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La strumentalizzazione delle piazze

manifestazioni popolari

Nell’analisi dei fenomeni politici e delle loro ricadute nei termini di quotidiana socialità, è lodevole sintomo di equilibrio quello di sapersi tenere in mezzo al guado: tra l’interpretazione semplicistica e la spasmodica ricerca di un sottotesto, tra la lettura slegata dei singoli eventi e la forzosa indagine su capziosi legami, tra la versione scialba della grande informazione massificata e l’incapacità di attribuire la giusta rilevanza a eventi effettivamente marginali o secondari. A tale schema di pensiero è bene conformare anche l’analisi di quella che, nelle dinamiche sociopolitiche contemporanee, viene abitualmente definita “piazza”, la manifestazione esteriore della volontà politica collettiva nel luogo apparentemente a questa più deputato, per via della sua intrinseca natura di pubblicità: lo spazio collettivo, la strada.

Sugli episodi caratterizzati appunto dalla presenza della piazza che hanno, fin dai tempi più remoti, accompagnato la storia sociale e politica dei popoli e delle nazioni, occorre pertanto scorrere lo sguardo e sviluppare l’analisi facendo perno esclusivamente sulla purezza e l’indipendenza della scienza politica e, guardando proprio cogli occhi dell’uomo politico, trascendere le interpretazioni scientiste e le sublimazioni fuori dal tempo e dal senso di realtà. A queste, per quanto abbiano caratterizzato l’analisi politica dell’ultimo secolo, nelle presenti righe eviteremo accuratamente ogni riferimento: sia alle teorie della psicologia delle folle elaborata dalla fine del secolo XIX che alla teorizzazione del Geist des Volkes – Spirito del popolo – che, pur vicina al nostro sentire politico, poco si adatta all’indagine sociale in questi tempi di vorticosa decadenza. Sarà quindi necessario tenere quanto sopra enunciato nella dovuta considerazione, e cercare di non distaccarsi dalla più elementare e pura analisi politica, per analizzare esaustivamente anche le esibizioni di forza che nelle piazze d’Europa e del mondo hanno contestato le ulteriori involuzioni del potere politico nei confronti della grande finanza internazionale.

Non è mai accaduto, nel corso della storia politica moderna e contemporanea, che la piazza fosse “pura”, svincolata da fenomeni e da impulsi precedenti, estranea a una preventiva o contestuale azione politica intra moenia in virtù della quale la contestazione è poi andata a esibire la propria forza nelle strade. Quanti pensano il contrario sono vittime, nella migliore delle ipotesi, di una pia illusione. La piazza, le manifestazioni politiche che hanno visto uomini in gran numero lasciare il segno sui selciati delle città e nella nomenclatura scientifico-storiografica della storia dei popoli e delle nazioni, è sempre stata o strumento o strumentalizzata.

La prima ipotesi (la piazza-strumento) è quella dalle più alte connotazioni nei termini di valutazione etica e di giudizio politico. È quanto si verifica quando la voce del popolo si fa sentire a coronamento e compimento di un processo politico diretto dall’alto che – attraverso la visibilità esteriore del numero – trova affermazione della propria legittimità popolare. Gli esempi sono molteplici, sarà sufficiente richiamare alla memoria le moltitudini argentine che hanno accompagnato il pronunciamento della rivoluzione politica peronista. Pur volendo dolosamente rimanere nell’asettica astensione di giudizio politico, è evidente che nel corso di tali eventi storici si chiuse il cerchio che vincola il popolo a una dirigenza di aristòs che proprio nel suo operato a favore del popolo stesso trova il sostegno delle moltitudini nelle strade. Questi eventi, rari come rari sono stati i momenti di reale sovranità popolare e nazionale nella recente storia mondiale, sono, come si diceva, la più elevata espressione cui la piazza può oggettivamente assurgere. Ma neanche questi, è bene ripeterlo, hanno origine nella piazza, nel numero, nella moltitudine; sono, invece, una pur luminosa ed encomiabile conseguenza.

Più di sovente le grandi manifestazioni popolari sono state invece strumentalizzate. Per focalizzare al meglio il fenomeno procediamo attraverso una sintetica elencazione delle tipologie di strumentalizzazione che il Sistema ha storicamente messo in opera per convogliare la piazza in direzione favorevole alle proprie finalità e alle proprie necessità di auto-preservazione, notando come ciascuna tipologia si differenzi per campo d’applicazione, scopi e intensità, pur potendosi concatenare e agire in concerto con le altre.

L’infiltrazione tradizionale. È un incontrovertibile dato di fatto che tutti i governi dei Paesi dell’ Occidente libero si siano prodigati, nel corso della storia recente, per controllare – attraverso l’uso disinvolto degli apparati di polizia o tramite il controllo remoto di talune frange politiche estreme – nel disturbo e nel condizionamento delle manifestazioni popolari. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso era consolidata prassi che taluni gruppi numericamente esigui prendessero “la testa dei cortei” e li trasformassero in sommovimenti volti alla destabilizzazione dell’ordine pubblico che, puntualmente, metteva in secondo piano la critica all’ordine politico che (nominalmente) le manifestazioni erano intenzionate ad esternare. Non per niente nacquero i “servizi d’ordine” e le frange dell’autonomia o dell’area anarchica ebbero un bel daffare per condizionare i cortei dei sindacati e dei partiti della sinistra istituzionale i quali, tra un sermone di pace e una predica sulla non-violenza, trovarono il tempo di mettere in campo le “ragioni della forza” attraverso l’arruolamento di nutriti gruppi di mazzieri.

L’infiltrazione istituzionale. Attraverso una metodologia operativa più raffinata della precedente, e per far fronte a esigenze di più stretto controllo politico, ogni volta che le istanze di lotta di popolo si sono tramutate in una presenza concreta e numericamente tangibile nelle strade e nelle piazze, tale da poter impensierire gli assetti di potere, su tali manifestazioni è stato posto una sorta di “cappello” istituzionale che – attraverso l’imbrigliamento nelle strutture partitiche – è riuscito a sedare le nascenti possibilità di rivolta sociale. L’esempio del Sessantotto italiano ed europeo è emblematico. Una protesta nata intorno a temi quali l’anti-imperialismo e la critica radicale a un modello di sviluppo capitalista che aveva già mostrato il suo volto peggiore a pochi lustri dalla sua affermazione, che i partiti politici tradizionali cristallizzati sul mantenimento del disordine di Jalta hanno fatto sprofondare e annichilito. Giocarono ovviamente un ruolo primario in tale operazione i partiti delle “estreme”, quali, nel caso italiano, il Partito Comunista e il Movimento Sociale. Questi, attraverso la messa in campo di tutte le loro forze organizzative, riuscirono a sabotare ogni pericoloso sconfinamento rivoluzionario dirottandolo nelle logiche sanguinarie degli opposti estremismi. Il Pci arrivò al punto di sciogliere le proprie strutture giovanili per poter meglio infiltrare il movimento, mentre i “fascisti in doppiopetto” non disdegnavano di fare da rincalzo alla celere in nome della tutela dell’ordine democratico. Risultati inefficaci questi metodi, non si esitò ad impiegare i mezzi più drastici, amplificati dal boato delle bombe, dal crepitio dei mitra e da una sapiente propaganda: è passata alla storia come “strategia della tensione”, la difesa ad oltranza di un ordine politico, attraverso la destabilizzazione dell’ordine pubblico, messa in atto da un Sistema di potere e dai suoi mentori internazionali che, pur di preservarsi, non si sono fatti scrupolo di sacrificare la vita dei propri cittadini.

Internet. Facendo un balzo in avanti nel tempo, la strumentalizzazione delle piazze ha potuto contare su una nuova affilatissima arma, grazie a una rivoluzione tecnologica che si sta rivelando, in termini di incisività sociale, ancora più vigorosa di quella industriale. La rete telematica è divenuta il fulcro organizzativo e il luogo di dibattito di quanti oggi vogliano intentare ogni sorta di ribellione. Ciò rappresenta un rischio notevole. Al di là delle possibilità di controllo e identificazione che la rete amplifica a dismisura ai danni di chi si illude di poterne usufruire ai propri pur nobili fini, si è creata l’illusione che “la rivoluzione nasca da internet“: niente di più falso e mendace. Le mobilitazioni promosse attraverso il mondo virtuale rimangono, appunto, virtuali; il fatto che siano ampiamente tollerate anche in presenza di un notevole potenziale eversivo ne è la riprova: lo stesso testo “rivoluzionario” che diffuso nella rete viene tollerato e dibattuto, se venisse stampato e distribuito come volantino in strada comporterebbe la deportazione a Guantanamo seduta stante. Il Sistema, così facendo, unisce l’utile (suo) al dilettevole di chi si illude di avere margini di contestazione e di poter mobilitare oceaniche adunate stando seduto dinanzi a una tastiera (salvo amare sorprese: le mobilitazioni promosse attraverso internet che raccolgono in pochi giorni un numero di adesioni virtuali tale da riempire piazza Tienanmen, nella loro realizzazione pratica spesso finiscono per riempire due tavolini al bar).

La “colorazione”. Il rosso, che ha contraddistinto le piazze del Novecento, pare non sia più di moda. Il nero, per carità, neanche a parlarne. Oggi, quando una piazza ha le potenzialità per nuocere al potere, alla dittatura economica, alla protervia delle banche, subisce un trattamento che le impone ben altre colorazioni, più sgargianti e accattivanti. Sono colorazioni made in Usa. Nella seconda metà del decennio scorso, gli strateghi a stelle e strisce si accorsero che era ora di tirare i remi in barca, che le esibizioni muscolari degli Stati Uniti in giro per il mondo non conseguivano i risultati auspicati: impantanati in Iraq e Afghanistan, l’insediamento in Asia centrale segnava il passo; l’America Latina era perduta; decine di migliaia di soldati erano posti a presidio dell’Europa, della Corea meridionale; altri, mandati in contesti di guerra aperta, in numero sempre crescente tornavano a casa nei sacchi neri. Occorreva imporre la propria egemonia attraverso un sistema che fu chiamato di “soft power”, contraddistinto dalla sobillazione e dalla promozione di “rivoluzioni”, apparentemente incruente, volte a rovesciare governi dichiaratamente ostili ai disegni egemonici statunitensi o che comunque avrebbero potuto costituire un ostacolo. Erano nate le “rivoluzioni colorate”: con modalità dapprima sperimentate in Jugoslavia si diffusero in Ucraina, in Georgia, in Kirghizistan; furono tentate, fortunatamente con magri risultati, in Bielorussia, in Venezuela, in Iran. Queste “rivoluzioni”, finanziate e sostenute neanche troppo segretamente da Washington e che camuffavano da lotta a regimi “tirannici” la loro effettiva funzionalità ai disegni geopolitici statunitensi, erano spesso contraddistinte da un colore: gli “arancioni” a Kiev, i “verdi” a Teheran. Il copione si è quindi ripetuto, con funzione di strumentalizzazione del dissenso, anche in Paesi “amici”: abbiamo avuto modo di vedere, in Italia, il “popolo viola”, presente in ogni occasione di contestazione che ha luogo sul territorio nazionale a ricordarci che il nemico non sono le banche usuraie e la grande finanza, ma Berlusconi, Mediaset, il Ponte sullo Stretto, la Tav.

La diversione strategica. Strettamente connessa alla precedente, è una metodologia che negli ultimi tempi ha trovato un largo utilizzo. Il ruolo degli utili idioti, questa volta, è stato ricoperto da una buona parte di residuati della estrema sinistra “classica”. Quella stessa sinistra che per decenni, di fronte alle nostre denunce rivolte ai poteri forti dell’economia, ci ha rinfacciato il voler rispolverare la teoria del “complotto demo-pluto-massonico-giudaico” e ci ha liquidati con un “tornate nelle fogne”, che oggi, di fronte alla prospettiva di sparizione politica e all’inettitudine dei suoi dirigenti tanto attenti ai diritti dei gay e dei migranti, ma poco inclini a parlare ancora di popolo e socialismo, ha optato per un salutare ripensamento e ha dato l’impressione di voler cavalcare la protesta popolare contro i Signori del denaro. Ma lo hanno fatto, come è loro costume, nei limiti del buon gusto, e guardandosi bene dal disturbare il manovratore; proponendo quindi soluzioni ambigue, moderate, possibiliste, prive, insomma, del coraggio di intraprendere una reale battaglia popolare e di identificare con chiarezza il cuore del problema: la sovranità monetaria, il contrasto all’usura bancaria, l’indipendenza reale della nazione. Il boato che giunge dalle piazze, in tutto l’Occidente, si fa sempre meno sommesso. E lorsignori ne hanno compreso la pericolosità perché, come ogni istanza autenticamente nazionale e popolare, può fungere da collante tra tutte le componenti più sane della nazione affinché tornino a riprendersi il proprio futuro, sottraendolo a chi l’ha rinchiuso nei propri straripanti caveau. I mostri da loro stessi generati, il capitalismo, l’economia di mercato, l’accumulazione di ricchezze, una società fondata sull’effimero e – non ultimo – sul denaro creato dal nulla, si stanno, come è naturale che sia, ritorcendo contro i loro stessi creatori che non sono neanche più in grado di garantire ai propri cittadini/sudditi quella parvenza di benessere su cui hanno per decenni fondato la loro fabbrica del consenso. A riprova che tale pericolosità sia stata a pieno percepita dal Sistema, sta appunto il fatto che siano ricorsi a man bassa a tutti i sistemi di strumentalizzazione della piazza precedentemente citati. E abbiamo quindi assistito a una manifestazione di popolo tanto enorme quanto epurata della sua arma più forte: la consapevolezza dell’identità del nemico. Abbiamo assistito a piazze che spostavano la loro attenzione dalle banche per rivolgerla al governo, alla Prefettura, all’ufficio di collocamento, alle sagrestie, prodigarsi e disperdere energie contro le centrali nucleari, i treni veloci, la caccia, la prostituzione, i fascisti, e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo assistito alla propaganda a orologeria che ha dirottato l’attenzione di tutti i più grandi giornali e di tutte le reti televisive verso i tafferugli, gli scontri, le violenze, la pochezza e l’inconsistenza di una piazza da loro stessi ridotta a parodia. Nessuno, o quasi, che abbia speso una parola sul perché un continente intero, nonostante sessant’anni di torpore, sia tornato in fermento. Nessuno, o quasi, che sia andato oltre una generica e spicciola condanna della violenza. Nessuno, o quasi, che abbia avuto il coraggio di andare al cuore del problema. Di nuovo, vogliono mettere il popolo a tacere con l’illusione delle piazze. Col farci credere liberi rendendoci ancora più schiavi e col ridurre al silenzio le voci di dissenso che diventano tuttavia sempre più forti e più consapevoli. Anche questa volta, sembrerebbero aver vinto. O forse no. Sta agli uomini liberi la responsabilità di non aver paura, ancora una volta, di dire la verità e di esortare il popolo a non abbassare la guardia e a non dimenticare l’identità del vero nemico. Un fronte di uomini liberi che lavori quotidianamente e coraggiosamente con gli scritti e la parola, col pensiero e con l’azione. Solo così, le rivolte potranno trasformarsi in rivoluzioni. E solo così quelle piazze umiliate potranno trasformarsi in un popolo libero.

(Tratto da L’Uomo libero – Fabrizio Fiorini)

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