Contro il Malocchio

Il malocchio, la jella, ‘a sfurtun’, la jettatura, la scaramanzia, sono parte integrante della cultura di Napoli e dei napoletani da sempre: riti e formule magiche trasmesse di generazione in generazione offrono uno spunto divertente per conoscere meglio la nostra variegata tradizione popolare. Per neutralizzare il malocchio, i napoletani usano diversi amuleti o svolgono determinati riti. Ecco la formula più conosciuta: Continue Reading

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Cento milioni di euro la spesa per i campi nomadi

campi-nomadi

Tra il 2005 e il 2011, a Napoli, Roma e Milano sono stati stanziati almeno cento milioni di euro per allestire, gestire e mantenere i “campi nomadi”, ovvero gli spazi che le politiche istituzionali hanno privilegiato per “ospitare” rom, sinti e camminanti nelle nostre città. Il Rapporto “Segregare costa” ricostruisce e analizza in dettaglio i costi (e il fallimento) delle politiche dei campi e denuncia l’urgenza di ripensare completamente i modelli e le pratiche di inclusione sociale e abitativa delle popolazioni rom.

Il Rapporto, curato da Berenice, Compare, Lunaria e OsservAzione, offre un monitoraggio dei costi delle politiche per l’allestimento, la gestione e la manutenzione del sistema dei “campi nomadi” tra il 2005 e il 2011 a Napoli, Roma e Milano. L’obiettivo è quello di fornire elementi di analisi e di riflessione per valutare, oltre ai costi umani – in termini di segregazione spaziale e sociale e di violazione dei diritti – sostenuti dai rom che risiedono nei campi, gli ingenti costi economici per la finanza pubblica legati alla realizzazione delle politiche dei campi. Si tratta di decine di milioni di euro destinati allo sgombero di campi rom “abusivi”; all’affitto, la bonifica, la dotazione infrastrutturale delle aree nelle quali i campi autorizzati dalle Amministrazioni locali vengono collocati e alla loro manutenzione e sorveglianza; all’erogazione di acqua, luce e gas e alla prestazione di servizi di socio-educativi: una vera e propria “economia da ghetto”. Il Rapporto si articola in cinque capitoli, i primi rispettivamente dedicati ai casi di Napoli, Roma e Milano, e si basa – per quanto possibile – sull’analisi dei documenti ufficiali delle amministrazioni pubbliche. La scarsa trasparenza e l’insufficiente livello di dettaglio dei documenti contabili, la difficoltà a reperire delibere comunali e determinazioni dirigenziali con cui si provvede all’impegno e all’erogazione dei fondi, la reticenza di alcuni tra i referenti istituzionali contattati a fornire la documentazione richiesta, l’impossibilità di scorporare voci di spesa rilevanti per l’analisi delle politiche indirizzate ai rom da capitoli di spesa più generali, hanno infatti impedito di effettuare una completa ricostruzione dei costi delle “politiche dei campi”. Sulla base delle informazioni raccolte nei tre capitoli sopra citati, le due parti finali del Rapporto ospitano alcune considerazioni conclusive e indicazioni di policy sulla necessità e l’urgenza di superare il modello dei “campi nomadi”, cioè la modalità ordinaria – socialmente ed economicamente insostenibile – con cui le istituzioni locali hanno governato fino a oggi la presenza rom sui propri territori.

Nel Comune di Napoli, dall’analisi della spesa per l’approntamento e la dotazione infrastrutturale di campi destinati all’ospitalità della popolazione rom partenopea, si evince che tra il 2005 e il 2011 sono stati messi a bilancio complessivamente quasi 18 milioni di euro (17.988.270). Tuttavia, soltanto una quota residuale di questi fondi è stata effettivamente impiegata: 572.274 euro, provenienti dal Ministero dell’Interno e utilizzati per la ristrutturazione del Centro Comunale di Accoglienza e Supporto Territoriale per Rom Rumeni (ex scuola “G. Deledda”). Uno stanziamento ben più consistente dal Fondo Strutturale di Sviluppo Regionale (FESR), pari a 7.015.996 euro, destinato alla realizzazione di un villaggio attrezzato nel quartiere di Scampia – nella stessa area su cui si estende oggi un insediamento non autorizzato di più di cento famiglie, privo di servizi e con condizioni igienico-sanitarie molto carenti –, rimane tuttora inutilizzato. Una situazione simile riguarda lo stato di un ingente finanziamento del Ministero dell’Interno per la realizzazione di un progetto di campo attrezzato in via delle Industrie, approvato nel 2010 con un’ordinanza dell’allora Commissario prefettizio all’“emergenza nomadi”: 10.400.000 euro ad oggi non ancora impiegati. Per quanto riguarda le spese per la manutenzione e la gestione delle strutture adibite all’ospitalità dei rom a Napoli, occorre premettere che sono state prese in esame nella ricerca soltanto quelle relative all’unico campo autorizzato dal Comune, il “Villaggio della solidarietà” di Secondigliano, dove risiedono 700 persone suddivise in 92 moduli abitativi. Dal 2005 al 2011, sono stati impiegati 2.958.357 euro così ripartiti: 1.747.507 per le forniture idriche (una voce che da sola copre quasi il 60% dei costi totali), 761.507 euro per la fornitura di energia elettrica, 449.832 euro per la manutenzione ordinaria e straordinaria del Villaggio. Gli interventi socio-educativi a favore dei rom promossi dall’Amministrazione comunale costituiscono un ulteriore capitolo di spesa esaminato in dettaglio: nel periodo 2005-2011 sono stati impiegati quasi quattro milioni di euro (3.393.558) per finanziare programmi rivolti in gran parte ai minori rom (ad esempio, servizi di accompagnamento e sostegno scolastico), anche grazie ai contributi provenienti dal Fondo Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e, per un arco di tempo limitato, dal Ministero della Solidarietà Sociale e dal PON Sicurezza 2007/2013. Si tratta tuttavia di finanziamenti insufficienti, disorganici e frammentari, dettati da una logica emergenziale e incapaci di promuovere reali percorsi di autonomizzazione dei rom, in particolare degli adulti. Infine, sul fronte delle politiche degli sgomberi degli insediamenti abusivi dei rom, occorre registrare una spesa da parte del Comune di Napoli di 146.950.000 euro relativa al 2005. Nel complesso, dunque, gli stanziamenti registrati a Napoli tra il 2005 e il 2011 nell’ambito delle politiche di governo del sistema dei campi rom – allestimento delle aree, dotazione infrastrutturale, gestione e manutenzione, interventi socio-educativi e atti di sgombero di insediamenti abusivi –, ammontano a più di 24 milioni di euro (24.487.135).

A Roma, secondo i dati contenuti nelle Relazioni al Rendiconto annuale del Comune, tra il 2005 e il 2011 il mantenimento del sistema dei campi rom – allestimento delle aree e dotazione delle infrastrutture, manutenzione e gestione ordinaria e straordinaria, interventi socio-educativi, spese per il personale degli uffici pubblici preposti – ha comportato una spesa complessiva di 86.247.106 euro. In questa somma sono però ricompresi i fondi per la cosiddetta “emergenza nomadi”, erogati dal Ministero dell’Interno al Comune di Roma e da quest’ultimo trasferiti alla Prefettura: 7,8 milioni di euro nel 2009 e 10 milioni nel 2011. Tuttavia, la disaggregazione delle voci di spesa nelle Relazioni al Rendiconto, pur evidenziando un significativo aumento delle risorse impegnate a “favore dei rom” a partire dal 2008, non risulta sufficientemente particolareggiata. Per questo motivo si è scelto nella ricerca di prendere in esame anche i dati, più dettagliati, forniti dal Dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della Salute del Comune, da cui dipende l’Ufficio Nomadi. Per il periodo 2005-2011, il Dipartimento ha documentato una spesa pari a 69.869.486 euro, inferiore di circa 16 milioni rispetto ai dati desumibili dalle Relazioni al Rendiconto. La disaggregazione della spesa, i cui dati sono stati forniti solo per gli anni 2005-2010, evidenzia che in questo quinquennio la maggior parte dei costi è stata sostenuta per la gestione dei campi (19,9 milioni di euro), per effettuare investimenti (12,6 milioni), per gli interventi curati dall’Ama (9,4 milioni) e per la bonifica delle aree (8,1 milioni). Infine, 6,5 milioni di euro sono stati allocati sulla voce “Lavori campi” per gli interventi di manutenzione e 2,4 milioni per servizi vari a sostegno delle famiglie rom. Per quanto riguarda inoltre la spesa per gli interventi di scolarizzazione dei minori rom sostenuta dal Comune, tra il 2005 e il 2011 sono stati messi a gara per l’affidamento del servizio (accompagnamento all’iscrizione, sostegno alla frequenza, tutoraggio, sensibilizzazione delle famiglie) 9.380.994 euro, ai quali devono però aggiungersi i costi sostenuti per l’estensione delle convenzioni 2005-2008 fino all’emissione dei nuovi bandi avvenuta solo nel 2009. Solo per gli anni 2010 e 2011 sono stati resi disponibili i dati sulla spesa annuale effettivamente sostenuta, pari rispettivamente a 1.815.705 euro nel 2010 e 1.983.277 euro nel 2011. A tale spesa vanno aggiunti i costi di trasporto scuolabus, il cui totale non è stato possibile ricostruire. Infine, sul fronte dei costi legati alle operazioni di sgombero di insediamenti rom considerati abusivi, la documentazione ufficiale raccolta non ha permesso di ottenere informazioni. Secondo alcune stime, per ciascuno sgombero la spesa sostenuta varia tra i 15 e i 20.000 euro. L’Associazione 21 luglio ha censito 450 sgomberi solo nel periodo compreso tra il 31 luglio 2009 e il 24 agosto 2012, mentre le operazioni di smantellamento degli insediamenti “informali” citate esplicitamente nelle Relazioni al Rendiconto generale del Comune di Roma 2005-2011 sono 31.

All’interno del quadro delineato dalla ricerca, il caso di Milano si contraddistingue per le criticità rilevate nella fase di raccolta dati che hanno impedito di offrire una ricostruzione esaustiva dei costi effettivi delle politiche legate al governo del sistema dei campi. Al di là di queste lacune, nel computo delle spese accertate si registrano le seguenti voci. Nel biennio 2005-2006, il Comune di Milano ha implementato tre tipi di attività nei campi: un servizio di mediazione scolastica e sociale per i minori rom inseriti nelle scuole primarie dal costo di 104.000 euro l’anno, un progetto da 50.000 euro l’anno per interventi di animazione sociale per i bambini dei campi comunali e il sostegno a cooperative sociali rom, che vengono incaricate della gestione degli interventi di piccola manutenzione dei campi, per un totale di 170.000 euro l’anno. Il 2007 segna invece il passaggio a un modello organizzativo diverso: si accentua l’approccio securitario e si programmano interventi volti a garantire il controllo dei campi. Vengono così impegnati 480.000 euro per l’installazione di un sistema di video-sorveglianza nei campi comunali, mentre il controllo sociale viene promosso attraverso l’azione dei presidi della polizia locale – di cui non è stato possibile ricostruire il costo totale – e dei presidi sociali, che divengono i nuovi attori incaricati della gestione dei campi occupandosi della manutenzione ordinaria e degli interventi di promozione sociale. Per quanto riguarda inoltre i fondi impiegati per la gestione dei campi del territorio comunale milanese nel periodo 2005-2011, sono stati accertati 812.000 euro per il biennio 2005-2006 e 840.000 euro per il triennio 2008-2011. Quest’ultima cifra è tuttavia parziale, in quanto non tiene conto di diverse voci di costo tra cui il progetto di mediazione culturale per i minori rom inseriti nelle scuole primarie, rifinanziato nel triennio 2008-2011 con uno stanziamento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e il costo delle utenze e della raccolta rifiuti di tutti i campi comunali. Oltre a questi fondi, nel 2008 vengono stanziati 1.050.000 euro per il progetto “Dal Campo alla Città”, finalizzato alla sperimentazione di formule abitative alternative volte a migliorare le condizioni di vita dei rom. Con questo progetto, basato sulla ristrutturazione di alcuni appartamenti per l’accoglienza temporanea delle famiglie rom provenienti dai campi, inizia a delinearsi – pur con difficoltà e reticenze – un cambiamento di prospettiva nelle politiche dell’Amministrazione comunale in direzione di una progressiva e reale autonomizzazione della popolazione rom.

L’obiettivo che questo Rapporto si propone è quello di evidenziare lo spreco di risorse pubbliche che il mantenimento del sistema dei campi comporta. Ricorre infatti sia tra gli attori istituzionali chiamati a definire le linee di indirizzo delle politiche “a favore dei rom”, sia nell’opinione pubblica – per lo più disinformata e spesso strumentalizzata da chi fa della xenofobia, del razzismo e dell’antiziganismo i principali argomenti della propaganda politica – una tesi che i dati contenuti nel Rapporto contribuiscono a decostruire. Per giustificare il mantenimento dei “campi nomadi”, infatti, si afferma generalmente che non ci sono risorse pubbliche sufficienti, veicolando così il messaggio secondo cui i campi costituiscono la soluzione abitativa meno costosa che le amministrazioni locali possono adottare per ospitare i rom. Non è così. Il Rapporto mostra l’infondatezza di questa tesi: milioni di euro sono stati stanziati tra il 2005 e il 2011 per allestire, gestire e mantenere i campi a Napoli (almeno 24,4 milioni di euro), Roma (almeno 69,8 milioni ai quali si aggiungono almeno altri 9,3 milioni di euro per i progetti di scolarizzazione) e Milano (2,7 milioni di euro gli stanziamenti accertati, ma il dato è parziale). Gli interventi sociali di formazione e inserimento lavorativo a questi collegati non hanno peraltro raggiunto risultati significativi in termini di una reale autonomizzazione delle persone. Si tratta di soldi pubblici che potrebbero essere molto più utilmente impiegati in modo diverso: a tal fine è necessario che le istituzioni cambino del tutto il proprio approccio: non servono soluzioni “speciali”, “temporanee” e “ghettizzanti”, ma progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa finalizzati alla reale autonomizzazione dei rom. I “piani nomadi” devono e possono essere sostituiti da Piani di chiusura dei campi nomadi. Questi ultimi non hanno naturalmente niente a che vedere con le vergognose politiche degli “sgomberi” che accompagnano le “politiche dei campi”. Pianificare la chiusura di questi ultimi significa prefigurare soluzioni abitative alternative, concordando con i residenti tempi e modalità del cambiamento. Le alternative possibili – come dimostrano, oltre alla sperimentazione realizzata a Milano, le buone pratiche di Pisa, Padova e Bologna ricordate nel quarto contributo del Rapporto – sono molte: dal sostegno all’inserimento in abitazioni ordinarie o in case di edilizia popolare pubblica, all’housing sociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate.

Per scaricare la versione integrale del rapporto clicca qui 

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Il “Patto per Scampia”

Scampia è un quartiere napoletano di circa 50.000 abitanti, situato nell’estrema periferia nord della città. Oltre l’80% dei suoi edifici risale al ventennio ’70-’90. Il quartiere nasce nel 1964, in seguito alla legge 167, che stabiliva l’acquisizione da parte dei comuni di aree per l’edilizia popolare, nell’ambito di una politica che intendeva rispondere a una pressante domanda di alloggi (emergenza post-terremoto). E’ uno dei quartieri pìù popolosi della città dove alloggiano anche migliaia di abusivi che hanno occupato i luoghi più disparati. Il suo nome è tristemente noto perché considerato uno dei quartieri più degradati e problematici di Napoli. Il freno principale al suo sviluppo è la massiccia presenza della criminalità organizzata: la camorra controlla una notevole mole di lavoro nero e si manifesta soprattutto con il racket ed il traffico di droga; Scampia rappresenta una “piazza” in cui avviene spaccio di grossi quantitativi senza particolari problemi, al punto da essere definita “paradiso della droga” (infatti detiene il primo posto in Europa per quanto riguarda lo spaccio di sostanze stupefacenti). Scampia è comunque nota anche per i suoi problemi legati all’edilizia urbana. Oltre alle cosiddette Vele, si nota la presenza di strade senza illuminazione, di caseggiati sprovvisti di servizi e di scarsissimi collegamenti pubblici.

Per combattere i problemi di Napoli e di Scampia, il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, il Guardasigilli Paola Severino i rappresentanti degli enti locali, i presidenti della Regione Stefano Caldoro, e della Provincia Luigi Cesaro, e il sindaco Luigi De Magistris, hanno siglato un “patto” per rendere Napoli e Scampia più sicura e vivibile. In merito pubblico integralmente la delibera del sindaco Luigi de Magistris al Consiglio comunale.

“La delibera nasce dalla volontà di rispondere, attraverso la programmazione e la realizzazione di interventi politico-sociali, all’attuale momento di recrudescenza criminale nel quartiere Scampia e nell’area Nord, anche per evitare che si sclerotizzi uno stereotipo mediatico negativo, e non solo sul piano nazionale, che vorrebbe Scampia ridotta esclusivamente all’immagine di un “territorio di conquista” da parte dei clan camorristici per il controllo delle piazze di spaccio della droga, quindi zona franca dello Stato ceduta alla violenza delle faide fra clan. Evitare che si consolidi il ” brand” Scampia, spesso usato dal circuito (non sempre virtuoso e onesto) politico-mediatico. Si deve infatti partire dal dato che questo quartiere è “altro”, abitato e vissuto dai cittadini onesti. Il tessuto civico-associativo di Scampia, inoltre, per il suo coraggioso attivismo, rappresenta un punto di partenza imprescindibile per questa Giunta, che proprio dalle sue indicazioni e sollecitazioni ha approntato gli interventi e le misure da mettere in campo, vedendo nello stesso tessuto civico-associativo uno strumento di mediazione e contatto con i cittadini e le cittadine di questo quartiere. Questa delibera, che coinvolge trasversalmente molteplici assessorati, vuole essere un modello di intervento, un esperimento pilota, da estendere poi ad altri quartieri maggiormente caratterizzati da criticità sociali ed economiche, per un investimento a favore di un ritorno alla “normalità” -agendo anche e soprattutto – sull’ordinario. Questa delibera, va sottolineato, interviene rispettando e tenendo presente il limite istituzionale imposto, ovvero il terreno delle competenze che spettano al Comune di Napoli a cui, per esempio, non può essere attribuito l’onere della sicurezza del territorio che, infatti, spetta al Governo per mezzo delle forze dell’ordine. Così come essenziale è un intervento del Governo sul piano dell’emergenza occupazionale rispetto a cui il Comune può solo impegnarsi nei termini di un soggetto che contribuisce, come più volte ricordato, a realizzare le condizioni per cui il lavoro sia un diritto e non un privilegio. Continue Reading

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C’era una volta la Serie A

Ormai ci siamo questo weekend parte il campionato di serie A. Serie A Tim che compie 82 anni. E li sente tutti come un anziano malato. Match truccati, scommesse, indagini della magistratura, campioni in fuga, pochi abbonati, stadi vecchi e guerra per i diritti tv sul satellite. Ormai il campionato più bello del Mondo e’ solo un ricordo. Mondo alla Rovescia analizza in 3 puntate le ragioni di questo declino. Si comincia con l’interessante articolo di questa settimana pubblicato sull’Espresso. Una dura analisi di Gianfrancesco Turano e le proposte dell’economista Tito Boeri per cercare di salvare lo sport più popolare ed amato del nostro paese.

Partite truccate. Processi sportivi e penali. Campioni in fuga. Stadi vecchi semivuoti. Abbonamenti a rilento.

C’era una volta, ormai tanti anni fa, il campionato più bello del mondo.

La serie A che parte sabato 25 agosto è un sistema in piena recessione, con uno spread di credibilità rispetto ai maggiori tornei d’Europa a 1.200, per dirla con il premier Mario Monti. Le convergenze parallele dell’Italia e del suo culto nazionale maggioritario dicono che la nottata è ancora lunga e che la crisi aumenta scendendo dal vertice verso la base. In Lega Pro, la vecchia serie C, negli ultimi cinque anni la crisi finanziaria ha ridotto i club da 127 a 69. Non è più un calcio per piccoli se anche i grandi faticano. A tenere in piedi la baracca è sempre più la televisione. Ma le due piattaforme pay (Sky e Mediaset Premium) si fanno una tale concorrenza sui prezzi che per mettersi in fila ai tornelli di uno stadio ormai serve il coaching motivazionale. L’inizio della stagione è stato il peggiore possibile con una Supercoppa italiana giocata tra Juventus e Napoli a Pechino. L’idea della Lega calcio, la litigiosa confindustria del pallone, era di aprire un varco nei mercati asiatici ricchi di tifosi-consumatori e poveri di squadre ad alto livello. È finita in bagarre per l’arbitraggio, con il Napoli sconfitto che si è rifiutato di presentarsi alla premiazione. Più facile piazzare un Btp a dieci anni che un teatrino del genere. E del resto, con la stessa ottica evolutiva, dieci anni fa la Supercoppa si è giocata a Tripoli (Juventus-Parma) in omaggio alla famiglia Gheddafi.
Allora come oggi, gli alti dirigenti del calcio nazionale hanno spiegato che bisogna mettersi al passo con la modernità. Deve essere che la modernità si è allenata meglio perché non ci fa vedere palla.

La Procura attacca a Pieno organico

Le nuove abitudini del campionato 2012-2013 includono, tra un match e l’altro, il notiziario delle Procure penali che indagano sul sistema delle partite truccate. Le inchieste di Cremona, Bari, Napoli, con la probabile aggiunta di Genova, proseguiranno a lungo. Nel frattempo i processi sportivi stanno definendo un elenco già lungo di penalizzazioni tra serie A e serie B. Le sentenze di primo grado emesse dalla Disciplinare hanno mostrato i limiti dell’autonomia giudiziaria del calcio: pentiti credibili a corrente alternata, patteggiamenti anche troppo comodi, multe alla portata di tutte le tasche e una buona fetta di assoluzioni. Il risultato più clamoroso rimane la squalifica di dieci mesi per l’allenatore della Juventus campione d’Italia, Antonio Conte, condannato per due omesse denunce risalenti alla sua esperienza sulla panchina del Siena. Inizialmente, il club della famiglia Agnelli ha sciorinato una strategia processuale all’insegna dello scontro frontale. Per quanto giovane, il presidente Andrea Agnelli fatica a liberarsi di un revanscismo nato con i due scudetti tolti ai bianconeri per Calciopoli e proseguito con una richiesta di danni alla Figc per 400 milioni di euro, una somma pari ai trasferimenti di un anno dallo Stato alle 45 federazioni sportive nazionali. Quando qualcuno ha convinto Agnelli a fare meno il tifoso e a non trasformare il calcioscommesse in un processo alla Juve, la Vecchia Signora ha cambiato linea difensiva. Sono arrivate così le assoluzioni di Simone Pepe e, soprattutto, del titolare della Nazionale di Prandelli, Leonardo Bonucci, un capitale tecnico ed economico molto consistente. Conte, che era stato costretto a patteggiare dalla società, passa al giudizio di secondo grado in Corte Federale con scarse speranze di assoluzione e concrete aspettative di sconto. Se tornasse sulla panchina bianconera all’inizio del 2013 non ci sarebbe da stupirsi.

In 60 mila allo stadio, per costruirlo

La legge bipartisan sugli stadi forse ce la fa a passare(leggi qui). A settembre va in terza lettura al Senato, dopo un blocco di tre anni alla Camera dovuto in larga parte ai tentativi di emendamento del presidente laziale e latinista Claudio Lotito. Emendamenti pro domo sua, absit iniuria verbis. «La legge sugli impianti sportivi», dice il senatore Pdl Butti, che dà il nome al provvedimento insieme al deputato Pd Giovanni Lolli, «sarà approvata entro l’anno. Non è una legge per speculatori, non è un ladrocinio legalizzato di denaro pubblico come Italia ’90 e non sono previste deroghe ai vincoli urbanistici. Se questo fa arrabbiare qualche presidente, pazienza. A regime, la legge creerà 60 mila posti di lavoro». Il nuovo stadio della Lazio avrà dunque vita dura visto che la zona prescelta è in Val Tiberina, sui terreni a rischio idrogeologico di Cristina Mezzaroma in Lotito e del fratello Marco Mezzaroma in Mara Carfagna, coinvolti nella gestione della Salernitana del multiproprietario Lotito.  L’Udinese sarà il primo club ad affiancare la Juventus nello sviluppo di un nuovo impianto. All’inizio di agosto Gianpaolo Pozzo ha firmato l’accordo con la giunta comunale per la ristrutturazione del “Friuli” entro il 2014. Un accordo simile sembra in dirittura di arrivo tra Aurelio De Laurentiis e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, alla guida di una giunta che perde pezzi come il San Paolo. A settembre la Roma annuncerà il fortunato estratto fra gli oltre 80 lotti di terreno offerti dai palazzinari della Capitale impantanati nella crisi del real estate. Il gruppo dei possibili vincenti si è già ridotto a meno di una decina di aree dopo una prima selezione dell’advisor immobiliare Cushman & Wakefield. All’ultimo minuto, l’Eni ha proposto l’ex Gazometro che ha il merito di essere centrale e in una zona (Ostiense-Testaccio-Garbatella) dove i laziali sono rari come i panda. Il problema sta nei lavori di bonifica, stimati in una cifra astronomica (200 milioni di euro). Inoltre i lavori in piena città paralizzerebbero il sud di Roma per quattro anni. Il sindaco Gianni Alemanno preferisce Tor di Valle (proprietà del costruttore Parnasi), già collegata dalla linea ferroviaria Roma-Lido. La scelta finale sarà frutto di una mediazione tra il Campidoglio e il futuro presidente romanista Jim Pallotta. Per ora, il nuovo stadio ha fatto il miracolo di distendere i rapporti Roma- Juventus magari anche perché Cushman & Wakefield appartiene al gruppo Exor, la holding che è principale azionista della Fiat e della Vecchia Signora. Al clima da intesa cordiale resiste mister Zdenek Zeman, mangiatore di bambini juventini e critico sul fatto che Conte continui ad allenare la Juve anche se non siede in panchina. Nuovo stadio in vista anche per il Cagliari a Quartu Sant’Elena, dove sarà ristrutturato il vecchio impianto di Is Arenas, e per la Sampdoria neopromossa dei Garrone. L’usato, per lo più, prevale sul nuovo. Tra le eccezioni c’è l’Inter in formato Repubblica popolare cinese del presidente Massimo Moratti e del figlio vicepresidente Angelomario detto, con lungimiranza, Mao. La China Railway Construction dovrebbe costruire l’impianto dei nerazzurri, mentre altri investitori cinesi ancora da individuare entreranno nel capitale del club più in rosso d’Italia (quasi 1,5 miliardi di euro di perdite sotto la gestione Moratti) con una quota tra il 15 e il 30 per cento.

Cinesi, americani e fabbrica di debiti

Con conti economici e stati patrimoniali da retrocessione, i club di serie A sperano nei cavalieri bianchi, o di qualunque colore eventuale, in arrivo dall’estero con container di denaro al seguito. I sogni sono duri a morire. Finora l’unico zio d’America, Tom Di Benedetto della Roma, è arrivato per tagliare stipendi (da 101 a 80 milioni di euro). L’unico mezzo oligarca russo, Yuri Korablin, bivacca a Venezia, dove la squadra è appena riuscita a salire dalla serie D alla Seconda divisione di Lega Pro, l’ex C2. Non proprio il Chelsea di Roman Abramovich. La quota libica nella Juve è svanita dopo il crollo della famiglia Gheddafi. I cinesi, anche quelli interisti, sono businessmen poco inclini allo sperpero. Gli arabi che dovevano entrare nel Palermo di Maurizio Zamparini sono diventati una gag da Ficarra&Picone e anche gli emiri interessati a una fetta di Milan non hanno ancora trovato un motivo valido per comprare una quota di minoranza in una società in perdita dove non conterebbero nulla e dove, presidente o non presidente, trapiantato o calvo, da 26 anni comanda sempre lo stesso. I capitali esteri non salveranno la serie A. Del resto non hanno salvato, anzi, hanno devastato la Premier League che ha tolto alla serie A il titolo di campionato più bello a costo di un indebitamento mostruoso. L’ultima Review of Football Finance curata da Deloitte lo stima in 2,4 miliardi di sterline (oltre 3 miliardi di euro) contro i 2,6 miliardi della serie A. Quanto alla Liga, è tecnicamente fallita. I finanziamenti del consorzio Bankia presi dalla Bce e girati ai top club spagnoli rappresentano uno dei maggiori scandali finanziari del 2012. I trionfi mondiali ed europei della nazionale di don Vicente Del Bosque passano attraverso un indebitamento che supera i 3,5 miliardi di euro. Di questi, oltre 2 miliardi derivano dalle follie di mercato dei top club come Real Madrid (589 milioni di debiti), Barcellona (578 milioni), Atlético Madrid (514 milioni) e Valencia (382 milioni). Tuttavia, il tifoso se ne frega della finanza. Il calciomane italiano è scontento solo perché, sul piano tecnico, le squadre inglesi, il Barça, il Real che ha suonato il Milan in amichevole estiva, sono fuori dalla portata delle nostre squadre, salvo difendere in undici sulla linea di porta. Detto che i nuovi stadi comporteranno un aumento consistente dell’indebitamento lordo, è anche vero che la nuova autarchia potrebbe essere un’opportunità per lavorare al rilancio, se il fair-play finanziario promosso da Michel Platini aiuta il sistema del calcio continentale a ritrovare un minimo di equilibrio tra poveri ma intenditori e scialacquatori incompetenti. Intanto, prosegue il valzer degli addii.

Uscenti ed emergenti

Quest’anno la rubrica “ci hanno lasciato” è ricca di nomi. Zlatan Ibrahimovic, Thiago Silva, Ezequiel Lavezzi, Fabio Borini sono gli scappati eccellenti. Da qui alla chiusura del mercato a fine agosto potrebbero essercene altri. La novità è che persino la Francia è diventata un concorrente, grazie al Psg dei principi del Qatar, la famiglia al Thani (145 milioni spesi soltanto per Thiago, Ibra e il brasiliano Lucas). Per tenere buoni i tifosi, i presidenti nostrani fanno la faccia triste e allargano le braccia. In realtà, non vedevano l’ora che qualcuno li liberasse dal ricatto finanziario delle star superpagate. Silvio Berlusconi ha dato la scossa più forte con un taglio degli ingaggi da 190 a 130 milioni di euro. La figlia Barbara, erede designata agli affari rossoneri, ha unito l’utile al dilettevole sgombrando Milanello dai rivali del fidanzato Pato. L’Inter è talmente giovanilista da avere confermato in panchina l’ex allenatore della Primavera romanista Andrea Stramaccioni. La serie A ha quindi accettato il ruolo di mercato secondario e si è buttata sui giovani, non necessariamente italiani. Nel giro di poche settimane lo slogan si è diffuso nell’intera Lega calcio. Il mantra di tutti è diventato Moneyball, un film dell’anno scorso con Brad Pitt e Philip Seymour Hoffman. La trama, ispirata a una storia vera, racconta di una squadra di baseball che ingaggia per un pugno di dollari un gruppo di giocatori incompresi e li valorizza. Messa così, sembra facile. Molti incompresi sono tali a buon diritto e non sempre i giovani mantengono le promesse. Le maggiori aspettative sono su Mattia Destro. L’attaccante comprato dalla Roma è stato l’uomo-mercato. Occhio anche a Ciro Immobile (Genoa), di scuola zemaniana, e a Luis Muriel, l’ennesimo acquisto che procurerà plusvalenze multimilionarie all’Udinese. Ma il vero colpo l’ha fatto il Napoli prendendo dal Pescara Lorenzo Insigne, seconda punta alta 163 centimetri, 21 anni, made in Naples. Sul Golfo i profeti in patria sono rari (Totonno Iuliano, i fratelli Cannavaro, Ciro Ferrara) ma su Insigne si può scommettere anche senza il trucco. Un italiano così forte a 21 anni non si vedeva da parecchio. Il problema sarà tenere lui e gli altri a giocare in serie A per più di un paio di stagioni. (gianfrancesco turano)

Dr. Pulvirenti e Mr WindJet

Tra i miracoli del calcio c’è quello di Antonino Pulvirenti. In veste di presidente del Catania calcio, fino alla fine di luglio l’imprenditore di Belpasso ha tenuto conferenze stampa e incontri col sindaco Raffaele Stancanelli sul nuovo stadio dei rosazzurri. L’impianto costerà 90 milioni di euro e sarà realizzato al quartiere del Librino, in zona aeroporto. Quello stesso aeroporto dove, dal 12 agosto, hanno smesso di atterrare i voli della Wind Jet di Pulvirenti con 300 mila persone bloccate a terra e 500 dipendenti della compagnia aerea a rischio disoccupazione. La storia ha dell’incredibile solo per chi ignora il potere salvifico e il privilegio di immunità che si accompagna alla presidenza di una squadra, meglio se di serie A. Così sui quotidiani tengono banco le polemiche tra il management Wind Jet, l’Alitalia che chissà perché dovrebbe salvare la compagnia siciliana, l’altrettanto siciliano Vito Riggio, numero uno dell’ente dell’aviazione civile (Enac), e le associazioni dei consumatori che sottolineano l’ennesimo caso di crisi del low cost alla vigilia delle vacanze estive. Ma basta andare alla pagina dello sport e ci si può informare sul vivace calciomercato del Catania, con otto acquisti a fronte di quattro cessioni. E mancano ancora un rinforzo difensivo e un centrocampista. Eppure Wind Jet e Catania sono controllate dalla stessa holding, la Finaria, a sua volta posseduta al 90 per cento da Pulvirenti. Per Finaria, che ha 348 milioni di ricavi consolidati nell’ultimo esercizio disponibile (2010) con un utile netto di 3 milioni, la compagnia aerea rappresenta circa due terzi dell’attività di gruppo con una perdita di 3 milioni. Altri 100 milioni di euro vengono dai supermercati della Meridi e 55 dal Catania che ha chiuso la stagione 2010-2011 con risultati in crescita e un utile di 6,5 milioni ottenuto grazie a una politica di mercato concentrata su giocatori argentini da lanciare. Lanciati anche l’allenatore Vincenzo Montella, passato alla Fiorentina dei Della Valle, e il direttore sportivo Pietro Lo Monaco, che si è messo in proprio acquistando il Messina in serie D. I passeggeri Wind Jet si sono invece lanciati a loro spese ricomprando il biglietto a caro prezzo (g.t.)

L’analisi di Boeri

A giudicare dal debito astronomico delle squadre di serie A e B, dal calo delle presenze negli stadi e dal sempre minor numero di star internazionali che giocano nel nostro campionato, il calcio è oggi in una crisi ancora più profonda di quella che da tempo affligge l’economia italiana. Necessiterebbe forse di un esecutivo tecnico che faccia quelle cose che gli organi di governo del calcio non sono riuscite a fare in tutti questi anni: ridurre il numero di squadre professionistiche, imporre davvero il risanamento dei loro bilanci come condizione per l’iscrizione ai tornei e reprimere duramente l’illecito sportivo, tuttora dilagante. Sono tutte misure fondamentali per ridare credibilità al calcio ed evitarne il fallimento. Ma c’è già stata una breve stagione di commissariamento del nostro sport più popolare, dopo lo scandalo di Calciopoli. E a parte per il fatto di essere stata quella in cui l’Italia ha vinto i mondiali di Germania, questa stagione difficilmente verrà ricordata come un momento di svolta. Tutto è rimasto come prima. Inoltre c’è sempre il problema che si incontra ogniqualvolta si ricorre a soluzioni di governance transitorie, giustificate dall’emergenza: cosa accadrà dopo? È, dopotutto, lo stesso interrogativo che ostacola gli sforzi del governo Monti di ridare credibilità al nostro Paese. Per il calcio allora è bene pensare, più che a esecutivi tecnici, a cambiamenti permanenti nelle strutture di governo, aprendole maggiormente a ciò che oggi rappresenta forse l’elemento più vitale della nostra industria del calcio: il fortissimo interesse che continua a raccogliere tra gli italiani e la realtà vitale del calcio dilettantistico. Tre italiani su quattro si dichiarano interessati o molto interessati al calcio, 32 milioni di nostri connazionali seguono la nazionale, 28 milioni la serie A, 26 milioni la Champions League, mentre si giocano nella penisola la bellezza di 600 mila partite regolamentari ogni anno, più che nel Regno Unito, la culla del football moderno. Oggi ai vertici del calcio italiano c’è una struttura duale. Da una parte, c’è la Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc) che rappresenta, almeno in linea di principio, gli interessi più generali e che, almeno sulla carta, dovrebbe regolamentare lo sport e vigilare sul rispetto delle regole. Dall’altra parte, c’è la Lega Nazionale Professionisti nelle sue varie articolazioni, che dovrebbe sulla carta occuparsi di migliorare il clima competitivo e creare maggiore interesse attorno al nostro Campionato. La Lega, in realtà, è una struttura di autogoverno la cui funzione principale è divenuta quella di gestire, per conto delle squadre iscritte al Campionato, le aste per la cessione dei diritti tv. Di fronte al calo vistoso delle risorse pubbliche per le attività sportive e alla crescente importanza dei diritti tv nelle entrate delle squadre, la Lega è diventata oggi l’organo di governo più importante per il calcio professionistico. Questo è un problema perchè la Lega rappresenta solo una componente del calcio e certo non tiene conto degli interessi generali e delle ricadute che il pallone ha sulla società e l’economia italiana. La Lega, ad esempio, è stata sempre molto timida nel condannare gli illeciti sportivi di cui si sono rese protagoniste diverse squadre, a partire dai loro vertici. Inoltre la Lega ha dimostrato in tutti questi anni di non essere in grado di prendere decisioni, a partire dal rinnovo delle sue cariche direttive. Il suo presidente è ancora Maurizio Beretta nonostante sia da tempo dirigente Unicredit. Bisogna dunque superare questa struttura duale rendendo la Figc l’unica autorità di regolamentazione del calcio. Bene in questa riforma, prevedere come in altri paesi il coinvolgimento nella governance del calcio anche di quegli stakeholder che sin qui sono stati tenuti rigorosamente fuori dagli organi decisionali, vale a dire gli appassionati di calcio, premiando coloro che vanno allo stadio, pur non facendo parte di alcun gruppo di tifoseria organizzata. Questi sostenitori non organizzati dovrebbero essere dotati di una tessera del «bravo tifoso». Non mi riferisco alla tessera del tifoso introdotta dall’ex-ministro Maroni, che si è presto rivelata una sorta di card dei gruppi organizzati; ma di una tessera per i singoli tifosi che vanno pacificamente allo stadio, come la fidelity card proposta dal ministro Cancellieri. La tessera dovrebbe attribuire il diritto di eleggere dei propri rappresentanti ai vertici della Figc. Perché è vero che gli individui possono sempre votare con i piedi, in questo caso cessando di andare allo stadio, ma nella realtà attuale del calcio in Italia, si tratterebbe di un’arma spuntata. Dopo Calciopoli le presenze allo stadio delle squadre coinvolte sono fortemente diminuite, ma la delusione degli spettatori che cessano di andare allo stadio rischia di passare inosservata, perché i redditi da stadio occupano una piccola fetta nei fatturati delle squadre italiane. Se imponessimo alle società di calcio di avere dei bilanci più trasparenti, spingendole ad aumentare i ricavi da stadio, anche le reazioni degli spettatori alla corruzione servirebbero come «disciplining device», imponendo alle società comportamenti diversi. Un altro modo di coinvolgere gli appassionati di calcio consiste nell’aprire la struttura proprietaria ai sostenitori, come nella Bundesliga dove il 50,1 per cento della proprietà deve essere nelle mani di un’associazione sportiva fortemente radicata sul territorio, il cui voto è fondamentale per la nomina degli organi sociali. In Italia solo la Fiorentina ha aperto in modo permanente le riunioni dei propri organi sociali alle istituzioni locali. Un altro modello da cui si potrebbe trarre spunto è quello di alcune squadre della Liga spagnola (tra cui Real e Barcellona) che permettono ai tifosi di diventare soci e di votare. Quale che sia il modello adottato, è fondamentale che nelle scelte delle società pesino di più le esigenze degli appassionati, troppo spesso del tutto ignorati nelle scelte sui calendari e presi in giro nelle campagna di abbonamento con promesse mai realizzate. Dare più peso agli appassionati non organizzati significa anche isolare le tifoserie organizzate che sono oggi l’unico referente delle società e che troppo spesso hanno tenuto sotto scacco i presidenti delle squadre minacciandoli di organizzare disordini allo stadio, inevitabilmente sanzionati con multe a carico delle società.

Fuori gioco. Calcio e potere. Da Della Valle a Berlusconi, da Preziosi a Moratti. La vera storia dei presidenti di Serie A. I presidenti sgomitano, attaccano, fanno gol o li subiscono, tra affari, cordate e lobby, patti di sindacato, banche e giornali, operazioni immobiliari e finanziarie, rapporti con la politica, in tribuna e fuori dallo stadio. La trama del potere vista attraverso il calcio passa dalla Prima alla Seconda Repubblica, da Andreotti a Berlusconi, da Geronzi a Profumo.

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