Supplica a mia madre

Un omaggio a tutte le mamme in occasione della loro festa.

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Pier Paolo Pasolini

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La Terra di Lavoro

Pier-Paolo-Pasolini
Paso­lini era un poeta, uno scrit­tore, un cinea­sta, un regista, un giornalista, un filosofo, un politico, persino pittore e autore di canzoni… Era un uomo d’arte. Non era pro­fessore, non scien­ziato dell’economia e della società e della poli­tica, e quindi non ado­pe­rava un lin­guag­gio acca­de­mico, scien­ti­fico, ado­pe­rava un lin­guag­gio arti­stico, meta­fo­rico. Semplicemente è, non era, uno dei maggiori intellettuali italiani del XX° secolo. Pier Paolo Paso­lini è morto ammaz­zato oggi, nella notte tra il 1 e il 2 novem­bre 1975, 39 anni fa.

Ormai è vicina la Terra di Lavoro,
qualche branco di bufale, qualche
mucchio di case tra piante di pomidoro,

èdere e povere palanche.
Ogni tanto un fiumicello, a pelo
del terreno, appare tra le branche

degli olmi carichi di viti, nero
come uno scolo. Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il gelo

autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regno

dei morti, passati da dolore
a dolore – senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,

eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto

di pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli sale

se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.

Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuore

negli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla
una creatura che dorme nel fondo
d’una vita d’agnellino, e la trastulla

– se si risveglia dal suo sonno
dicendo parole come il mondo nuove –
con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove,
come una bestia che finge d’esser morta;
si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta
la voce che a ogni istante le ricorda
la sua povertà come una colpa.

Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda,
senza neanche accorgersi, sospira.
Col piccolo viso scuro come torba,

in un muto odore di ovile,
un giovane è accanto al finestrino,
nemico, quasi non osando aprire

la porta, dare noia al vicino.
Guarda fisso la montagna, il cielo,
le mani in tasca, il basco di malandrino

sull’occhio: non vede il forestiero,
non vede niente, il colletto rialzato
per freddo, o per infido mistero

di delinquente, di cane abbandonato.
L’umidità ravviva i vecchi
odori del legno, unto e affumicato,

mescolandoli ai nuovi, di chiassetti
freschi di strame umano.
E dai campi, ormai violetti,

viene una luce che scopre anime,
non corpi, all’occhio che più crudo
della luce, ne scopre la fame,

la servitù, la solitudine.
Anime che riempiono il mondo,
come immagini fedeli e nude

della sua storia, benché affondino
in una storia che non è più nostra.
Con una vita di altri secoli, sono

vivi in questo: e nel mondo si mostrano
a chi del mondo ha conoscenza, gregge
di chi nient’altro che la miseria conosca.

Sono sempre stati per loro unica legge
odio servile e servile allegria: eppure
nei loro occhi si poteva leggere

ormai un segno di diversa fame – scura
come quella del pane, e, come
quella, necessaria. Una pura

ombra che già prendeva nome
di speranza: e quasi riacquistato
all’uomo, vedeva il meridione,

timida, sulle sue greggi rassegnate
di viventi, la luce del riscatto.
Ma ora per queste anime segnate

dal crepuscolo, per questo bivacco
di intimiditi passeggeri,
d’improvviso ogni interna luce, ogni atto

di coscienza, sembra cosa di ieri.
Nemico è oggi a questa donna che culla
la sua creatura, a questi neri

contadini che non ne sanno nulla,
chi muore perché sia salva
in altre madri, in altre creature,

la loro libertà. Chi muore perché arda
in altri servi, in altri contadini,
la loro sete anche se bastarda

di giustizia, gli è nemico.
Gli è nemico chi straccia la bandiera
ormai rossa di assassinî,

e gli è nemico chi, fedele,
dai bianchi assassini la difende.
Gli è nemico il padrone che spera

la loro resa, e il compagno che pretende
che lottino in una fede che ormai è negazione
della fede. Gli è nemico chi rende

grazie a Dio per la reazione
del vecchio popolo, e gli è nemico
chi perdona il sangue in nome

del nuovo popolo. Restituito
è cosi, in un giorno di sangue,
il mondo a un tempo che pareva finito:

la luce che piove su queste anime
è quella, ancora, del vecchio meridione,
l’anima di questa terra è il vecchio fango.

Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione
senti ormai che essa non conduce
a nuova aridità, ma a vecchia passione.

E ti perdi allora in questa luce
che rade, con la pioggia, d’improvviso
zolle di salvia rossa, case sudice.

Ti perdi nel vecchio paradiso
che qui fuori sui crinali di lava
dà un celeste, benché umano, viso

all’orizzonte dove nella bava
grigia si perde Napoli, ai meridiani
temporali, che il sereno invadono,

uno sui monti del Lazio, già lontani,
l’altro su questa terra abbandonata
agli sporchi orti, ai pantani,

ai villaggi grandi come città.
Si confondono la pioggia e il sole
in una gioia ch’è forse conservata

– come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra – in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:

vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

Pier Paolo Pasolini

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Domenica in Poesia: A un Papa

Pasolini-Benedetto-XVI-A-un-Papa

Pochi giorni prima che tu morissi, la morte
Aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo:
a vent’anni , tu eri studente, lui manovale,
tu nobile , ricco ,lui un ragazzaccio plebeo:
ma gli stessi giorni hanno dorato su voi
la vecchia Roma che stava tornando così nuova.
Ho veduto le sue spoglie, povero Zucchetto.
Girava di notte ubriaco intorno ai Mercati,
e un tram che veniva da San Paolo, l’ ha travolto
e trascinato un pezzo pei binari tra i platani:
per qualche ora restò lì , sotto le ruote :
un po’ di gente si radunò intorno a guardarlo,
in silenzio: era tardi, c’erano pochi passanti.
Uno degli uomini che esistono perché esisti tu,
un vecchio poliziotto sbracato come un guappo,
a che s’accostava troppo gridava: “Fuori dai ciglioni”.
Poi venne l’automobile d’un ospedale a caricarlo:
la gente se ne andò, restò qualche brandello qua e là,
e la padrona di un bar notturno, più avanti,
che lo conosceva, disse a un nuovo venuto
che Zucchetto era andato sotto un tram, era finito.
Pochi giorni dopo finivi tu: Zucchetto era uno
della tua grande greggia romana ed umana,
un povero ubriacone, senza famiglia e senza letto,
che girava di notte, vivendo chissà come.
Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente
di altri mille e mille cristi come lui.
Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione
la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore.
Ci sono posti infami, dove madri e bambini
vivono in una polvere antica, in un fango d’ altre epoche.
Proprio non lontano da dove tu sei vissuto,
in vista della bella cupola di San Pietro,
c’è uno di questi posti, il Gelsomino….
Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto,
tra una marana e una fila di nuovi palazzi,
un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili.
Bastava soltanto un tuo gesto, non hai detto una parola .
Non ti chiedevo di perdonare Marx ! Un’ onda
immensa che si rifrange da millenni di vita
ti separava da lui, dalla sua religione :
ma nella tua religione non si parla di pietà?
Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,
davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili.
Lo sapevi, peccare non significa fare il male:
non fare il bene ,questo significa peccare .
Quanto bene tu potevi fare! E non l’ hai fatto:
non c’è stato un peccatore più grande di te.

Pier Paolo Pasolini (Da “La religione del mio tempo”)

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Domenica in Poesia: Vi odio, cari studenti

Vi odio, cari studenti (Il Pci ai giovani!!)

È triste.
La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metà
del decennio passato.
Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati…
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!

Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli, la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!

I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.

A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri.
Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.

Pier Paolo Pasolini

Nella sua poesia (Vi odio, cari studenti) Pasolini diceva, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di architettura di Roma; nessuno dei consumatori si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del mondo – ha la possibilità di fare anche di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un’altra specie di odio razziale; le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università.

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Domenica in Poesia: Io so

Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum.
Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè
non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.

Pier Paolo Pasolini – Testo tratto dal “Corriere della sera” del 14 novembre 1974, con il titolo “Che cos’è questo golpe?”; testo poi confluito in Scritti corsari , Garzanti 1975

Lettere luterane. Nell’ultimo anno della sua vita Pasolini condusse, dalle colonne del “Corriere della Sera” e del “Mondo”, una rovente requisitoria contro l’Italia che vedeva intorno, “distrutta esattamente come l’Italia del 1945”. Partendo dall’analisi delle mutazioni culturali, Pasolini rintracciava i segni di un inarrestabile degrado: la crisi dei valori umanistici e popolari; le lusinghe del consumismo, più forte e corruttore di qualsiasi altro potere; le distruzioni operate dalla classe politica; una invincibile e generalizzata “ansia di conformismo”; le mistificazioni di certi intellettuali autoproclamatisi progressisti. Non è vero che la Storia va sempre avanti: l’individuo e la società possono regredire.

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