In Europa, come in tutto il mondo, la questione della presenza musulmana è elemento di accesa discussione politica e sociale. Alcuni denunciano una vera e propria “invasione islamica”, che mina i valori e le fondamenta della nostra società. Cosa ci dicono i numeri? Continue Reading
musulmani
Sono musulmana, cosa pensate quando mi guardate?
Dalia Mogahed, 36 anni, di origine egiziana, è la prima donna con il velo ad essere entrata alla Casa Bianca. In questo monologo personale e vigoroso, la studiosa musulmana Dalia Mogahed, scelta dal presidente Obama come consulente per i rapporti con il mondo musulmano, ci chiede, in questi tempi radicalizzati, di combattere contro la percezione negativa della sua fede sui media, e di scegliere l’empatia invece del pregiudizio.
Cosa pensate quando mi guardate? A una donna di fede? A un’esperta? Forse a una sorella. O a un’oppressa, a una plagiata, una terrorista. O a una causa di ritardo nei controlli di sicurezza all’aeroporto. Questa è certamente vera. Continue Reading
Dalai Lama: “Troppi migranti, dovrebbero andarsene”. L’ha detto veramente?
“Se si chiamano rifugiati vuol dire che fuggono da qualcosa”. Tenzin Gyatso, leader spirituale dei buddisti di tutto il mondo, in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, che lo è andato a cercare a Dharamsala, in India, dove vive in esilio a causa dell’occupazione cinese del Tibet dal 1959, ha dichiarato: Continue Reading
Pater Noster islamico
Insieme Musulmani e Cristiani formano ben oltre metà della popolazione
mondiale. Senza pace e giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una
pace significativa nel mondo. Il futuro del mondo dipende dalla pace tra Musulmani e
Cristiani.
Nel nome di Dio, il Compassionevole, il misericordioso
Sia lodato Dio, il Signore dei mondi
il Compassionevole e misericordioso
Re del giorno del giudizio
Te adoriamo, Te chiamiamo in aiuto
Guidaci alla diritta via,
la via di quelli che hai colmato di grazia, non quelli che ti fanno adirare, non quelli che errano.
Amīn (Amen)
(Al-Fatihah, Sura aprente 1:1-7) La Fatihah, la sura più importante del Sacro Corano
L’integralismo buddhista
Com’è possibile che alcuni monaci predichino l’odio contro i musulmani? Un viaggio in Birmania per capire le radici profonde dell’«integralismo buddhista».
«Non credo in Dio. Il Buddha è un Maestro. L’uomo non deve pregare, deve seguire la via» dice Phra, il Venerabile, Phitoo. «Dio non esiste. Se esistesse dovrebbe essere buono. Quindi non ci sarebbe il male» dice Ashin, il Maestro, Kelasa. Entrambi sono monaci della foresta, di quelli che in Thailandia, Laos o Birmania, là dove è più forte l’ortodossia della scuola Theravada, si dedicano alla meditazione in luoghi isolati. Il primo in un villaggio nell’estremo nord-est della Thailandia, verso il confine col Laos. Il secondo in un luogo ancor più remoto, tra i monti dello Shan meridionale, in Birmania.
Incontri non casuali. «Se vuoi capire vieni nel mio posto» aveva detto Phra Phitoo nel nostro incontro al Wat Mahadhatu di Bangkok, un tempio che ospita la più importante università buddhista thai. «Nulla è impossibile per chi vuole comprendere davvero» aveva detto Ashin Kelasa, quando l’avevo incontrato a Mandalay, dopo avermi dato poche, scarne indicazioni per raggiungerlo nel suo eremo.
Nell’ultimo anno si sono susseguiti veri e propri pogrom anti-islamici, con oltre 250 morti e circa 150.000 persone rimaste senza casa.
Quel che volevo capire era il cosiddetto “integralismo buddhista”. Credevo nella magia del buddhismo. I suoi valori di compassione, nel senso di empatia, comprensione, rispetto, mi apparivano antitetici con le “Milizie degli Illuminati” che in tutto il sud-est asiatico cercano di trasformare il Dharma, la legge morale, in legge dello Stato, dottrina politica. Un fenomeno che in Birmania si è manifestato con le esplosioni d’intolleranza e violenza nei confronti della minoranza musulmana (circa il 5% su una popolazione di 60 milioni): nell’ultimo anno si sono susseguiti veri e propri pogrom anti-islamici, con oltre 250 morti e circa 150.000 persone rimaste senza casa.

Ashin Wirathu, il capo del movimento 969, è un monaco buddhista che ha già scontato otto anni di prigione per incitamento all’odio.
Un “terrore buddhista”, come strillato nella copertina di Time del 1° luglio, che ha il volto di un monaco: Wiseitta Biwuntha, noto come Ashin Wirathu, leader del movimento 969, che si richiama ai 9 attributi del Buddha, i sei del suo insegnamento e ai nove del “Sangha”, la comunità dei fedeli. In un paese, come tutti gli altri dell’area, ossessionato dalla numerologia, 969 è divenuto il simbolo della difesa del “savanna”. Questo termine pali, che ingloba la comunità buddhista e l’essenza stessa dell’insegnamento del Buddha, da oltre due millenni giustifica ogni deviazione dall’insegnamento stesso.
«Quando lasci che il seme di un albero metta radici in una pagoda, all’inizio ti sembra piccolo. Ma sai che dovrai tagliarlo prima che cresca troppo e distrugga l’edificio» ha detto Ashin Wirathu, secondo cui i musulmani minacciano l’identità birmana. «I monaci non devono occuparsi di politica» commenta infastidito Phra Phitoo, quando gli chiedo un commento. Secondo quel tranquillo monaco della foresta thailandese, l’importante è concentrarsi su se stessi. Ma alla fine anche lui si lascia andare a qualche valutazione teologica. «Il cristianesimo è avido e l’induismo stupido». Peggio di tutte è l’Islam. «È una religione cattiva: uccidi e vai in paradiso». Con minor virulenza è lo stesso giudizio di Ashin Wirathu. «I musulmani sono fondamentalmente cattivi. Maometto gli permette di uccidere qualsiasi creatura» ha dichiarato.
Ashin Kelasa predica invece la tolleranza. «Giudicate le persone, non la loro religione» predica di fronte a circa duecento seguaci birmani nel ritiro di meditazione al termine del Thingyan, il capodanno lunare. Un invito al dialogo tanto più importante perché avviene poco tempo dopo gli scontri tra buddhisti e musulmani avvenuti proprio in quella regione. In privato, però, anche questo ex professore di matematica, autore di un saggio su Buddhismo e Democrazia, manifesta insofferenza nei confronti dei musulmani. «Il problema è che con loro non è possibile il dialogo. Giudicano gli altri ma non accettano di mettersi in discussione». Per quanto riguarda l’estremismo dei monaci che incitano alla violenza si limita a negarlo con un sofisma. «Non ci sono monaci violenti. Se sono violenti non sono monaci».
Seguire i monaci della foresta, alla fine, non è servito a comprendere le ragioni delle derive integraliste del buddhismo. Anzi, il sonno della meditazione ha generato nuovi dubbi, incubi. «Osservali e falli passare» mi tranquillizza Ashin Kelasa. «Il senso del buddhismo nessuno può dartelo, devi conquistarlo». Aveva capito tutto John Burdett, ex avvocato inglese che scrive romanzi gialli ambientati in Thailandia. «Questo è uno dei grandi vantaggi del buddhismo, amico mio: non è focalizzato sui risultati. Non c’è alcun modo in cui tu possa influire sul destino degli altri, ma solo sul tuo» mi aveva detto.
Forse è proprio in questo senso del dubbio e della ricerca individuale, sottinteso a tutta la cultura buddhista – almeno nel Theravada – che si possono cogliere i motivi inconsci di contrasto con l’Islam. «È la paura che genera violenza» dice Ajarn Sulak Sivaraksa, filosofo buddhista thai, uno dei padri fondatori del Network of Engaged Buddhists, organizzazione nota per l’impegno sociale e l’apertura al dialogo inter-religioso. La paura, a sua volta, è generata dal confronto con una religione così di piena di certezze, gerarchica come quella musulmana.
Più si osservano i propri dubbi, più si comprende che il problema dell’integralismo buddhista è ben più complesso di quanto appaia nell’ottica occidentale e monoteista, con i suoi criteri di giudizio tanto netti e “corretti”. In Birmania, inoltre, il movimento sta diffondendosi proprio per le aperture democratiche del governo. La diffusione di Internet, la “libertà” di stampa, stanno dando voce a vecchie tensioni inter-etniche alimentate all’epoca della colonizzazione britannica in nome del divide et impera. Il regime militare che ha dominato il paese sino a tre anni fa riusciva a sedarle con un controllo feroce. Tanto che nel 2003 lo stesso Ashin Wirathu era stato incarcerato per istigazione alla violenza anti-musulmana, ed è stato liberato solo nel 2012 con altre centinaia di prigionieri politici. La nuova aria di libertà che si avverte non appena si mette piede in Birmania, inoltre, ha innescato un fenomeno psicosociale: la rabbia repressa in decenni di dittatura cerca sfogo in qualsiasi direzione.
«Se incontri il Buddha uccidilo. Devi liberarti da ogni dogma. Se non sei capace di uccidere il Buddha non puoi uccidere i tuoi preconcetti»
Le analisi di alcuni commentatori occidentali secondo cui gli scontri inter-religiosi rappresentano il vero volto di un governo pseudo-democratico sono basate su una vera e propria forma di miopia geopolitica. Al contrario, come ha scritto Joshua Kurlantzick, analista del Council of Foreign Relations di Washington, “mettono a serio rischio il processo di riforme avviato dal presidente Thein Sein”.
È quest’ottica che va giudicato l’atteggiamento di Aung San Suu Kyi, accusata dalle anime belle dell’Occidente di aver “tradito” la causa per la quale ha trascorso vent’anni agli arresti e rischiato la vita. La Signora, non avrebbe condannato con sufficiente durezza le violenze contro la minoranza musulmana. In particolare Aung San Suu Kyi è giudicata colpevole di “silenzio” riguardo l’ennesima persecuzione contro i Rohingya, minoranza musulmana stanziata nel Rakhine, la regione birmana affacciata sul Golfo del Bengala.
Anche in questo caso, osservando da lontano, si sono create parecchie confusioni. A partire da quelle geografiche: in alcuni casi i Rohingya sono stati “assimilati” ai musulmani delle regioni centrali e viceversa. In altre parole per molti, in Occidente, tutti i musulmani birmani sono Rohingya. La loro situazione, invece, è ben più drammatica. I Rohingya sono gli indesiderati del sud-est asiatico. Sono circa 800.000 persone, etnicamente e culturalmente assimilabili ai bengalesi. Per questa differenza sono discriminati e perseguitati più di chiunque altro, considerati “immigrati illegali”. Sono talmente disperati da cercare rifugio in Bangladesh, uno dei paesi più poveri al mondo. Dove sono confinati in campi privi di ogni assistenza. «Qui siamo già in troppi per troppo poco lavoro. Sarebbe una guerra tra poveri» dice un funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Più o meno, è quanto dichiarato da Aung San Suu Kyi, intervistata dalla Bbc riguardo i Rohingya. «Sto chiedendo tolleranza, ma non credo che si dovrebbe usare la propria leadership morale, se volete chiamarla così, in nome di una qualsiasi causa senza però andare realmente all’origine del problema». L’origine del problema, è la stessa di tutti i conflitti etnici e religiosi che negli ultimi anni sono esplosi in Asia, dalle Filippine al sud della Thailandia, lo Sri Lanka, il Bangladesh, l’Indonesia: una miscela esplosiva di democrazia immatura, nazionalismo, sperequazioni economiche abissali.
Nella maggior parte dei casi, poi il terrore non è stato buddhista. Mentre è un buddhista, un monaco vietnamita a proporre una soluzione. Si tratta del maestro Zen Thich Nhat Hanh. «Se incontri il Buddha uccidilo. Devi liberarti da ogni dogma. Se non sei capace di uccidere il Buddha non puoi uccidere i tuoi preconcetti».
(Fonte rivistastudio)