Quando parliamo di produttività ci riferiamo alla capacità di un sistema di crescere, di creare occupazione e sviluppo. Secondo i dati dell’Istat il tasso di crescita reale medio annuo della produttività del lavoro in Italia dal 1995 al 2015 è stato pari a 0,3%, performance decisamente inferiore a quella dell’Unione europea (+1,6%), dell’area Ue15 (+1,4%) e dell’area euro (+1,3%). Continue Reading
occupazione
Jobs pack, stabilmente precari
A dicembre 2014 in Italia c’erano 14 milioni 525 mila occupati a tempo indeterminato, a ottobre 2015 sono 14 milioni 527 mila. Da quando è partito il Jobs Act, ovvero a marzo, i lavoratori “stabili” erano 14 milioni 550 mila. Fanno 23 mila in meno. A dicembre 2014 i contratti a tempo determinato erano 2.308 milioni, a marzo 2.296; a ottobre scorso erano 2.486 milioni. Gli autonomi, quelli per cui il governo studia un apposito Jobs Act: tra gennaio e ottobre sono calati di 97 mila unità. E come non parlare delle “false partite Iva” che sono passate da una forma di precariato a un’altra. Occupazione? Il dato peggiore: a ottobre ci sono 29 mila occupati in meno, 84 mila negli ultimi 2 mesi. Soprattutto giovani. Ferma la fascia 24-34 anni, quella 35-49 perde 175 mila occupati, mentre gli over 50 aumentano di 226 mila unità. Riassumendo il tasso di occupazione è fermo al 56,3%, e la disoccupazione giovanile è al 39,8%, nei primi 10 mesi dell’anno ci sono 178 mila lavoratori precari in più rispetto a fine 2014 e 190 mila in più rispetto al mese di esordio del Jobs Act. L’effetto della distruzione dello Statuto dei Lavoratori si è esaurito, o riassorbito, in meno di un anno. Continue Reading
Un futuro possibile
Nel nostro ultimo libro pubblicato in inglese “Decrescita: Un Vocabolario per una Nuova Era” (“Degrowth, a vocabulary for a new era“, ancora non edito in Italia ndr), non solo sosteniamo che la crescita economica stia diventando strutturalmente più difficile da perseguire nelle economie avanzate, ma anche che essa sia socialmente ed ecologicamente insostenibile. Il clima globale, il welfare, i vincoli sociali e più in generale tutti quegli elementi e valori che per varie epoche hanno resistito, sono ora sacrificati in nome di una nuova divinità rappresentata dalla crescita economica.
Così come si farebbe con un paziente in stato terminale, viene richiesto alla gente di soffrire senza fine, in nome di qualche decimo di punto percentuale di Pil in più per il profitto dei sempre meno (il ben noto 1 per cento).
In teoria la crescita sarebbe necessaria per ripagare i debiti, creare nuovi posti di lavoro o aumentare i redditi dei più poveri. In pratica abbiamo già avuto periodi di crescita sostenuta ma siamo ancora indebitati, i nostri giovani sono disoccupati e la povertà è più alta che mai. Ci siamo indebitati per crescere e ora siamo obbligati a crescere per sdebitarci.
La decrescita è prima di tutto un appello alla de-colonizzazione dell’immaginario sociale dall’idea che ci sia un solo futuro possibile e che questo debba essere basato sulla crescita. La decrescita è l’ipotesi che sia possibile vivere meglio con una vita più semplice ed in comune. È un progetto di una società alternativa che nasce a partire dalla redistribuzione delle risorse, che si fonda sulla sostenibilità della vita e che pratica la democrazia in modo sostanziale. La decrescita non è quindi sinonimo di recessione, ma è l’idea che si possa avere prosperità sociale senza crescita economica. Gli approcci approssimativi e disinformati del primo ministro Renzi (in marzo, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2015 della Scuola Superiore di Polizia, Matteo Renzi ha detto che l’Italia è uscita dal tunnel della crisi e “se qualcuno parla di decrescita, bisognerebbe farlo vedere da gente brava”, ndr) e di Luca Simonetti (autore di Contro la decrescita. Perché rallentare non è la soluzione, Longanesi, ndr) cadono infatti nellamistificazione.
In altre parole: possiamo ottenere un lavoro soddisfacente senza la necessità di una crescita infinita; possiamo sostenere un welfare che funzioni senza che l’economia cresca annualmente e possiamo ridurre le disuguaglianze sociali ed eliminare la povertà senza il bisogno di accumulare ogni anno più denaro.
La decrescita mette in discussione non solo gli esiti, ma lo spirito stesso del capitalismo. Il capitalismo sembra non conoscere limiti: conosce soltanto come espandersi, come creare distruggendo. Il capitalismo non conosce stabilità. Può vendere qualsiasi cosa, ma non può vendere meno.
La decrescita offre una nuova narrativa per una sinistra radicale che intenda andare oltre il capitalismo, senza necessariamente ripercorrere la via autoritaria e produttivista del socialismo reale (o del ‘capitalismo di stato’ come le definirebbe qualcuno).
Una nuova sinistra, nuova nelle idee e giovane data l’età dei suoi aderenti, si sta formando in Europa, dalla Spagna alla Grecia passando per le esperienze slovene e croate. Questa nuova sinistra sarà anche verde e in grado di proporre un modello di economia cooperativa basata sulle idee della decrescita? Oppure – come nel caso di quella in America Latina – finirà per riprodurre la logica espansiva del capitalismo, sostituendo semplicemente con aziende nazionali le multinazionali e lasciando poco più che le briciole al popolino?
Molte persone vicine alle idee e alle critiche sollevate nel nostro libro, ci dicono che sebbene si tratti di critiche ragionevoli, le proposte che ne seguono sono vaghe e di difficile applicazione. Sembra più facile immaginare la fine del mondo, o talvolta quella del capitalismo piuttosto che immaginare la fine della crescita economica.
I partiti politici più radicali non hanno neanche il coraggio di pronunciare la D di questa parola, o quanto meno di mettere in questione la desiderabilità della crescita. Per rompere l’incantesimo della crescita economica, noi di Research & Degrowth di Barcellona, abbiamo deciso di estrapolare alcune proposte politiche a partire dalle stesse teorie della decrescita. Queste politiche sono discusse più dettagliatamente nel nostro ultimo libro.
Di seguito presentiamo 10 proposte politiche pensate e scritte per il contesto spagnolo (più precisamente catalano). Tuttavia, ripensate alla luce delle specificità nazionali, sono valide anche altrove. Le idee presenti nel testo, infatti, sono rilevanti per le sinistre radicali ed i partiti ecologisti di tutta Europa. Continue Reading
Farinetti il capitalista “buono”
“Godo quando assumo un giovane” Oscar Farinetti, settembre 2013.
Un discorso che merita particolare attenzione è quello che lega Eataly e occupazione. Al di là della retorica green e della difesa del made in Italy, la ricerca di consenso passa sempre attraverso la promessa di nuovi posti di lavoro, diretti o indiretti, o attraverso quella della loro salvaguardia. E’ accaduto agli albori dell’Italia industriale, è accaduto con il boom e accade tantopiù oggi, stagione di crisi e povertà economica crescente. Posti che, realmente creati o solo vagheggiati, sono una leva da muovere all’interno dei rapporti tra istituzioni pubbliche, sindacati, banche e soggetti privati.
Farinetti & Co. fanno gran uso di questo strumento come tassello interno alla loro retorica e come elemento base in un processo alchemico continuamente attivo: per la ricerca di consenso più spiccio, di pancia, preferiscono usarlo replicato e ampliato dai canali dei media nazionali, che rilanciano uscite spesso smargiasse in modo acritico. Sono tanti e tali gli interventi di questo tipo effettuati in questi ultimi anni che non si contano; basterà una semplice ricerca in rete per farsi una discreta enciclopedia.
Da un lato sono occasioni in cui si denota il profilo dell’attore scafato e dell’imprenditore cui sembra che tutto sia possibile e legittimo; dall’altro sono discorsi che sovente scivolano verso il paternalismo, se non nella pura elemosina sociale, sia verso i dipendenti che verso i sindacati. Casi nei quali Farinetti si dimostra degno rappresentante della morale capitalista incentrata sulla benevolenza del padrone che “dona” il lavoro al subordinato, come quando si vanta di assumere in luoghi depressi, oppure quando definisce i suoi assunti “tutti giovani e belli”.
Frasi, in realtà, che nascondono come il comportamento dell’imprenditore capitalista sia utilizzare le persone e il loro lavoro come mere risorse da spremere per la massima resa, dopo averne acquisito le capacità e il tempo di vita al prezzo più concorrenziale concesso dal mercato e dai paletti che a questo vengono posti.
Alla prova dei fatti, cioé dei salari, le cose sono più nitide: quasi tutti i dipendenti/collaboratori sono assunti tramite agenzia interinale e con contratti a progetto o a tempo determinato. Molti ricevono circa 8 euro lordi all’ora, che equivalgono a 800 euro netti al mese nel caso di 40 ore settimanali, 500 per il parttime. Un salario, come ammettono i lavoratori stessi, che non permette né il sostentamento di una famiglia né l’acquisto/affitto di una prima casa. Questo capitalista “buono”, che si vanta di assumere e far lavorare tanti giovani, dimentica che con questi soldi è impossibile farsi un futuro nemmeno se si lavora per gente come lui, che non perde occasione di pronunciare questa parola come valore e impegno personale. L’invito di rivedersi qualche spot girato con Guerra ai tempi di Unieuro fa solo sorridere amaro.
Al di là della retorica imprenditoriale e occupazionale, considerato che il fatturato annuo di Eataly si aggira sui 400 milioni di euro, alla certezza che qualcuno si stia arricchendo sulle spalle di tanti altri segue una domanda: ma non era Farinetti che nel marzo 2014, poco prima di aprire Eataly Smeraldo, disse “Se un imprenditore ha i conti in ordine e non assume in modo stabile è un bastardo”? E dunque: Eataly ha i conti in ordine? Che si può anche porre così: e se Eataly avesse i conti in ordine grazie ai bassi salari (e alla tassazione agganciata) che elargisce alla maggioranza dei suoi assunti? D’altro canto non esiste solo il lavoro dei dipendenti o collaboratori, ma anche quello dei fornitori. Una questione che chi fa discorsi imprenditoriali venati di etica – come Farinetti e Co. fannodovrebbe tenere ben presente.
Ci riferiamo alla ristrutturazione dell’ex teatro Smeraldo a Milano per l’apertura di un nuovo punto vendita (apertura avvenuta il 18 marzo 2014). Alla faccia del bollino made in Italy di cui si fregia Eataly parlando del proprio lavoro e dell’indotto, i lavori sono stati affidati a una impresa di Perugia, che con una mera operazione speculativa e agendo da semplice passacarte li ha subappaltati a un ditta rumena, tale Cobetra Power di Suceava (vicino al confine con la Moldova e l’Ucraina), che paga i propri operai 3 euro lordi all’ora, da un lato allargando l’area di sfruttamento lavorativo da dentro il perimetro del negozio fino alle imprese dei fornitori di servizi e lavoro, dall’altra contravvenendo a regole della Comunità Europea che impediscono di pagare gli operai in trasferta meno dei minimi sindacali del paese in cui si opera (note burocratiche o giuridiche che citiamo per completezza).
Per il dio profitto non esistono regole, né marchi made in Italy che tengano; Farinetti guadagna milioni di euro, l’impresa di Perugia incassa senza muovere un dito e gli operai rumeni ci mettono il lavoro vivo. Riassunta ai minimi termini, all’interno di un supermercato con le caratteristiche che Eataly brama, la questione della gestione delle risorse diventa anche gestione della merce, dei corpi e dello sguardo che su loro si posa: vale per i fornitori, costretti ad accettare accordi al ribasso pur di lavorare per Eataly, che – anche se per “luce riflessa”- garantisce visibilità; vale per dipendenti e collaboratori che, a contatto con la clientela, sono tenuti vivamente a sorridere nonostante contratti discutibili e quotidiani dispositivi di controllo; vale per i corpi, o alcune loro parti, degli animali esposti nelle teche, venduti sugli scaffali o appesi ai soffitti, da presentare come rappresentazione di un cibo che si definisce “buono, pulito e giusto” e simbolo di messaggio che promette esperienza, salubrità e benessere. Una esposizione della fisicità forzata e distorta, in realtà, che coinvolge tanto le gambe appese dei maiali quanto le labbra dei baristi o delle cassiere che devono sorridere. Più delicato invece è il lavoro da svolgere per ottenere aperture di credito da soggetti istituzionali o partner di mercato. I fatti sembrano però dare ragione alla strategia utilizzata finora.
Molte delle aperture di Eataly in Italia riempiono spazi comunali in disuso o sottoutilizzati; così facendo riescono a garantirsi una doppia vittoria: prezzi vantaggiosi per la gestione della struttura affidata da Amministrazioni Comunali in apnea di liquidità e un ritorno di immagine come “benefattori” che “salvano” tessuti sociali, portando lavoro e riempiendo luoghi percepiti come abbandonati e di nessuno. Sarà forse a causa di questo sodalizio ormai radicato con soggetti istituzionali di varia grandezza che, nella alla loro azione, Farinetti e soci ormai arrivano a discettare di politica economica e sviluppo del paese. E’ qui che il cerchio si chiude, con un metaforico passaggio di testimone da Letizia Moratti a Oscar Farinetti. Turismo e produzione agricola, manovalanza e bracciantato, infrastrutture e logistica. Abbiamo il palesarsi di una piattaforma programmatica che vede in questi settori i binari su cui incanalare l’economia italiana nei prossimi anni e che avrà in EXPO 2015 il suo palcoscenico e nei suoi partner i primi protagonisti interessati, che vogliono essere la faccia “buona pulita e giusta” dell’economia del nostro paese e del grande evento, ma che sono solo una copertura per chi preferisce fare affari lontano dalle telecamere.
(Tratto da Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015)
La crisi della “virtuosa” Finlandia spaventa l’Europa
Karl Whelan, professore di economia all’università di Dublino, descrive sul sito medium.com la situazione della Finlandia. Neppure uno dei paesi cosiddetti “virtuosi” è immune dagli effetti perversi dell’eurozona, e così anche i finlandesi si sentono ripetere il mantra delle “riforme strutturali”, invocazione in realtà priva di senso. Questo dimostra che la crisi dell’eurozona ha ben poco a che fare con la pigrizia meridionale, la corruzione, la burocrazia, sempre invocate come capri espiatori, e che l’Europa sta seguendo un modello di crescita sbagliato.
Di Karl Whelan , 19 marzo 2015
Il dibattito sui problemi economici dell’Europa tende a concentrarsi molto sulla necessità per paesi come Italia e Grecia di introdurre “riforme strutturali” per rilanciare la crescita. Tuttavia, la crisi dell’Europa va molto oltre i paesi dell’Europa meridionale con la loro reputazione di inefficienza e irresponsabilità fiscale.
La settimana scorsa il Financial Times ha pubblicato un interessante report sulla Finlandia. Negli ultimi anni i governi della Finlandia sono stati tra i più fanatici nel rimproverare i paesi ad alto debito sulla necessità di tagliare il deficit e concentrarsi nelle riforme strutturali. Ma le cose non stanno andando così bene in Finlandia in questi giorni. Il PIL si è contratto per tre anni consecutivi (vedi pagina 28 del bollettino statistico della Commissione europea).
Il FT è abbastanza disorientato da questo andamento, e ammette che “la ricetta da seguire per la crisi attuale non è chiara” come invece lo era durante la crisi finlandese post-sovietica dei primi anni ‘90.
La verità, tuttavia, è che la crisi della Finlandia non è poi così complicata. Infatti, è una storia semplice che possiamo aspettarci di vedere ripetersi in molti paesi d’Europa, e in particolare in Germania, nei prossimi decenni. Due fattori stanno determinando il crollo della Finlandia: una demografia in crisi e una scarsa crescita della produttività.
La demografia
Il primo elemento chiave del crollo della Finlandia viene identificato dal FT: la Finlandia sta rapidamente invecchiando. Di conseguenza, la popolazione del paese in “età lavorativa”, tra i 15 e i 64 anni, è in calo. Questo ha comportato che non c’è stata alcuna crescita dell’occupazione negli ultimi quattro anni, nonostante un leggero aumento del tasso di partecipazione delle persone in età compresa tra i 15 e i 64 anni, e qualche piccola variazione del tasso di disoccupazione nello stesso periodo.
L’Eurostat prevede che questo trend demografico continuerà nel prossimo decennio. Anche se nei prossimi anni il tasso di disoccupazione in Finlandia dovesse calare, è improbabile che ci sarà una qualche crescita dell’occupazione nel prossimo decennio. In questo senso, come ho approfondito in un testo redatto insieme a Kieran McQuinn, la Finlandia fa da apripista rispetto ad altri paesi.
In particolare, la percentuale della popolazione tedesca in età tra i 15 e i 64 anni è destinata a precipitare nel prossimo decennio, scendendo al di sotto della Finlandia entro il 2030, per poi declinare ulteriormente. La situazione nel gruppo dell’eurozona dei 12 (cioè gli 11 paesi originari, più la Grecia) è relativamente simile, con la percentuale destinata a scendere sotto il livello della Finlandia negli anni 2030. Qui sotto le previsioni di Eurostat.
Produttività
La performance scadente dell’occupazione è un aspetto del cattivo andamento economico della Finlandia. L’altro aspetto è un’evoluzione deludente della quantità di PIL reale prodotto da ciascun lavoratore, quel che gli economisti chiamano produttività del lavoro.
In questo campo la Finlandia aveva tradizionalmente ottenuto risultati un po’ migliori rispetto al resto dell’eurozona. Come mostra il grafico sotto, la produttività del lavoro è cresciuta costantemente in Finlandia dagli anni ‘60 fino al 2007. Tuttavia, nei sette anni successivi al 2007, la produttività del lavoro finlandese è scesa di circa il 3%.
Questa evoluzione può essere una brutta sorpresa per i finlandesi, ma su questo punto la Finlandia si conforma all’andamento europeo. La crescita della produttività nell’eurozona è in frenata da lungo tempo. Infatti, nel mio testo scritto con Kieran McQuinn, si sostiene che in futuro la crescita della produttività europea potrebbe essere perfino peggiore di quel che è stata nell’ultimo decennio, dato che molta di questa crescita era dovuta all’accumulo di capitale e che questo fattore è probabile che si indebolirà.
Riforme strutturali? Il sistema pensionistico
Quindi la ricetta europea per una lenta crescita sta dando i suoi frutti in Finlandia. L’invecchiamento della popolazione significa nessuna crescita dell’occupazione, e produttività deludente significa nessuna crescita del PIL.
La risposta da parte dei politici europei alla lenta crescita è sempre la stessa: “riforme strutturali”. Questo termine è usato così spesso che ci si può qualche volta dimenticare che questa invocazione delle riforme non è quasi mai sostenuta da specifiche raccomandazioni di politica economica. Ma perché un qualsiasi programma di riforme possa funzionare in un paese come la Finlandia, esso dovrebbe fare qualcosa per risolvere i due fattori che abbiamo descritto: l’occupazione e la produttività.
In materia di occupazione, la Finlandia ha un tasso di disoccupazione dell’8,8 per cento. Nonostante l’attuale crisi del paese, questo dato è sotto la media dell’eurozona , quindi è difficile che si possano trarre grandi vantaggi da riforme volte a ridurre i tassi medi di disoccupazione.
Un’altra potenziale area di riforma sono i sistemi pensionistici. Molti paesi europei hanno sistemi pensionistici generosi e tassi di partecipazione alla forza lavoro molto bassa tra i più anziani. La Finlandia, tuttavia, se la cava piuttosto bene su questo punto.
Il seguente grafico confronta i tassi di partecipazione alla forza lavoro degli anziani in Finlandia (le linee marroni) con quelli dell’eurozona a 12 paesi (le linee blu) e quelli della Svizzera (le linee nere). Quest’ultima viene mostrata perché organizzazioni quali l’OCSE e la Commissione Europea l’hanno indicata come modello per gli alti tassi di partecipazione alla forza lavoro degli anziani. Il grafico mostra che la Finlandia se la cava molto meglio rispetto al resto dell’eurozona ed è generalmente molto più vicina alla Svizzera rispetto al resto dell’eurozona.
Il mio testo scritto con Kieran McQuinn discute la possibilità che la riforma delle pensioni possa rilanciare la crescita in Europa. Abbiamo calcolato che una riforma delle pensioni che vedesse i lavoratori finlandesi rimanere nella forza lavoro come i loro equivalenti svizzeri, darebbe una spinta alla crescita del PIL di 0,12 punti percentuali all’anno nei prossimi trent’anni. Si tratta di un impatto piuttosto modesto. In generale, è chiaro che la riforma delle pensioni non è la strada giusta perché la Finlandia possa tornare alla crescita.
Riforme strutturali? La Produttività
L’altra area per una potenziale riforma di cui si parla spesso è una riforma a favore delle aziende che riduca la burocrazia e aumenti la produttività. Non c’è da sorprendersi se il giornalista del FT in Finlandia ha trovato diverse persone (un capo dell’opposizione e un ex ministro delle finanze svedese) pronte a discutere dell’”enorme necessità di riforme strutturali”.
Come tutti i paesi al mondo, la Finlandia non è perfetta e sono sicuro che ci sono un sacco di riforme a favore delle aziende che potrebbero essere introdotte. Ma è importante discutere la questione in un contesto adeguato. L’Indagine Doing Business della Banca mondiale raccoglie una enorme gamma di indicatori sulle facilitazioni al business e in questo momento colloca la Finlandia al nono posto nel mondo. Ciò significa che essa è la migliore nazione dell’eurozona, e dietro solo al Regno Unito e alla Danimarca nell’UE.
Sulla base di questi dati, sembra improbabile che la Finlandia sia in grado di elevare significativamente il suo tasso di crescita della produttività attraverso delle riforme strutturali.
Che dire degli altri paesi? Il nostro testo discute il potenziale impatto che potrebbero avere le riforme strutturali sulla crescita in ogni paese dell’eurozona a 12. In alcuni casi (come Spagna e Grecia), queste riforme possono avere effetti molto positivi. Ma, in media, le riforme difficilmente possono ribaltare l’impatto di una demografia declinante e delle attuali tendenze della produttività e riportare la crescita ai livelli precedentemente visti in Europa.
Il futuro della crescita in Europa sembra essere finlandese.
(Fonte vocidallestero)