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Dall’Italian Sounding all’Italiana Laundering: Made in Italy a rischio

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L’Italia è il paese della buona tavola, del cibo di qualità, di prodotti unici al mondo. Buona parte del merito di questa unicità è rappresentato dal settore agroalimentare, da sempre fiore all’occhiello del Made in Italy che però non riesce a scrollarsi di dosso le vesti di Cenerentola. Oltre alla crisi, a rendere ancora più complicato negli ultimi anni lo sviluppo di questo settore vitale per l’economia del nostro Paese, anche l’appetito delle mafie. Camorra, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta sono state ancora una volta capaci di anticipare i tempi e ormai da anni hanno messo le mani su un business, quello dell’agroalimentare, il cui giro d’affari si attesta attorno ai 14 miliardi di euro l’anno, 7 dei quali provenienti solo dalla produzione agricola.

La forma più classica di Italian sounding consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani con l’utilizzo di nomi, parole, immagini che richiamano l’Italia, inducendo quindi ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani. È una forma di falso Made in Italy molto diffusa in àmbito internazionale nel settore agroalimentare, nel quale il nostro Paese può vantare una grande varietà di eccellenze. Oggi occorre però non trascurare la diffusione, accanto a questa pratica totalmente illecita, di una forma più raffinata di Italian sounding, legale, seppur, nei fatti, ingannevole. Se in passato era frequente la pratica di acquistare all’estero le materie prime per alimenti poi trasformati e lavorati in Italia e venduti come Made in Italy, in questi anni si è invece diffusa in misura crescente la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane. In questo caso il nome non soltanto suona italiano, ma viene unanimemente associato all’azienda che dal momento della sua nascita, per anni, ha messo sul mercato il prodotto. Il fenomeno si è notevolmente intensificato nel nuovo Millennio e mostra ulteriori segni di crescita negli ultimi tre anni. Quasi tutti i settori alimentari sono stati coinvolti, dalle bevande alcoliche ai dolci, dai salumi ai latticini. Gli acquirenti sono soprattutto aziende francesi, svizzere, spagnole e statunitensi. La Francia si è concentrata sul settore caseario, la Spagna sull’olio, i colossi multinazionali svizzeri e statunitensi hanno diversificato gli investimenti orientandosi su tipologie eterogenee di prodotti.

L’assorbimento di una fetta tanto importante del comparto agroalimentare nazionale da parte di aziende estere comporta lo svuotare di sostanza il marchio del Made in Italy, poiché sono sempre di più le realtà industriali, grandi e piccole, ormai italiane solo di nome. In molti casi il cambio di gestione determina una perdita della qualità, come conseguenza della delocalizzazione produttiva e della scelta di materie prime non locali. Piuttosto che la valorizzazione della diversità, che rappresenta uno dei valori del Made in Italy autentico, si favorisce l’omologazione. Questa particolare forma lecita di Italian sounding finisce anche per infrangere il patto di fiducia con i consumatori, tradendone di fatto le aspettative. È un paradosso tutto italiano. Da un lato si mobilitano energie per diffondere anche nei cittadini meno attenti la consapevolezza del valore aggiunto offerto dal marchio nazionale e si utilizza il Made in Italy come volano di un settore, quello alimentare, sempre più centrale in tempi di crisi. Dall’altro lato una parte tanto consistente di quelle imprese che del Made in Italy stesso erano rappresentative porta ormai bandiera straniera. Va ricordato che alcuni dei marchi italiani assorbiti da aziende straniere hanno potuto beneficiare di un processo di efficace riorganizzazione, rilancio e rafforzamento finanziario. Alcune realtà che rischiavano la chiusura sono riuscite a sopravvivere e, con un gruppo multinazionale forte alle spalle, a reggere il confronto con il nuovo mercato globalizzato. In generale, però, almeno nel settore agroalimentare, l’acquisizione da parte di aziende straniere coincide con lo svuotamento della componente realmente italiana del marchio e, talvolta, con l’assorbimento della concorrenza italiana o con una concorrenza irresistibile nei confronti delle altre imprese italiane dello stesso settore merceologico. Esiste inoltre la possibilità che i gruppi stranieri proprietari di aziende agroalimentari un tempo italiane si spingano a chiudere gli stabilimenti italiani e a trasferire l’intera produzione all’estero, dove i costi sono più contenuti. In questo caso si devono considerare i risvolti occupazionali del passaggio di proprietà, per la perdita di posti di lavoro in un settore cardine qual è quello dei prodotti alimentari fortemente connotati come italiani. Senza considerare i danni ambientali derivanti dal venir meno degli investimenti per il mantenimento del territorio. In questo meccanismo distruttivo basato sul classico Italian sounding e sulle sue forme più raffinate e legali, ma anche sull’agropirateria nelle sue diverse declinazioni, l’Italia è al tempo stesso vittima e colpevole. Sono molte le aziende costrette, per sopravvivere, ad adeguarsi a regole imposte dai grandi gruppi: produrre a costi bassissimi per restare sul mercato, il che è possibile solo ricorrendo a materie prime scadenti, sacrificando quindi la qualità. I danni che ne derivano sono molteplici: la privazione del marchio, l’abbassamento progressivo della qualità dei prodotti, l’imposizione di standard produttivi bassi alle aziende locali, che dovrebbero essere custodi delle produzioni tipiche e si trovano invece costrette a fare scelte che le mantengano competitive. Chi perde maggiormente in questo meccanismo sono da un lato i produttori locali, costretti ad abbassare qualità e prezzi, impoverendosi, dall’altro lato, ovviamente, i consumatori, cui arrivano prodotti sempre più scadenti. Nella dinamica che si sta così affermando gli alimenti falsi e di bassa qualità non sono soltanto quelli prodotti all’estero, ma anche quelli provenienti dalle aziende italiane.

L’Unione europea si configura come una delle aree di libero scambio più grandi del mondo, con un bacino di circa mezzo miliardo di utenti/consumatori. La libera circolazione delle merci impone agli Stati Membri un certo grado di corresponsabilità in merito a questioni estremamente sensibili, soprattutto nell’ambito della tutela del consumatore. Tale aspetto è particolarmente rilevante per quanto concerne il settore agroalimentare, dove i concetti di sicurezza e controllo della qualità diventano assolutamente centrali. La disparità tra le singole normative nazionali, la poca chiarezza della legislazione comunitaria, la discrepanza nei controlli alle frontiere esterne, rappresentano fattori che incidono non solo sulla “salute” del cittadino, ma anche sugli orientamenti economico-produttivi di un mercato volatile e soggetto ad una concorrenza estera sempre più pressante. Un nodo cruciale è rappresentato dalla labile linea di separazione tra prodotti “commestibili” e prodotti “di qualità”, la cui demarcazione non sembra essere possibile se non attraverso valutazioni di tipo soggettivo, influenzate più da fattori culturali che da parametri scientifici. La protezione dei prodotti genuini è una priorità soprattutto per alcuni Stati Membri, principalmente del Sud dell’Europa, che operano per difendersi da una concorrenza spesso ai limiti della legalità. In questo senso, la questione dell’etichettatura dei prodotti diventa centrale; tuttavia, l’Unione europea non sembra aver raggiunto un grado di raccordo soddisfacente in merito. L’infiltrazione criminale nel settore agroalimentare trae linfa dalle mancanze della normativa comunitaria, in quanto i produttori sono continuamente in cerca di soluzioni, anche illegali, per abbattere i costi e rimanere competitivi sul mercato.

*Eurispes-Coldiretti

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Più del 25% dei limoni consumati in Italia è di importazione

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Ha fatto scalpore nei giorni scorsi la notizia che i limoni della buvette dell’assemblea regionale siciliana non siano della Sicilia, la regione che produce quasi l’80 per cento dei limoni italiani, ma neppure nazionali, bensì di importazione. La realtà dei fatti è che, dati alla mano, oltre il 25 per cento dei limoni consumati in Italia è di importazione. Se nel 1995 l’Italia importava 17,8 milioni di chilogrammi di limoni, oggi le importazioni sono arrivate a superare i 103 milioni di chilogrammi.

La produzione nazionale, nello stesso periodo, da poco meno di 700 milioni di chilogrammi è crollata a poco più di trecento milioni di chilogrammi, sotto i colpi di prezzi troppo bassi e delle importazioni. E’ la globalizzazione, ci dicono i bene informati, come se si trattasse di un destino ineluttabile, legato al progresso  e chi non la pensa così è un arretrato, con una visione vecchia, stantia, delle cose e del mercato.

La realtà è un’altra. La crisi economica del Bel Paese nasce anche da questi numeri e dal fatto che gli italiani, spesso i politici in primis, non si rendono conto che, ognuno di noi, quando allunga la mano verso un prodotto o verso uno scaffale, senza curarsi di cosa sta acquistando, decide la vita o la morte di una impresa, il mantenimento o la perdita di posti di lavoro. Vale per i limoni, i cellulari o le calze.

Con la differenza che alcuni prodotti “italiani” proprio non ci sono più, mentre nell’agro-alimentare possiamo ancora scegliere. E intanto, oltre a nutrirci di prodotti di importazione, senza magari farci caso, spendiamo più di  87 miliardi di euro all’anno in lotterie, scommesse, etc. Sono circa 1.400€ a testa all’anno, più della metà di quanto spendiamo per il cibo.

Una maggiore presa di coscienza della ricaduta di gesti quotidiani come acquistare i limoni, solo per fare qualche esempio, l’uva, un pacchetto di pasta, una bottiglia di olio, un prosciutto o uno yogurt, è parte del contributo che ogni italiano può dare al rilancio dell’economia e dell’occupazione nel Belpaese.

199520112012
Import limoni17.850.000 kg98.003.644 kg103.360.095 kg
Produzione limoni Italia699.000.000 kg458.000.000 kg340.000.000 kg
Spesa degli italiani per lotterie, scommesse, etc.10 miliardi €79 milardi €87 miliardi di €

Dati Istat, elaborazione Coldiretti (*stima)

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Pubblicato l’elenco dei prodotti Dop e Igp italiani

L’iscrizione in registro rappresenta un’importante informazione sia per gli operatori del settore sia per i consumatori e garantisce il rispetto delle condizioni stabilite dal Regolamento.

È stato pubblicato sul sito del ministero delle Politiche Agricole e Forestali l’elenco aggiornato di tutte le produzioni italiane iscritte nei registri Dop ed Igp, ad esclusione di vini e bevande spiritose.

Come stabilito dal Regolamento (CE) n. 510/2006, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari, per usufruire della protezione negli Stati membri, le indicazioni geografiche e le denominazioni d’origine devono essere registrate a livello comunitario. L’iscrizione in registro rappresenta un’importante informazione sia per gli operatori del settore sia per i consumatori e garantisce il rispetto delle condizioni stabilite dal Regolamento.

Poiché la produzione, la fabbricazione e la distribuzione dei prodotti agricoli e alimentari svolge un ruolo rilevante nell’economia della Comunità, appare opportuno favorire la diversificazione della produzione agricola, al fine di ottenere un migliore equilibrio fra domanda ed offerta. La promozione di prodotti di qualità, aventi caratteristiche peculiari, può rappresentare un notevole vantaggio per l’economia rurale, in particolare nelle zone svantaggiate o periferiche, sia per l’accrescimento del reddito degli agricoltori, sia per il mantenimento della popolazione rurale in tali zone.

È cosa nota che, ormai, un numero sempre crescente di consumatori annette maggiore importanza alla qualità anziché alla quantità nell’alimentazione. Questa ricerca di prodotti specifici genera una domanda di prodotti agricoli o alimentari aventi origini geografiche ben identificabili. Per questa ragione, di fronte alla grande varietà di prodotti commercializzati ed alla moltitudine di informazioni al loro riguardo, il consumatore dovrebbe disporre di un’informazione chiara e succinta sull’origine del prodotto, in modo da potersi orientare meglio nella scelta.

Ai fini del suddetto Regolamento, per Denominazione d’origine si intende il nome di una regione, di un determinato luogo o, in casi eccezionali, di un paese, che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale determinato luogo o di tale paese, la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali ed umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata. Il marchio di Indicazione geografica protetta, invece, indica il nome di una regione, di un determinato luogo o, in casi eccezionali, di un paese, che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare come originario di tale regione, di tale determinato luogo o di tale paese e del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata.

L’Art. 4 del Regolamento CE 510/2006 stabilisce che, per beneficiare di una denominazione d’origine protetta (Dop) o di un’indicazione geografica protetta (Igp), un prodotto agricolo o alimentare deve essere conforme ad un disciplinare. Il disciplinare comprende almeno i seguenti elementi:

a) il nome del prodotto agricolo o alimentare che comprende la denominazione d’origine o l’indicazione geografica;

b) la descrizione del prodotto agricolo o alimentare mediante indicazione delle materie prime e, se del caso, delle principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche o organolettiche del prodotto agricolo o alimentare;

c) la delimitazione della zona geografica di produzione;

d) gli elementi che comprovano che il prodotto agricolo o alimentare è originario della zona geografica precedentemente delimitata;

e) la descrizione del metodo di ottenimento del prodotto agricolo o alimentare e, se del caso, i metodi locali, leali e costanti, nonché gli elementi relativi al condizionamento, quando l’associazione richiedente, stabilisce e motiva che il condizionamento deve aver luogo nella zona geografica delimitata per salvaguardarne la qualità o garantirne l’origine o assicurarne il controllo;

f) gli elementi che giustificano, in primo luogo, il legame fra la qualità o le caratteristiche del prodotto agricolo o alimentare e l’ambiente geografico originario e, in secondo luogo, il legame fra una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica del prodotto agricolo o alimentare e la sua origine geografica;

g) il nome e l’indirizzo delle autorità o degli organismi che verificano il rispetto delle disposizioni del disciplinare con i relativi compiti specifici;

h) qualsiasi regola specifica per l’etichettatura del prodotto agricolo o alimentare in questione;

i) gli eventuali requisiti da rispettare in virtù di disposizioni comunitarie o nazionali.

(Fonte Maurizia Pallante, Medico Veterinario – vglobale)

Made in Italy. Alla conquista del mondo: come le buone idee possono trasformarsi in grandi imprese. Un testo che svela al lettore come i marchi italiani oggi al top hanno realmente iniziato, da chi e come sono stati creati, e attraverso quali fasi sono arrivati ai massimi livelli. Con una Prefazione di Oscar Giannino.

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