Gli italiani come sappiamo sono appassionati di gioco, ogni forma di gioco, dalla roulette alle scommesse sul calcio, dalle corse dei cavalli ai gratta e vinci, dal lotto alle videolottery. Continue Reading
ludopatia
Gratta e Vinci: “Uno tira l’altro”, come le fregature e i guai
L’avvocato Osvaldo Asteriti, che da anni porta avanti battaglie legali per il rispetto delle norme anti azzardo, attacca “Uno tira l’altro” la nuova lotteria istantanea varata il 15 giugno, dall’Agenzia delle Dogane e Monopoli. Anche di questa denuncia gli inganni e i pericoli per la salute che la caratterizzano, ricordando che, secondo studi recenti e accreditati, i Gratta e Vinci sono molto praticati dagli italiani, anche a causa della loro apparente innocuità. I Gratta e Vinci sono una truffa di Stato.
Pubblicità e azzardo: Boom su giornali e televisioni
Nonostante i divieti parziali introdotti con la Legge di bilancio 2016, previsti solo sulle televisioni generaliste e in limitate fasce orarie, è boom della pubblicità sull’azzardo.
Nel 2016 i soldi investiti sono infatti cresciuti del 39,6% rispetto al 2015, raggiungendo 71,6 milioni di euro contro i 51,3 milioni dell’anno precedente. Numeri molto più alti di tutti gli altri settori economici. È quanto emerge da uno studio del sito specializzato Agimeg su dati Nielsen. Continue Reading
Un pensionato su quattro si “gioca” la pensione
“La Ludopatìa è ormai un fenomeno altamente diffuso nel nostro paese. Le vittime non si contano più, sia in termini economici che di effetti sulla vita quotidiana. È indubbio che la crisi sia una delle cause principali che hanno portato alla crescita di questo fenomeno. In Italia, solo nel 2012 il fatturato del gioco ha raggiunto quota 87 miliardi, contro gli 80 dell’anno precedente, di questi, solo 16 miliardi sono state distribuite in vincite. Questo primo dato, dà l’idea di quello che stiamo vivendo, e cioè un fenomeno che così come viene imposto non garantisce crescita economica per il paese e non riesce a salvare dal baratro più di 800 mila vittime. Molti di questi sono anziani, si stima, infatti, che 1.700.000 over 65 siano giocatori, di questi però bisogna distinguere tra problematici e patologici. I primi, rappresentano circa 1.200.000 della popolazione anziana giocatrice, mentre i casi di giocatori d’azzardo patologici sono circa 500 mila. Complessivamente, gli anziani giocano 5,5 miliardi di euro, circa 3200 euro l’anno e 266 euro al mese. Questo dato medio oscilla tra i 100 euro spesi da i giocatori anziani non patologici e i 400 di chi è ormai è malato. Le norme contenute nella Legge di stabilità potrebbero aggravare ulteriormente questa condizione. Infatti, questa manovra comporta, secondo gli studi che abbiamo condotto come Fipac Confesercenti, una riduzione del reddito disponibile dell’ordine di 300 euro per i livelli di pensione più diffusi. Una riduzione del reddito disponibile 2014 dei pensionati compresa fra i 294 e i 389 euro, per effetto di un taglio alle pensioni, di un mancato sgravio fiscale e di un aumento del prelievo sulla casa di abitazione. Se rapportiamo questo dato (300 euro in meno nelle tasche dei pensionati) alla spesa per giochi (266 euro al mese), abbiamo l’idea di quello che potrebbe accadere. Per evitare che i numeri di pensionati malati di gioco crescano, un primo passo potrebbe essere che le organizzazioni e le istituzioni riescano a collaborare per fare una buona prevenzione verso quei clienti che mostrano la patologia. Allo stesso modo, è importante poter giungere ad un incentivo o a uno sgravio fiscale per i pubblici esercizi che hanno fatto la scelta, prima di tutto etica, di non tenere nel proprio locale né slot machine, né qualsiasi altro tipo di gioco d’azzardo. Questo potrebbe essere un modo iniziale per evitare che si generi l’effetto “criminalizzazione” che potrebbe creare danni altrettanto gravi. Il gioco, infatti, deve essere inquadrato prima di tutto sotto un aspetto ludico di passatempo e divertimento, è il concetto condiviso di divertimento, che non deve diventare però grave problema e, appunto, ludopatia. Con il dossier “Il gioco non ha età” Fipac Confesercenti ha voluto fare luce su un fenomeno che ha raggiunto ormai livelli straordinari e che, in tempi di crisi economica, rappresenta sicuramente un’attrattiva per quanti, anziani in primis, cercano di uscire fuori da una forte depressione sociale ed economica.” Massimo Vivoli presidente Fipac Confesercenti
La testimonianza di Rita 73 anni, pensionata di Messina:
“La prima volta che ho iniziato a giocare è stato in una sala Bingo. Mi ero separata da poco e, in certi momenti mi sentivo molto sola. Il Bingo è un gioco che ti prende, perché ti dà questa doppia possibilità di giocare in maniera solitaria e, allo stesso tempo, di regalarti la compagnia di tanti come te che hanno voglia di spezzare la routine”. Rita, è una pensionata di 73 anni e ormai da 15 giocatrice. Vive da sola a Messina, una cittadina siciliana a ridosso del mare. “Ogni mattina, se così si può definire, intorno alle 12:00 mi alzo, prendo caffè, ma non faccio colazione, dopo vado subito a giocare. La prima volta in una sala bingo, avevo ancora nella mia testa gli effetti di un matrimonio che avevo fatto da molto giovane e mi aveva prosciugato tutte le energie. Nei primi periodi, andavo ogni sabato a giocare, ma puntavo poco, non spendevo molti soldi in cartelle. Col tempo però- racconta Rita- le cose sono peggiorate. Mi sono attorniata di un gruppo di amiche che hanno la stessa passione, così ci organizziamo spesso e passiamo tempo insieme. Ci si vede, una volta per uno a casa, facciamo una sorta di fondo cassa. Cioè puntiamo 30-40 euro, e iniziamo a giocare per buona parte della notte, alla fine però, nessuno porta via nulla di ciò che ha vinto o perso. Mettiamo tutto in un piatto comune che man mano rimpinguiamo ogni volta che giochiamo. Alla fine, quando ci rendiamo conto che questi soldi sono davvero tanti, li tiriamo fuori e partiamo tutti insieme per una vacanza”. Rita da giovane era ragioniera e impiegata in un’azienda, ha smesso di lavorare perché il marito, commercialista, a quei tempi voleva accanto una donna “di casa”. “Credo che la mia insoddisfazione- spiega- è iniziata là. In passato giocavo spesso nei circoli della città. Sono luoghi dove trovi di tutto, dalla gente bene, lì per giocare e farsi una chiacchierata, fino all’usuraio di professione. Lo riconosci subito, sta lì come un avvoltoio, e aspetta che qualcuno perda per poi intervenire con prestiti dalle percentuali usuraie. Conosco molta gente che ha fatto una brutta fine, per certi periodi me inclusa, che si è indebitata per pagare lo strozzino. A volte non riesco a riprendermi dallo stato di torpore in cui mi porta il gioco. Vivi come in un continuo stato di shock, perdendo il senso della misura. Oggi, sono questa. Mi alzo all’ora di pranzo, non mangio più, non curo il mio abbigliamento, né le relazioni sociali che non siano quelle del gioco. Credo di avere perso anche il senso dell’affetto.”
La grande bisca italiana: Una slot ogni 100 italiani
L’Italia risulta essere il più grande mercato del gioco d’azzardo legale in Europa con un fatturato di 90 miliardi di euro registrato nel 2012. Il settore, previsto in ulteriore crescita nei prossimi anni, coinvolge solo in Italia 15 milioni di persone. Tuttavia, degli 8 miliardi che lo Stato ricava dall’attività, 6 sono destinati a curare le dipendenze da gioco. Si calcolano infatti circa 800 000 malati e 3 milioni di giocatori a rischio. Oltre al problema della dipendenza, la diffusione su larga scala delle sale slot ha registrato un impatto negativo sulle realtà locali: degrado e problemi di ordine pubblico, problemi sociali e affettivi per le famiglie rovinate dal gioco e aumento della criminalità organizzata che guadagna con il gioco d’azzardo più che con gli altri traffici illeciti. 450mila le macchinette piazzate, 390mila sono le slot, 120mila il personale impiegato con 5 mila aziende. Numeri che hanno trasformato l’Italia in una grande bisca. Nella periferia romana le sale da gioco hanno preso il posto delle fabbriche: aperte 24 ore al giorno, offrono anche la pasta per non fare andar via il cliente, per incollarlo davanti alla slot.
Qui anche i nomi nascondono un bluff. Si chiamano Manhattan, Dubai, Cleopatra, Las Vegas. Evocano scenari esotici, magari momenti onirici, luoghi lontani visti o agognati attraverso la tv, il cinema, i rotocalchi. Soldi. Soldi accessibili, facili, a portata di monetina. Eppure siamo nella periferia di Roma, lungo la Tiburtina, a cavallo del Raccordo Anulare, a due passi dal carcere di Rebibbia, dove sono rinchiusi boss della mala, e non: siamo nel nuovo regno del gioco d’azzardo, con centinaia di slot schierate per attirare giocatori accaniti, o semplici curiosi. “E per ventiquattro ore al giorno”, specificano orgogliosi all’entrata. Nessuna sosta quindi, l’obiettivo è offrire un microcosmo ovattato del quale sia impossibile fare a meno: offrono la pasta due volte al giorno, divanetti per riposarsi. Una sobria moquette assorbe il rumore dei passi, chi è dentro deve ascoltare solo il fruscio dei soldi, il tintinnio dei due euro e deve avere il cervello sgombro per assimilare bene la musichetta leggera in sottofondo. Quelle poche note sono il chiodo che entra nel cervello, che scava e incide, che ti ricorda dove devi tornare. Sì, proprio lì, sullo sgabello davanti alla macchinetta.
Dieci euro? Troppo pochi. Venti? Forse non è chiara la realtà. Dai cinquanta in su si ragiona. Una coppia sui quaranta, sguardo fisso e sigaretta quasi terminata, hanno per loro un rotolo di banconote da dividersi. Sono in mano a lei. L’uomo non ha neanche bisogno di chiedere: nel momento di necessità allunga le dita, lei provvede. Dall’altra parte c’è una signora bruna, età indefinibile: potrebbe averne sessanta ben portati o quarantacinque tragici. Accanto a lei il figlio, si scambiano consigli, si passano il pacchetto di Camel blu, neanche chiedono “come va”, non sbirciano sulla slot altrui, “perché porta iella”, spiega scocciata la donna.
Poco lontano la roulette, “governata” da una voce elettronica con un lontano e assurdo accento russo. Chi si siede, se è un novizio, viene immediatamente braccato da uno stipendiato del locale, giacca nera improbabile e ampio nodo alla cravatta, presente per offrire tutte le spiegazioni del caso. “Se necessario”, ci mancherebbe. Oltre un vetro un energumeno controlla lo svolgimento dei “riti”: se la cassiera tacco 12 sorride, se lo sguattero raccoglie le cicche. Se il suo braccio destro svuota la macchina cambia soldi. Non sorride. Non parla. Non indica. Controlla. Attaccata alla parete la targhetta che ricorda l’unica presenza dello Stato dentro queste cattedrali del vizio: “Il gioco può causare dipendenza”. Fuori poche macchine, è l’una di notte, il momento clou del dopo cena sta scemando, all’entrata aspettano l’infornata della notte. Parcheggiatori semi-abusivi invitano a fermarsi, prostitute già stanche non insistono troppo: il sesso è l’ultimo pensiero di chi viene qui, lontano dall’altra Roma. Dalla Capitale da esportare in cartolina, da vendere su guide e suggestioni legate solo al passato. I panni sporchi vanno tenuti lontani dalla coscienza. “Eppure qui ’na vorta se lavorava; qui se veniva per portà la pagnotta a casa”, racconta un barista. Vero.
Las Vegas de noantri. Erano fabbriche, fabbrichette, grandi laboratori artigianali. Capannoni, strutture e nient’altro, con qualche palazzo da cornice, magari abitato dagli operai stessi. Una occupazione territoriale partita negli anni Sessanta, cresciuta nei Settanta, tra insegne per laterizi, materiale da edilizia, tornitori. Il Partito comunista era una religione, la croce su “falce e martello” una dovuta certezza, a pochi chilometri il Portonaccio scritto e raccontato da Pier Paolo Pasolini. Poi la volta dell’hi-tec, l’Alenia, la Technicolor, fino alla crisi e ai successivi lucchetti. Non dell’amore, della disperazione, tra un abbandono prima, lo sfacelo poi.
Così la rinascita a colpi di neon, un casinò dietro l’altro “e non è ancora finita” prosegue il barista “sento in continuazione de gente che sta a comprà artri capannoni pe aprinne degli altri”. Eppure gli ultimi dati parlano di bulimia di gestori e concessionari che hanno preteso troppo e piazzato la bellezza di 450 mila macchinette, 390 mila slot machine e 60 mila videolotterie. Tradotto: una ogni 100 italiani. “Sì, sì, ma questi fanno sempre li sordi e portano la bella gggente”. Vuol dire attori presunti, come presunti cabarettisti e improvvisati presentatori prestati a svolgere il ruolo di amplificatori di bellezza e di successo. Il giorno dell’inaugurazione di una di queste strutture abbaglianti, si sono presentati (con gettone di presenza, sia ben chiaro) tutti lustrati, entusiasti, platealmente emozionati, come se stare lì fosse meglio di una serata al casinò di Montecarlo. Via con le interviste, ecco la giusta passerella, il rombo di alcune Ferrari, rigorasamente rosse, opportunamente affittate. Sorrisi per tutti. Autografi. Fotografie e secondi di celebrità.
Scusi, da quanto tempo sta giocando? Silenzio. Il trentacinquenne con le infradito, oramai simbiotico con la poltroncina, ci pensa su. Poi infastidito liquida la domanda con un: “Non lo so, e non sono neanche affari tua”. Legittimo, per carità. Magari però non sa di poter far parte di quei tre milioni di italiani che secondo uno studio Ipsad (Italian population survey on alcohol and other drugs) dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa sono a rischio “ludopatia”. L’identikit descritto nelle pagine è: maschio, disoccupato, con un basso livello di istruzione. Incline alla solitudine. Di questi tre milioni, due sono a basso rischio, i restanti sono classificati come “patologici”. Sono quelli che si giocano l’impossibile, appettibili per gli strozzini. Quelli che non provano nessun gusto nella vittoria, perché la vittoria alla lunga non esiste.
“Cosa vuole dalle persone?” ci chiede uno degli addetti, immediatamente spedito in missione dal capo branco dietro al vetro. “Niente, chiediamo come funziona qui”. “A questo ci pensiamo noi, eviti di disturbare, altrimenti può accomodarsi fuori”. Mai distrarre l’incallito, ogni secondo di riflessione o di “altro”, rompe la bolla, altera l’equilibrio, interrompe il circuito maniacale. Qui, nella Las Vegas de noantri, è meglio non alzare lo sguardo, perché il bluff potrebbe rivelarsi amaro.
(Fonte Il Fatto Quotidiano del 22/07/2013)