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Il mare un minestrone di immondizia

 

Se fate una passeggiata lungo la spiaggia dopo una tempesta avrete un’idea di quanta spazzatura sta fluttuando in giro per gli oceani del mondo: la sabbia è cosparsa di bottiglie, contenitori di plastica, casse per il pesce, lampadine, flip-flop, brandelli di rete da pesca, legname, sacchetti di plastica, fusti in plastica, imballaggi in polistirolo, scarto di corde, insieme a coni spartitraffico, accendini usa e getta, pneumatici per veicoli, spazzolini da denti e quant’altro. Questi oggetti sono stati casualmente buttati via sia per terra che per mare ed il mare ne diviene il contenitore ideale di accumulo. La scena è la stessa in tutto il mondo. Ma questo potrebbe essere solo graffiare la superficie! Le statistiche sono allarmanti si stima che circa 6,4 milioni di tonnellate di rifiuti fluttuano negli oceani del mondo ogni anno. La stragrande maggioranza proviene da fonti terrestri. Alcuni di questi sono detriti di depurazione che vengono trascinati dai fiumi in mare o dal vento, rifiuti provenienti da  discariche situate sulla costa, altri abbandonati dai vacanzieri incauti e  spensierati che li lasciano sulla spiaggia. L’inquinamento è fatto di dimensioni che non conosciamo bene poiché è difficile arrivare ad una stima accurata della quantità di rifiuti negli oceani costantemente in movimento. Gran parte di essa si degrada molto lentamente.

Bottiglie di plastica e lenze da pesca in nylon sono particolarmente resistenti. Anche se molte materie plastiche si scompongono in frammenti più piccoli, ci vorranno decenni o addirittura secoli (tempi stimati) per farle sparire completamente. Questo perché ora la maggior parte dei rifiuti non è biodegradabile e il suo ostinato rifiuto a decomporsi è incrementato dalla pseudo cultura dell’ “usa e getta”. Il 60 per cento di tutte le plastiche trovate nel 2009 erano usa e getta”: dei “monumenti galleggianti” alla cultura dello spreco.

Circa 260 milioni di tonnellate di plastica vengono prodotte ogni anno, di cui circa il 10 per cento finisce in mare; il 20 per cento di questo è da navi e piattaforme, l’80%, il resto da terra; 46mila pezzi di plastica galleggianti in ogni miglio quadrato di oceano. Un minestrone di immondizia per circa 2.700 chilometri (170 miglia). Da alcuni anni, gli scienziati hanno rivolto sempre più la loro attenzione a ciò che resta dei detriti di plastica. Nel corso del tempo, le plastiche si scompongono in frammenti molto piccoli, noti come “micro-plastiche”: sono state rilevate nelle acque oceaniche, in sabbia e sedimenti dei fondali marini di tutto il mondo. Sia in mare che a terra, l’influsso della luce solare, l’azione delle onde e abrasione meccanica permette di ridurre e degradare gli oggetti in plastica in particelle sempre più piccole. Particelle, tra 20 e 50 micron di diametro, sono più sottili di un capello umano. Una sola bottiglia da un litro produce frammenti abbastanza piccoli da potersi depositare uno per ogni miglio di spiaggia, in tutto il mondo. Le quantità e l’impatto di detriti marini sono significativi e in aumento: la massa di pezzi di plastica è 6 volte superiore a quella dello zooplancton. Hanno una densità inferiore a quella dell’acqua che conduce alla loro galleggiabilità nella superficie del suo strato in cui i contaminanti idrofobi possono essere trovate concentrare fino a 500 volte rispetto all’acqua sottostante. Le micro-plastiche saturano l’acqua e diventando parte tossica dell’ecosistema marino. Le stime relative ai rifiuti in plastica potrebbero essere falsate: la causa principale di questi numeri non corrispondenti a verità potrebbe essere il vento che tende a spingere i rifiuti di plastica sul fondo degli oceani. Una grande presenza di questa tipologia di rifiuti nel fondo marino, a discapito dei numeri che abbiamo attualmente sui rifiuti di plastica in mare. Un grave problema per l’ecosistema che ha anche delle implicazioni tutt’altro che piacevoli sulla catena alimentare.

Tra il 2002 e il 2006 i sacchetti sono risultati il quarto rifiuto più abbondante dopo mozziconi di sigarette e bottiglie. La maggior parte delle plastiche di largo consumo, cioè la frazione che più contribuisce all’inquinamento, tende a galleggiare, ed è negli strati più superficiali che quindi si sono concentrati gli studi, anche perché è lampante il devastante effetto che una semplice busta di plastica può avere sulla fauna marina. Questi materiali cominciano una degradazione chimica e meccanica in grado di ridurli gradualmente alle loro componenti più fondamentali, pronte per l’ingresso nelle reti trofiche. Tranne che per una piccola parte incenerita, ogni pezzetto di plastica fabbricata in tutto il mondo negli ultimi cinquant’anni o giù di lì rimane, intatto o quasi, da qualche parte nell’ambiente . Le plastiche sepolte dove c’è poca acqua, sole, o ossigeno rimarranno intatte a lungo. I ricercatori hanno calcolato che, a seconda dell’influenza del vento sulla zona, la reale quantità di materiale in sospensione può essere addirittura 27 volte superiore nelle zone con venti forti, e nella media totale si stima un difetto di almeno 2 volte e mezzo rispetto al dato reale. Nessuno lo sa, perché “nessuno di plastica” è morto di morte naturale ancora. Un grosso animale senza guinzaglio: in 40 anni aumentato di 100 volte.

Quanti di voi provano una sensazione di benessere alla sola idea del profumo del mare? Eppure il suo profumo e la sua salute iniziano ad essere seriamente compromessi. Pochi sanno dell’entità del grande minestrone che va accumulandosi di anno in anno nei mari di tutto il mondo. Un minestrone galleggiante di plastica grande quasi il doppio degli Stati Uniti, e questo solo nell’Oceano Pacifico. Una massa di rifiuti che galleggia, tenuta insieme dalle correnti sottomarine, che cresce a un ritmo vertiginoso e che costituisce di fatto la più grande discarica del mondo in cui è possibile ritrovare anche materiali risalenti agli anni ’50. Un mostro di plastica assassina composto da quattro principali elementi: polietilene a bassa densità (sacchetti di plastica); polipropilene (tappi di bottiglie); polietilene (bottiglie); polistirolo. Le stime parlano di 300 milioni di tonnellate di plastica vergine realizzate ogni anno. Ebbene, se solo l’1% venisse salvato attraverso una maggiore efficienza e un corretto riciclo, sarebbero già 3 milioni le tonnellate in meno nei nostri mari, che è più o meno la quantità che attualmente galleggia nell’Oceano Pacifico.

(Fonte Wwf)

 

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Quando il bucato inquina

Dietro i capi firmati, le pubblicità accattivanti e il fascino delle passerelle c’è un mondo che l’industria dell’abbigliamento ti vuole nascondere. È un mondo sporco, pieno di sostanze pericolose, che sta lentamente contaminando i nostri fiumi. Oggi, nella Giornata mondiale dell’Acqua, ti riveliamo il loro segreto. Vogliamo costringerli ad affrontare il problema.

Se hai fatto il bucato in lavatrice con vestiti Kappa, Ralph Lauren o Calvin Klein, sappi che sei complice inconsapevole dell’inquinamento delle risorse idriche. Sì perché il nostro rapporto“Panni Sporchi 3” rivela come alcune sostanze pericolose usate per la produzione di abiti di grandi marche vengono rilasciate nell’ambiente dopo il lavaggio degli articoli in lavatrice. Una volta disperse in acqua, queste sostanze non sono trattenute dai sistemi di depurazione e si trasformano in nonilfenolo, un composto tossico e in grado di alterare, anche a livelli molto bassi, il sistema ormonale dell’uomo.

L’indagine – condotta su quattordici prodotti tessili dei marchiAbercrombie & Fitch, Adidas, Calvin Klein, Converse, G-Star RAW, H&M, Kappa, Lacoste, Li Ning, Nike, Puma, Ralph Lauren, Uniqlo e Youngor – misura per la prima volta la variazione delle quantità di nonilfenoli etossilati presenti nel tessuto prima e dopo il lavaggio domestico. In quasi la metà dei campioni, oltre l’80 per cento di nonilfenoli etossilati presenti nell’articolo appena comprato sono fuoriusciti dopo un solo lavaggio.

Questo significa che l’impatto dell’industria dell’abbigliamento non si ferma al Paese di produzione ma arriva ai Paesi consumatori. È in atto un ciclo globale dell’inquinamento tossico. Le aziende tessili devono affrontare il problema e impegnarsi per l’eliminazione delle sostanze pericolose nell’intera filiera. Anche se l’uso di nonilfenoli etossilati nell’industria tessile è bandito nell’Unione europea, queste sostanze pericolose, infatti, continuano ad arrivare tramite canali di mercato.

Si stima che ogni anno nelle acque europee vengono sversate da ignari consumatori tonnellate di prodotti nocivi: è il momento per il settore tessile di fare passi concreti verso l’adozione di alternative più sicure ai composti chimici inquinanti.  Devono accogliere la sfida “Detox”.

In Italia, nonostante le ripetute sollecitazioni di Greenpeace, rimane ferma Kappa, del gruppo BasicNet, proprietaria anche dei marchi Superga e K-way. Nei suoi prodotti sono stati ritrovati nonilfenoli etossilati. Ancora per quanto tempo Kappa si rifiuterà di ripulire dai veleni la sua filiera produttiva?

 


(Fonte Greenpeace)

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