Lavorare la domenica è giusto oppure no?

giusto o sbagliato lavorare di domenica

È giusto o è sbagliato lavorare di domenica? Il tema è tornato d’attualità dopo che il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, ha dichiarato che il governo è pronto ad aprire un tavolo per ridiscutere il decreto Monti che ha liberalizzato il lavoro festivo nel commercio. L’Italia torna a dividersi tra favorevoli e contrari. Continue Reading

Condividi:

Oggi è #FuoriTutti per niente spesa e contratto subito

#FuoriTutti



Al grido di #FuoriTutti, nel week end che precede il Natale, Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs hanno organizzato una manifestazione nazionale dei lavoratori della grande distribuzione.

Al centro della mobilitazione, si legge in una nota dopo 22 mesi di trattativa, il mancato rinnovo contrattuale e l’avanzamento di proposte che mirano unicamente a recuperare produttività abbassando il costo del lavoro e arretrando sui diritti dei lavoratori rispetto a istituti contrattuali quali scatti di anzianità, passaggio di livello, permessi retribuiti e sospensione dell’incidenza della tredicesima e quattordicesima mensilità sul trattamento di fine rapporto”.

Dopo l’importante mobilitazione del 7 novembre, non ci sono stati segnali di apertura delle controparti, rimaste sulle rispettive posizioni: proposte che mirano esclusivamente a ridurre il costo del lavoro intervenendo su alcuni istituti fondamentali e moderando l’aumento salariale.

Federdistribuzione, dopo la fuoriuscita da Confcommercio, ha intrapreso una trattativa per il contratto nazionale proponendo, di fatto, l’arretramento di alcuni importanti istituti (permessi retribuiti, scatti d’anzianità, sospensione dell’incidenza di XIII^ e XIV^ mensilità sul trattamento di fine rapporto), motivato dalla necessità di recuperare la produttività; e respingendo riferimenti a soluzioni sul salario, omogenee a quelle raggiunte nel contratto del commercio siglato con Confcommercio a marzo 2015. Le imprese cooperative, invece, pur dichiarando di voler rinnovare il contratto, hanno anch’esse avanzato proposte e interventi che diminuiscono diritti e tutele dei lavoratori, annullando così gli elementi che hanno contraddistinto in questi anni il contratto nazionale di lavoro.

Spiega Maria Grazia Gabrielli segretario generale della Filcams Cgil Nazionale: “Uno sciopero, quello del 19 dicembre, che vuole mettere al centro anche la condizione più generale di chi lavora in un settore che ha vissuto una fase di difficoltà e di cambiamenti, per la crisi dei consumi e per scelte legislative, come quella che ha portato alla liberalizzazione delle aperture 365 giorni l’anno. Situazioni che hanno inciso negativamente sulle lavoratrici ed i lavoratori: le crisi aziendali sono state e sono ancora supportate con il ricorso agli ammortizzatori sociali, e le liberalizzazioni continuano a determinare un peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle persone. Proprio mentre si invoca la libertà del mercato al sempre aperto, tra i primi obiettivi viene posto quello di ridurre il riconoscimento economico per le prestazioni domenicali dei lavoratori attraverso una complessiva rimessa in discussione della contrattazione integrativa. Con lo sciopero vogliamo ribadire la contrarietà ai tentativi di destrutturare il Contratto peggiorando le condizioni delle lavoratrici e lavoratori e vogliamo invece riaffermare il valore, la dignità e il ruolo centrale del contratto nazionale”.

Le lavoratrici e i lavoratori sanno che questo arrecherà disagio a chi in questi giorni di Natale andrà a fare acquisti: “ma siamo sicuri che anche il cliente vuole entrare in punti vendita in cui è certo che la dignità di chi lavora non sia messa in discussione”.

Diritti, salario e rispetto per il lavoro!

Condividi:
0

Commercio e turismo: In 10 mesi chiuse 60mila imprese

crisi-fallimenti

La crisi di commercio e turismo continua: nei primi 10 mesi del 2013 si registrano oltre 60mila chiusure, per un saldo negativo di poco superiore alle 22mila unità. Vanno male tutti i settori ma, in particolare, continua il tracollo della moda: dall’inizio dell’anno ad ottobre si sono registrate 9.803 cessazioni di attività nell’abbigliamento, tessile, calzature e accessorie, per un ritmo di quasi 1000 chiusure al mese. Nel settore, un tempo il più florido del commercio italiano, si sono registrate nel 2013 solo 4.473 nuove aperture, per un saldo negativo di 5.330 unità. A soffrire sembrano essere soprattutto le regioni del Sud, dove i due settori registrano i risultati peggiori, in Sicilia e Campania in particolare. C’è un segnale positivo: nel quinto bimestre del 2013 ripartono le nuove aperture. Tra settembre e ottobre del 2013, infatti, hanno avviato un attività nei due settori 7.627 imprese (4.560 nel commercio e 3.067 nell’alloggio e nella somministrazione). Un dato il 66% superiore alle 4.594 nuove iscrizioni totali registrate tra luglio ed agosto, ed il secondo risultato più elevato dell’anno. Aumentano, però, anche le chiusure: nel V bimestre sono state più di 10.294, il 18% in più rispetto al numero di cessazioni registrato nei due mesi precedenti.

“L’emorragia di imprese – commenta Confesercenti – non si ferma, anche se si evidenzia qualche piccolo segnale di speranza. Commercio e turismo sono schiacciati dalla crisi dei consumi interni, che è il segno distintivo di questa recessione italiana e che – insieme a una deregulation degli orari e dei giorni di apertura delle attività commerciali che non ha eguali in Europa, e che favorisce solo le grandi strutture – sta continuando a distruggere il nostro capitale imprenditoriale. La crisi sta portando a un rapido rinnovamento generazionale: il 40% delle nuove imprese di Commercio e Turismo è giovanile. E’ la dimostrazione della voglia di non arrendersi dei nostri ragazzi che, di fronte a un tasso di disoccupazione dei giovani che macina record su record, scelgono la via dell’auto-impiego. Adesso cerchiamo di tenerli sul mercato, in primo luogo evitando batoste fiscali, a livello nazionale o locale: gli imprenditori sono preoccupati per l’arrivo della Tares nella maggior parte dei comuni italiani, potrebbe essere la caporetto dei negozi di vicinato, soprattutto per le attività di somministrazione come Bar e Ristoranti”.

Tab. 1 Flussi di aperture e chiusure per bimestre delle imprese di commercio e turismo, gennaio- ottobre 2013

PeriodoImprese di Commercio al dettaglio, Alloggio e Somministrazione
ApertureChiusureSaldo
I bimestre7.09721.072-13.975
II bimestre5.59110.684-5.093
III bimestre13.5499.6853.864
IV bimestre4.5948.747-4.153
V bimestre7.62710.294-2.667
GENNAIO-OTTOBRE38.45860.482-22.024

Fonte Osservatorio Confesercenti

Il bilancio del commercio al dettaglio: 39.019 chiusure in 10 mesi, male Food e No Food. In Sicilia il record di chiusure, commercio alimentare in Valle D’Aosta l’unico segno più d’Italia. Il settore del commercio al dettaglio registra, da gennaio ad ottobre 2013, 39.019 chiusure di impresa e 22.768 nuove aperture, per un bilancio negativo in rosso di 16.251 unità. In particolare, le imprese della distribuzione commerciale alimentare registrano 5.670 cessazioni, 3.802 aperture e un saldo negativo di 1.868 imprese. Male anche i negozi non alimentari: per loro, nei primi 10 mesi dell’anno, ci sono state 22.349 cessazioni e 18.966 aperture, lasciando sul campo 16.251 imprese.

Considerando sia il Food sia il No Food, il saldo peggiore si registra in Sicilia (-2.113 imprese), in Campania (-1.968) e nel Lazio (-1.610). L’unico bilancio positivo, fra tutte le regioni, è quello degli alimentari in Valle D’Aosta: dall’inizio dell’anno hanno aperto 11 nuove attività, e ne hanno chiuse solo 7, per un risultato in crescita di 4 unità. Ma anche qui continua l’emorragia del non alimentare (52 chiusure contro 31 aperture) , e il saldo complessivo finale torna in negativo a -17 imprese.

Moda, la crisi non si ferma: caldo, outlet e liberalizzazioni portano a risultati negativi in ogni Regione. In Campania (-756), Lazio (-613) e in Sicilia (-547) i saldi peggiori. Particolarmente grave appare la situazione del commercio al dettaglio di abbigliamento, tessile e calzature. Il settore non beneficia di un recupero di vendite autunnale, a causa del protrarsi del clima caldo: a settembre 2013 le vendite di abbigliamento e pellicceria segnano un calo del 3,5% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, mentre si assiste al tracollo di quelle di calzature e articoli in cuoio (-6%). La crisi dei consumi e lo spostamento progressivo di quote di mercato verso outlet, catene di pronto moda e shop online completa un quadro di estrema difficoltà: nei primi dieci mesi del 2013 le imprese del commercio di moda registrano saldi di natimortalità negativi sia a livello nazionale (-5.330 unità) sia a livello locale, in tutte le regioni italiane. La Campania appare essere la più colpita: nei primi 10 mesi del 2013 la regione ha registrato 1568 chiusure e 812 aperture, per un saldo negativo di 756 imprese. Seguono, nella classifica dei risultati peggiori, Lazio (saldo a -613) e Sicilia (-547).

Tab. 2 Saldo aperture/chiusure commercio al dettaglio di abbigliamento, tessile e calzature, per regioni (gennaio-ottobre 2013)

RegioniIscrizioniCancellateSaldo
PIEMONTE209615-406
VALLE D’AOSTA/VALLÉE D’AOSTE1012-2
LOMBARDIA486997-511
TRENTINO-ALTO ADIGE/SÜDTIROL4075-35
VENETO343601-258
FRIULI-VENEZIA GIULIA52119-67
LIGURIA121315-194
EMILIA-ROMAGNA330649-319
TOSCANA268639-371
UMBRIA53125-72
MARCHE75231-156
LAZIO4301.043-613
ABRUZZO95236-141
MOLISE3259-27
CAMPANIA8121.568-756
PUGLIA398858-460
BASILICATA66132-66
CALABRIA175366-191
SICILIA370917-547
SARDEGNA108246-138
Totale ITALIA4.4739.803-5.330

Fonte Osservatorio Confesercenti

Il bilancio del turismo: 21.463 chiusure in 10 mesi, saldo negativo per 5.773 unità. In Sicilia (-596), Piemonte (-567) e Lazio (-552) i risultati peggiori. Anche per le imprese attive nell’alloggio e e nella somministrazione, tradizionalmente considerate afferenti al turismo, il 2013 è stato finora un anno molto difficile. Da gennaio ad ottobre ci sono state 21.463: un dato che nemmeno le 15.690 nuove aperture sono riuscite a correggere, portando a un saldo finale in perdita di 5.733 attività. Anche in questo caso, la perdita più pesante si registra in Sicilia, dove 1.272 imprese chiuse spingono il bilancio in rosso di 596 unità. Seguono Piemonte (-567) e Lazio (-552).

Tab. 3 Saldo aperture/chiusure Alloggio e Somministrazione, per regioni (gennaio-ottobre 2013)

RegioneIscrizioniCancellateSaldo
PIEMONTE1.2261.793-567
VALLE D’AOSTA/VALLÉE D’AOSTE5470-16
LOMBARDIA2.7073.198-491
TRENTINO-ALTO ADIGE/SÜDTIROL300463-163
VENETO1.2071.655-448
FRIULI-VENEZIA GIULIA335496-161
LIGURIA535774-239
EMILIA-ROMAGNA1.3501.808-458
TOSCANA1.1251.538-413
UMBRIA164279-115
MARCHE391571-180
LAZIO1.3071.859-552
ABRUZZO408636-228
MOLISE99130-31
CAMPANIA1.5561.972-416
PUGLIA1.0791.432-353
BASILICATA162184-22
CALABRIA608730-122
SICILIA6761.272-596
SARDEGNA401603-202
Totale ITALIA15.69021.463-5.773

Fonte Osservatorio Confesercenti

Focus somministrazione: da gennaio a ottobre chiusi 34 ristoranti e 31 bar al giorno. Emorragia di bar anche in Lombardia. Nemmeno la somministrazione riesce ad invertire la tendenza: complessivamente nei primi 10 mesi del 2013 hanno chiuso i battenti 9.354 bar e 10.250 ristoranti, ad un ritmo – rispettivamente – di 34 e 31 chiusure al giorno. Anche in questo caso è la regione Sicilia che subisce l’andamento peggiore: le chiusure sono state 678 per un saldo negativo di 323 unità per quanto riguarda i ristoranti, mentre tra i bar le cessazioni sono state 514 per un dato finale di -221. In totale, quindi, nell’Isola scompaiono 554 imprese della somministrazione. Nella classifica delle regioni che hanno ottenuto i risultati peggiori, seguono ancora una volta Lazio e Piemonte, che perdono rispettivamente 531 (284 ristoranti e 247 bar) e 520 (263 ristoranti e 257 bar) imprese.

Tab. 4 Saldo aperture/chiusure Imprese ristorazione, per regioni (gennaio-ottobre 2013)

RegioneIscrizioniCancellateSaldo
PIEMONTE597860-263
VALLE D’AOSTA/VALLÉE D’AOSTE2129-8
LOMBARDIA1.1311.368-237
TRENTINO-ALTO ADIGE/SÜDTIROL108157-49
VENETO506677-171
FRIULI-VENEZIA GIULIA150220-70
LIGURIA262355-93
EMILIA-ROMAGNA611812-201
TOSCANA545732-187
UMBRIA79140-61
MARCHE200324-124
LAZIO675959-284
ABRUZZO211344-133
MOLISE5267-15
CAMPANIA7711.022-251
PUGLIA545735-190
BASILICATA5869-11
CALABRIA288411-123
SICILIA355678-323
SARDEGNA189291-102
Totale ITALIA7.35410.250-2.896

Fonte Osservatorio Confesercenti

Condividi:
0

Un palloncino gonfiato prima o poi scoppia

crisi-crisi-sociale-crisi-economica-bolla-edilizia--stato-criminal-finanziario

La parola crisi deriva dal greco e significava, in origine: scelta, giudizio, interpretazione, decisione, risoluzione, esito. In sostanza, la crisi è un punto di svolta in cui talune decisioni andrebbero prese sulla base di interpretazioni e valutazioni appropriate della realtà, in vista di esiti voluti.

Successivamente, nel linguaggio giornalistico-popolare, la parola crisi è venuta a significare un periodo di difficoltà e si è tralasciato sia l’aspetto della interpretazione-comprensione che quello della decisione-risoluzione. O meglio, si è diffusa la convinzione che, mentre le persone comuni vivono/subiscono la crisi, l’interpretazione della stessa è compito di intellettuali e opinionisti, mentre la risoluzione deve essere affidata a politici, economisti e alti burocrati. 

Stando così le cose, non c’è da sorprendersi del fatto che nella interpretazione e nella risoluzione della crisi da parte di questi personaggi l’obiettivo dominante sia la preservazione degli interessi che tali categorie hanno e dei privilegi di cui godono. Più strano e difficile da comprendere e da accettare risulta invece il fatto che, anche taluni di coloro che sono opposti ai privilegi delle categorie dominanti, finiscano poi per dare una interpretazione della crisi che potrebbe risultare in decisioni che prolungano l’esistenza delle categorie dominanti, caso mai allargando soltanto l’area dei privilegiati e dei parassiti.

Purtroppo, non c’è molto di nuovo in tutto ciò. Già in passato, gli avversari del potere si sono associati al potere distruggendo gli aspetti rivoluzionari del loro pensare e agire. Ad esempio:

  • i socialisti hanno distrutto il socialismo comunitario e volontario e si sono associati allo stato pianificatore sorto dopo la prima guerra mondiale;
  • i capitalisti hanno distrutto il capitalismo del libero scambio e della libera impresa e si sono associati definitivamente allo stato protezionista dopo la crisi del ’29.

Adesso potrebbe essere la volta degli esponenti d un’altra corrente di pensiero e di azione, decisamente contraria al potere dello stato (gli anarco-capitalisti), di svolgere la funzione di fornire allo stato una boccata di ossigeno che ne prolungherà, per un po’, l’esistenza.

La crisi sociale ed economica che stiamo vivendo è, in effetti, la crisi dello stato nazional-territoriale sorto dalla prima guerra mondiale e che sta vivendo le sue ultime convulsioni.
A questa crisi reale dello stato si associa però, in molti casi, una crisi mentale di interpretazione e di risoluzione che potrebbe prolungare l’esistenza dello stato, contro le aspettative e contro i desideri di molti. Vediamo allora di soffermarci brevemente sull’interpretazione e su una possibile risoluzione della crisi.

Interpretazione della crisi

Innanzitutto, va rapidamente sgomberato il campo sul fatto che questa sia una crisi del capitalismo industriale e del libero scambio di beni e servizi reali. Infatti, industrie altamente innovative (come la Apple, per citarne una) non sono affatto in crisi e alcune regioni a basso parassitismo statale (ad es. la Svizzera) sono in una florida situazione.

Un’altra idea diffusa, e molto più sensata, fa risalire l’origine della crisi alla bolla edilizia (o, in altre parole ai problemi sorti dal subprime mortgage). Questa, però, mi sembra una interpretazione che si limita a cogliere l’apparenza ma non scende nel profondo della realtà.
E questo profondo è rappresentato dalla finanziarizzazione estrema della vita economica ai nostri tempi. Il prevalere del cosiddetto capitalismo finanziario su capitalismo industriale è un fenomeno vecchio di decenni (si veda: Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario) ma è solo verso la fine del secolo XX che ha raggiunto il suo apogeo, grazie anche alle produzioni a basso costo dell’Estremo Oriente (loro producono) e all‘indebitamento crescente degli stati occidentali (noi stampiamo denaro e consumiamo). Fare debiti e consumare sempre di più, sono le due facce della stessa medaglia, coniata dallo stato e diffusa largamente e legalmente nei paesi cosiddetti affluenti.

Questo modo di essere si è diffuso ed ha raggiunto livelli incredibili attraverso due fasi recenti:

  • la fase dei nuovi “conservatori” (Thatcher, Reagan). Negli anni della Thatcher e di Reagan si è assistito allo sviluppo di quella che è stata chiamata la finanziarizzazione (financialization) della vita economica. Le attività di produzione di beni e i loro produttori ristagnano rispetto alla crescita delle attività e dei profitti nel settore finanziario (Banche, Borsa).
  • la fase dei nuovi “progressisti” (Blair, Clinton). Tony Blair e Bill Clinton proseguono le politiche di “liberalizzazione” del settore finanziario iniziate negli anni precedenti con il risultato di produrre una effervescenza economica apparentemente solida nel breve periodo ma foriera di profondi squilibri nell’immediato futuro.

Se facciamo riferimento all’Inghilterra di Tony Blair e Gordon Brown, le Building Societies che prestavano denaro per l’acquisto di una casa sono potute diventare banche a tutti gli effetti e questa semplice liberalizzazione, attraverso il meccanismo della riserva frazionaria, ha permesso di moltiplicare notevolmente la massa monetaria. Inoltre, sotto il governo laburista, 1 milione di persone sono state inserite nei ranghi dello stato, alcune con salari del tutto considerevoli. Immaginatevi quindi il livello di indebitamento statale crescente e di circolante esistenti, il tutto volto ad alimentare una macchina consumistica colossale che permetteva allo stato, attraverso l’incameramento dei proventi della TVA (la tassa sul valore aggiunto), di continuare a fare debiti e di pagare interessi sul debito alle rendite finanziarie. Questa montagna di soldi affluiva poi anche alle banche ed era logico che esse lo prestassero a coloro che ne facevano richiesta, e soprattutto a quanti volevano comprare casa. A fronte di una notevole massa di acquirenti, i prezzi delle case non potevano che salire e quindi prestare 80 per l’acquisto di una casa che ne costava 100 aveva senso perché quella casa, l’anno successivo, avrebbe raggiunto il prezzo 110 e nel giro di alcuni anni il prezzo 140. Quindi talvolta la banca prestava l’intero ammontare del prezzo attuale di una casa nella prospettiva, estremamente fondata, che, il prezzo a cui la si poteva rivendere in caso di mancato pagamento delle rate, sarebbe stato maggiore.
In sostanza, tutti o quasi stavano costruendo un mondo di carta basato sulla carta straccia delle banconote a corso legale di cui l’ispiratore massimo e il regista supremo era lo stato centrale.

Per questo, quando si parla di bolle speculative, l’unica bolla che vedo è quella dello stato. Tutto il resto sono le bollicine, più o meno grandi, conseguenti all’esistenza dello stato parassita e scialacquatore. Se si esamina la gestione di Gordon Brown (ministro dell’economia) fino al 2008, le spese o gli sprechi di denaro pubblico (a seconda dei punti di vista) sono ammontati, secondo un analista, ad oltre un trilione di sterline (£1,229,100,000,000) (David Craig, Squandering, 2008)
La colpa della crisi, almeno per quanto riguarda l’Inghilterra è quindi da attribuirsi, a mio avviso, unicamente allo stato criminal-finanziario. Per questo, qualsiasi proposta che, consapevolmente o inconsapevolmente, finisca per convogliare verso lo stato ulteriori risorse è un assurdo soprattutto se proviene da persone che vogliono, o quantomeno proclamano di volere, la fine dello stato parassita. Ma questo è quanto potrebbe accadere. Vediamo come.

Risoluzione della crisi

Spiegare in dettaglio, caso per caso, perché è arrivata la crisi è come voler spiegare perché un palloncino gonfiato in continuazione poi alla fine scoppia o perché un castello di carta, quindi senza solide fondamenta, a un certo punto, crolla. Molto più utile invece è concentrarsi su come risolvere la crisi in modo che essa sia una opportunità per prendere decisioni benefiche per molti e non una occasione persa per continuare a salvaguardare gli interessi mafiosi di pochi.

Per fare ciò è importante smetterla di farsi manovrare come burattini dai fili costituiti da talune parole magiche e dai burattinai che le utilizzano per sviare le persone. In particolare, occorre non farsi né ammaliare né respingere da queste due coppie di parole:

a) socializzazioni – privatizzazioni
b) regolamentazioni – liberalizzazioni

Una delle caratteristiche di funzionamento dell’essere umano, per evitare un impiego continuo e logorante di energie preziose, è di rispondere in maniera automatica a determinati stimoli. Talvolta però, questa risposta automatica porta un individuo del tutto fuori strada. Il dramma sorge quando alcuni non si rendono conto di essere andati fuori strada e diventano facile preda di coloro che li porteranno, quasi a loro insaputa, per la loro strada.

Abbiamo già visto in passato che socializzazioni e regolamentazioni volute da socialisti altro non erano che statalizzazioni e imposizioni del gruppo dominante. Adesso, in tempi recenti, abbiamo visto che le privatizzazioni hanno portato sovente all’appropriazione di risorse da parte di mafie legate allo stato (il modello post-Unione Sovietica è in tal senso esemplare) e le liberalizzazioni hanno dato la possibilità ai banksters e a tutto l’apparato finanziario (Goldman Sachs in testa) di fare soldi dal nulla.

In sostanza, è doveroso riconoscere, senza nascondere la testa nella sabbia, che talune privatizzazioni industriali e liberalizzazioni finanziarie degli ultimi decenni, oltre a non liberarci dalla presenza asfissiante dello stato, hanno anche contribuito a porre le premesse per la crisi attuale. Ed è molto probabile che, per salvare nuovamente lo stato, nei prossimi mesi assisteremo, sotto la regia dello stato e di organismi internazionali, a una ripresa delle privatizzazioni camorristiche e delle liberalizzazioni gangsteristiche.
Esaminiamo allora uno scenario possibile e plausibile:

  • Lo stato (in Europa, negli USA) crea una massa monetaria gigantesca (quantitative easing) che finisce nelle tasche delle mafie di stato (fase in corso)
  • Questo denaro permette loro di comprarsi ogni sorta di beni tangibili (terreni, palazzi, isole, ecc) quando ripartirà una nuova fase di privatizzazioni.
  • Questi acquisti avverranno prima che l’inflazione riprenda a galoppare per cui questi beni saranno acquistati a prezzi stracciati.
  • A tutti gli altri toccheranno invece, nel breve-medio periodo, le conseguenze nefaste dell’inflazione e della perdita di potere d’acquisto delle remunerazioni (salari e profitti) derivanti dalla loro attività produttiva.
  • Obiettivo finale del potere: salvataggio dello stato e delle cosche mafiose ad esso associate che usciranno quasi indenni da questa crisi, almeno fino alla prossima crisi.

In altre parole, uno scenario probabile è che, per salvarsi, lo stato si venderà tutto quello che non gli appartiene (le spiagge, gli spazi pubblici, i monumenti, ecc.) e liberalizzerà ancor di più le attività finanziarie (ad esempio, allargherà il numero di coloro che possono emettere moneta a corso legale) e questo con il plauso osannante di tutti i “liberali” guidati dal loro pilota automatico che si accende d’entusiasmo al solo sentire le magiche parole “privatizzazioni” e “liberalizzazioni”, senza porsi alcuna domanda al riguardo. E, per tenere a bada la piazza di sinistra, guidata anch’essa dal pilota automatico che evita loro di porsi domande scomode quando la loro parte è al potere, probabilmente queste misure, in Italia, le attueranno i “socialisti” di stato (alla Giuliano Amato, per intenderci), come le precedenti privatizzazioni e liberalizzazioni le hanno fatte i “socialisti” di stato (alla Massimo d’Alema e Pier Luigi Bersani).

Esistono alternative a questo scenario obbrobrioso di marca liberal-socialista-statalista?
Eccome! Una alternativa, ad esempio, consiste nel capovolgere lo scenario privatizzazioni industriali e liberalizzazioni finanziarie e battersi per:

  • liberalizzazioni industriali : chiunque può produrre qualsiasi bene e fornire qualsiasi servizio in qualsiasi parte del mondo, distribuendolo dove vuole e al prezzo che vuole;
  • privatizzazioni finanziarie : chiunque può emettere una sua moneta o mezzi di pagamento elettronici e le persone decideranno quale vogliono usare e a quali condizioni, cioè a chi vogliono dare credito.

Chiaramente questo farebbe saltare il sistema delle mafie di stato e delle loro consorterie (crony capitalismo e crony socialismo) e condurrebbe alla fine dello stato territoriale monopolistico. E, al tempo stesso, anche il teatrino delle parti, la sceneggiata fasulla tra liberali e socialisti, entrambi operanti, di fatto, sotto il mantello dello stato, non attirerebbe più spettatori o sostenitori gabbati.

Quindi il problema è sempre lo stesso: smetterla di farsi abbindolare dalle parole e dai parolai (i politicanti e gli affaristi imbonitori), analizzare i fatti e prendere decisioni sulla base della dinamica del reale. Forse a quel punto capiremo che molte delle contrapposizioni che ci sembrano insormontabili non sono altro che invenzioni del potere che applica da secoli la strategia che ha sempre funzionato per dominare tutti: divide et impera. E forse, dalle contrapposizioni fasulle (destra-sinistra, pubblico-privato, socializzazioni-privatizzazioni) così care agli intellettuali da strapazzo, saremo capaci di passare alle armonie ritrovate (care a Bastiat) e a quell’ordine spontaneo che, una volta estromesso il potere monopolistico, è nella natura delle cose.

(Gian Piero de Bellis – Sulla crisi reale e mentale “ovvero sulle privatizzazioni camorristiche e le liberalizzazioni gangsteristiche”)

Condividi: