibo, sono in parte responsabili dei cambiamenti climatici in atto a causa delle emissioni di gas serra delle attività agricole e zootecniche e cambiamenti d’uso del suolo. Queste attività stanno contribuendo a modificare anche altri aspetti del cambiamento ambientale globale (Global Environmental Change, GEC), comprese le alterazioni nell’approvvigionamento di acqua dolce, nella qualità dell’aria, nel ciclo dei nutrienti, nella biodiversità, nella copertura del suolo e dei terreni.
Il raggiungimento della sicurezza alimentare per tutta la popolazione mondiale è chiaramente una sfida più complicata del semplice incremento della produzione alimentare; il mondo, infatti, produce un quantitativo di cibo più che sufficiente per tutti, ma – ancora oggi – 795 milioni di persone (vale a dire una su nove) soffrono la fame (FAO, IFAD and WFP, 2015). Nonostante i progressi significativi, diverse regioni e sub-regioni continuano a restare indietro. In Africa sub-sahariana, più di una persona su quattro rimane cronicamente sottoalimentata, mentre l’Asia, la regione più popolosa del mondo, è anche la regione dove si concentra il maggior numero delle persone che soffrono la fame – 526 milioni (FAO, IFAD and WFP, 2015).
La questione fondamentale, però, come sottolineato dalle tre agenzie delle Nazion i Unite, riguarda l’accesso a cibo, piuttosto che la produzione alimentare. Il consumo di carne pro capite, infatti, è in continuo aumento, dal 1995 è incrementato globalmente del 15% come ricorda il Worldwatch Institute. E’ la Cina il paese leader nel consumo di carne a livello mondiale ( nel 2012 ha raggiunto un consumo annuale di 71 milioni di tonnellate, più del doppio di quello degli Stati Uniti) Anche la dieta europea è notevolmente cambiata nel corso degli ultimi 50 anni e molti di questi cambiamenti sono andati nella direzione di una maggiore assunzione di carne. Secondo la FAO, in Italia il consumo di carne è aumentato di oltre il 190% dal 1961 (31 kg pro capite l’anno) al 2011, con 90 kg pro capite l’anno. Numeri che fanno riflettere dato che oggi, nonostante si produca nel mondo un quantitativo di cibo più che sufficiente per tutti, soffrono ancora la fame ben 795 milioni di persone, quasi una su nove di cui oltre la meta’ in Asia.
La lotta contro la fame tornerà indietro di decenni a causa dei cambiamenti climatici se non si interviene urgentemente. Rispetto a un mondo senza cambiamenti climatici, nel 2050 potrebbero esserci 25 milioni in più di bambini malnutriti di età inferiore ai 5 anni, ovvero l’equivalente di tutti i bambini di quell’età di Stati Uniti e Canada (come indica Oxfam). Il Quinto e ultimo Rapporto dell’IPCC mostra che l’impatto del cambiamento su queste problematiche legate alla sicurezza alimentare, alla nutrizione, ai mezzi di sussistenza sarà peggiore di quanto precedentemente stimato e le conseguenze saranno avvertite molto prima, cioè già nei prossimi 20-30 anni. I cambiamenti climatici potrebbe far lievitare il prezzo di mais, frumento e riso del 120-180% come ricorda anche Oxfam. Ad avvalorare la tesi, negli ultimi anni ci sono stati tre picchi dei prezzi degli alimenti a livello globale: nel 2008, nel 2010 e nel 2012. Si ritiene che milioni di persone migreranno da zone sempre più aride a zone più fertili.
Le soluzioni? Passare dai sistemi di produzione alimentare dominanti al livello planetario, ad alto consumo di risorse naturali (come, ad esempio, il terreno fertile), all’agroecologia (con minimo utilizzo di fertilizzanti e pesticidi e input – come il letame e i concimi organici – prodotti localmente) e alla pesca sostenibile. L’85% degli stock ittici mondiali è pienamente sfruttato o sovrasfruttato o esaurito. 160 milioni di tonnellate di pescato, di cui il 44% da acquacoltura, sono volumi non più sostenibili. Occorre incoraggiare i pescatori, i fornitori, i compratori e i venditori a impegnarsi per la certificazione sostenibile del pescato e la tracciabilità della filiera. “L’impatto del cambiamento climatico sulla produzione alimentare e gli effetti di pratiche agricole dannose per il clima sono già una realtà”, ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia, “l’obiettivo è quello di creare sistemi alimentari fortemente integrati con la vitalità dei sistemi naturali e della biodiversità (il nostro capitale naturale costituito da suolo, acqua, foreste e specie ecc. ), che producano con il minor danno per l’ambiente e il clima”.
* Report WWF “IL CLIMA NEL PIATTO” diffuso alla vigilia della Giornata Mondiale dell’Alimentazione che si celebrerà in tutto il mondo venerdì 16 ottobre
Gli insetti saranno il cibo del futuro? Pochi, nel mondo occidentale e soprattutto in Italia, accettano di considerare questi come potenziale componente della loro dieta. Eppure le ragioni che porterebbero a farlo sono numerose. Di fatto gli insetti sono l’alimento proteico più sostenibile, nutriente, ricco di proteine e amminoacidi essenziali, di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, fibre, di minerali e vitamine, poveri di grassi e di colesterolo. E per il momento sono alimenti non monetizzabili.
A quanto pare, l’Expo di Milano sarà l’occasione giusta per promuovere, anche in Italia, il consumo di insetti. La Ue, dal 2012, ha stanziato un fondo di 3 Milioni di Euro per ogni Paese della comunità europea che incentivi l’entomofagia (ovvero il consumo di insetti da parte dell’uomo).
L’entomofagia, secondo un rapporto Fao, è praticata in molti paesi del mondo e soprattutto in alcune parti dell’Asia, Africa ed America Latina. Gli insetti integrano la dieta di circa 2 miliardi di persone ed hanno sempre fatto parte dell’alimentazione umana. Tra le specie che già vengono consumate ci sono coleotteri, bruchi, api, vespe e formiche, ma anche cavallette, locuste e grilli. In totale si contano circa 2000 specie commestibili.
Crescita della popolazione, l’urbanizzazione e l’incremento delle classi medie hanno aumentato la domanda globale di cibo, ed in particolare di fonti di proteine animali. Nel 2030 dovranno essere nutrite più di 9 miliardi di persone, assieme ai miliardi di animali allevati annualmente per l’alimentazione o per fini ricreativi come gli animali da compagnia.
Secondo gli esperti della Fao, uno dei modi per affrontare il problema della sicurezza alimentare e dei mangimi passa attraverso l’allevamento di insetti. Gli insetti vivono ovunque e si riproducono velocemente, presentano un alto tasso di crescita e di conversione alimentare e un basso impatto ambientale durante tutto il loro ciclo di vita. Al contrario la produzione di carne contribuisce per il 14-22% alle emissioni annuali di gas con effetto serra, più di industria e trasporti insieme. Una bistecca di 220 g costa, in termini di emissioni di gas serra, quanto fare circa 16 km con un’auto da 11 km/l, mentre gli stessi quantitativi di patata, mela, pollo e maiale costano rispettivamente 280 m, 320 m, 1,2 km e 4 km. Per non parlare dei quantitativi d’acqua necessari alla produzione di carne e dell’immisione di nitrati.
Gli insetti sono nutrienti, con contenuti molto alti di proteine, grassi e minerali. Possono essere allevati su scarti alimentari. Inoltre possono essere consumati interi o ridotti in polveri o paste ed incorporati in altri tipi di cibo. L’uso su larga scala degli insetti come ingredienti per cibi è tecnicamente praticabile e industrie presenti in varie parti del mondo sono già impegnate in questa produzione. Per esempio, l’uso di insetti come mangime per l’acquacoltura e l’alimentazione di pollame diverrà sempre più comune nei prossimi dieci anni.
Ma l’entomofagia è pericolosa? Non ci sono casi conosciuti di trasmissione all’uomo di malattie o parassiti causati dal consumo di insetti (a condizione che gli insetti siano trattati nelle stesse condizioni sanitarie di qualsiasi altro cibo). Sono state segnalate reazioni allergiche che sono tuttavia comparabili a quelle nei confronti di crostacei, che sono sempre degli Artropodi. In confronto a mammiferi ed uccelli, gli insetti possono presentare meno rischi di trasmettere zoonosi all’uomo e al bestiame, sebbene questo richieda ulteriori ricerche.
La Commissione di 75 tecnici ed esperti istruita per valutare il potenziale degli insetti per la produzione di alimenti e mangimi ha indicato le seguenti aree chiave per sviluppare ed automatizzare:
1) un tipo di allevamento degli insetti vantaggioso, efficiente dal punto di vista energetico e microbiologicamente sicuro;
2) tecnologie per la loro raccolta e trattamento;
3) opportune procedure sanitarie che assicurino la sicurezza degli alimenti e dei mangimi e portino alla produzione di prodotti ad un prezzo ragionevole ed a scala industriale, in confronto alla produzione di carne tradizionale.
La proposta della Fao ha sicuramente una sua utilità ma serve anche a nascondere un fatto ineccepibile: le istituzioni deputate a combattere la fame nel mondo, che esistono da cinquanta o sessant’anni, hanno clamorosamente fallito.
Il 2012 per l’agricoltura italiana può essere considerata una delle annate più difficili degli ultimi 20 anni, brusco calo produttivo e crisi della domanda interna, complice la crisi del Paese. Ma l’export e il made in Italy continuano a crescere. Questa è la fotografia che emerge dall’Annuario dell’agricoltura italiana 2012, pubblicato dall’INEA.
All’interno del sistema economico nazionale l’agricoltura ha risentito più di altri settori del complessivo andamento recessivo che ha colpito il Paese nel corso del 2012. La variazione negativa del valore aggiunto è stata netta (-4,4%), segnando una caduta che segue due anni di già scarsa vivacità. Il cattivo risultato, peraltro, è stato attenuato dall’incremento dei prezzi dei beni prodotti dal settore primario (+5,2%), che è venuto meno al suo tradizionale ruolo di contenimento inflattivo, consentendo però il mantenimento del peso dell’intera branca agricoltura, silvicoltura e pesca (Asp) sul Pil nazionale stabile al 2%.
Il valore della produzione dell’attività agricola in senso stretto si è collocato appena al di sotto dei 50,5 miliardi di euro correnti, ma in termini reali si è registrata una riduzione dei livelli produttivi (-3,2%) che, congiuntamente al contenimento dell’impiego di fattori intermedi (-1,9%), confermano la pesante battuta d’arresto del settore primario. Sul risultato finale hanno influito in misura drastica, da un lato, i ridotti investimenti settoriali, fortemente condizionati dalle sempre più critiche condizioni di accesso al credito, dall’altro, le difficili condizioni di contesto. Tra queste ultime, un ruolo particolare ha avuto l’andamento climatico, che in più fasi ha funestato l’attività produttiva, a cui si sono associati i danni derivanti dalla diffusione di alcune specifiche fitopatie (aflatossine, micotossine, cinipide) che hanno colpito molte produzioni e penalizzato il livello qualitativo di importanti comparti, oltre agli effetti catastrofici connessi al sisma che ha colpito l’area padana nella primavera del 2012.
A farne le spese sono state in prevalenza le coltivazioni agricole, a vantaggio del comparto zootecnico e delle attività di supporto all’agricoltura; queste ultime, in particolare, vantano la migliore dinamica settoriale del 2012, poiché registrano l’unica significativa variazione positiva, sia in termini correnti (+5,6%), che in termini reali (+1,3%), che trova conferma in tutti i singoli contesti regionali, inserendosi in un consolidato processo di rafforzamento ben evidenziato dai dati di medio periodo. Di segno opposto, invece, è risultato l’andamento delle attività secondarie, che mostrano un calo significativo soprattutto in termini reali (-2,6%).
Le negative dinamiche settoriali, a prima vista, sembrerebbero non aver inciso sul lavoro, poiché il numero degli occupati è rimasto nel complesso pressoché immutato e di poco inferiore a 850.000 persone, di cui il 29% rappresentato da donne.
L’Italia continua a mantenere la fetta più consistente del registro dei prodotti Dop e Igp dell’ue (pari a 1.167, comprese anche le Stg), segnando un ulteriore incremento delle registrazioni, giunte a quota 252. La maggior parte delle nostre specialità si concentra nei prodotti dell’ortofrutta e dei cereali, nei formaggi, negli oli extravergine d’oliva e nei salumi. Nel periodo 2004-2012 si è registrato un consistente aumento delle aziende agricole (+38,7%), degli allevamenti (+50%), della superficie impiegata (+40,7%) e dei trasformatori (+22%).
L’Italia si colloca al primo posto anche per quanto riguarda i vini a indicazione geografica, con 521 registrazioni tra Docg, Doc e Igt. Le superfici investite a tali vini sono stimate in circa 355.000 ettari, ovvero oltre la metà del totale delle superfici vitate. La loro produzione, attestatasi nella vendemmia 2012 a circa 29 milioni di ettolitri, rappresenta una quota sempre più rilevante del vino complessivamente prodotto in Italia (70%).
Per quanto riguarda la sicurezza alimentare, nel 2012, sono pervenute al sistema europeo per i controlli alimentari 3.516 notifiche, circa l’8% in meno rispetto al 2011, relative a prodotti alimentari (82,1% del totale), mangimi (9,4%) e materiali a contatto con gli alimenti (8,5%). L’Italia, con 517 notifiche (15% del totale), è al primo posto per numero di segnalazioni, distinguendosi per l’efficacia dei propri sistemi di controllo.
Nel 2012 l’industria alimentare italiana ha rafforzato la sua posizione segnando una delle poche variazioni positive del valore aggiunto (+3,4% a prezzi correnti; +0,5% a valori concatenati) all’interno del manifatturiero, sostenuta da una crescita del fatturato (+2,3%) in linea con quanto registrato negli ultimi anni. Tale crescita è attribuibile prevalentemente alla componente del mercato estero (+5,6% dell’indice di fatturato di riferimento), che ha rappresentato la principale opportunità per l’espansione del settore agro-alimentare nazionale. I risultati sono stati positivi anche grazie ai buoni risultati conseguiti dalle esportazioni di gran parte dei prodotti associati alla reputazione del nostro Paese: il cosiddetto made in Italy. Tra questi, spiccano in particolare gli ottimi risultati conseguiti dai vini – soprattutto gli spumanti (+15,8%) –, dai prodotti dolciari (+15,2%), dai salumi e dai formaggi. Oltretutto, sembrano presenti ancora importanti margini di crescita per le esportazioni del settore, basti pensare alle opportunità connesse alla riappropriazione di quote di mercato oggi occupate dal cosiddetto Italian sounding.
Sul fronte strutturale, i primi dati del censimento dell’industria e dei servizi (2011) dell’Istat mostrano una contrazione del numero delle imprese operanti nell’industria alimentare (-14% nel decennio), che ammontano così a 54.931, cui si sommano 2.874 imprese operanti nel comparto delle bevande (-4,3%), per un totale di 57.805 imprese nell’intero aggregato. Il numero complessivo di addetti è di 420.312, pari a poco meno dell’11% del totale manifatturiero. Nonostante le dinamiche osservate, permane la forte incidenza di micro imprese di carattere artigianale, soprattutto per la presenza di quelle specializzate nella produzione di prodotti da forno e farinacei (64,5% dell’intero settore), cui si associa spesso la forma di conduzione come impresa individuale, che rappresenta quasi la metà del totale.
Segnali incoraggianti derivano anche dagli ultimi dati disponibili sul mondo della cooperazione agro-alimentare, che confermano il ruolo di assoluto rilievo delle forme organizzate in Italia. Infatti, anche nel 2012 le quattro centrali di rappresentanza (Fedagri-Confcooperative, Legacoop Agroalimentare, Agci- Agrital e Ascat-Unci) evidenziano, pur nella differenza di risultati, andamenti in prevalenza positivi, soprattutto in relazione al fatturato. A livello internazionale, un riconoscimento dell’importante ruolo svolto dal sistema cooperativo è giunto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite che ha proclamato il 2012 come “Anno internazionale delle cooperative”, al fine di mettere in risalto il contributo che queste danno allo sviluppo socio-economico, riconoscendo il loro impatto sulla riduzione della povertà, sull’occupazione e sull’integrazione sociale. Gli obiettivi principali alla base di questa iniziativa sono quelli di promuovere la formazione e l’espansione delle cooperative e incoraggiare i governi ad adottare politiche che ne favoriscano la formazione, la crescita e la stabilità. Una delle componenti che ha inciso in misura più negativa sulle dinamiche del settore agro-alimentare nel 2012 è rappresentata dalla ridotta capacità di spesa dei consumatori, connessa alla caduta della disponibilità di reddito e alla conseguente perdita di potere d’acquisto delle famiglie (-4,8%). Le difficoltà si sono tradotte principalmente nella riduzione generale dei consumi, sia sul fronte della qualità, che della quantità, coinvolgendo spese impensabili fino a solo qualche anno fa, tra le quali proprio quelle per generi alimentari. Nel complesso, i consumi per alimenti e bevande non alcoliche, in termini correnti, hanno fatto registrare una contrazione della spesa (-0,4%), attestatasi a 138,8 miliardi di euro, mentre la contrazione a valori concatenati è risultata molto maggiore (-2,9%), per effetto della crescita dei prezzi dei generi alimentari (+2,5%).
La dimensione della crisi ha impresso un rapido mutamento nelle dinamiche di acquisto, già profondamente rimodulate da cambiamenti a carattere strutturale (composizione delle famiglie), teso a evitare gli sprechi, ridurre il budget di spesa media, contenere i pasti extra-domestici. All’interno di questi processi, tuttavia, i consumatori hanno mostrato propensione all’acquisto di prodotti molto diversi – low cost e promozioni, accanto a prodotti di qualità, passando per il biologico, il salutista e i prodotti pronti per l’uso – selezionando canali di vendita molto differenziati. In questo quadro emergono anche fenomeni di grande preoccupazione; infatti risultano in aumento le condizioni di grave disagio nutrizionale, con il 15,8% della popolazione totale che vive in una situazione di povertà relativa, non riuscendo ad assicurarsi un apporto calorico adeguato (Istat). Al contempo, cresce anche il numero di italiani in sovrappeso o obesi, proprio all’interno delle fasce più deboli della popolazione, dove è più frequente il consumo di alimenti ricchi di zuccheri e addizionati con grassi di scadente qualità.
Gli effetti sui consumi alimentari si sono riverberati su un ripensamento strategico del settore della distribuzione di generi alimentari in Italia, che ha mostrato un incremento del valore delle vendite presso la grande distribuzione (+1,4%), a fronte di una diminuzione significativa nelle piccole superfici del dettaglio tradizionale (-2,7%). Le maggiori insegne della distribuzione hanno mostrato un forte orientamento al prezzo, rafforzando le linee di prodotto di primo prezzo, le vendite promozionali e la pressione pubblicitaria. Accanto a questa strategia è proseguita anche la tendenza alla caratterizzazione dei prodotti: l’italianità, la tipicità, la sostenibilità ambientale e sociale.
Prosegue, infine, la propensione ad acquistare direttamente dal produttore agricolo, sia direttamente in campagna che dai mercati contadini o tramite i gruppi di acquisto solidale (Gas). Un altro fenomeno che si sta sviluppando sempre di più è quello degli degli hobby farmer, ovvero le persone che coltivano e curano un fondo agricolo per il consumo domestico. Cresce infine anche il numero di attività commerciali definite no store, cioè realizzate al di fuori della rete di vendita in sede fissa, tra le quali in particolare i distributori automatici di latte crudo e di acqua.