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La quarta rivoluzione industriale

rivoluzione industriale

“Sono in atto due grandi mutamenti epocali per la società umana, il primo di natura economica ed il secondo a sfondo sociale. Con grande presunzione hanno anche un legame di causa ed effetto uno con l’altro, condizioneranno e modificheranno purtroppo il nostro stile di vita cosi come oggi lo conosciamo. Sul primo versante abbiamo la quarta rivoluzione industriale attualmente in corso ed in costante evoluzione giorno per giorno.

Con questa terminologia si vuole definire in senso molto ampio l’innovazione digitale nei processi industriali che consentono di aumentare significativamente la competitività in ogni settore economico, soprattutto nei comparti manifatturieri. Qualcuno potrebbe definirla per semplicità l’era dei robots, tuttavia questa definizione abbraccia uno spettro di interazioni tecnologiche molto più ampio: infatti la quarta rivoluzione ingloba e amalgama diverse nuove tecnologie tra di loro contigue come il cloud computing, i big data, il 3D printing, l’automazione con interfaccia umana e l’internet delle cose (internet of things). Continue Reading

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Arduino una piccola grande idea Made in Italy



Arduino è una piccola grande idea italiana. È un circuito più microcontrollore capace di rendere semplice ciò che una volta era complicato, di trasformarci in piccoli inventori, allargare un po’ le frontiere della nostra immaginazione. Il suo co-creatore Massimo Banzi come i tanti che hanno adottato questa tecnologia sono l’esempio perfetto di un qualcosa che diventa grande e riesce, contro tutto e tutti, a invadere il resto del mondo. Tutte le componenti di Arduino sono sviluppate, prodotte e assemblate da piccole aziende italiane. Arduino ha da poco compiuto 9 anni ed ha iniziato le celebrazioni per il decennale, che cadrà a marzo del 2015.

Cos’è Arduino? A cosa serve? Chi lo può utilizzare? Perché ha avuto un così grande successo? La prima cosa da sapere su Arduino è che il microprocessore è stato battezzato con questo nome in omaggio al pub preferito di Massimo Banzi, il Re Arduino di Ivrea. A quei tempi lui, Banzi, faceva l’insegnante all’Interaction Design Institute di Ivrea, e i suoi studenti spesso si lamentavano di non riuscire a trovare un microcontroller potente ma economico per gestire i loro progetti artistici robotizzati.

Scriveva Clive Thompson, a febbraio 2009, sul primo numero di Wired Italia: “Durante l’inverno del 2005, Banzi stava discutendo il problema con David Cuartielles, un ingegnere spagnolo specializzato in microchip, che in quel periodo era ricercatore ospite presso la scuola. I due decisero di creare la loro scheda e chiamarono David Mellis, uno degli studenti di Banzi, per scriverne il linguaggio di programmazione. In soli due giorni, Mellis scrisse il codice; altri tre giorni e la scheda era completa. La chiamarono Arduino, dal nome di un pub che si trovava nelle vicinanze, e fra gli studenti ebbe un successo immediato. Quasi tutti, anche se non sapevano niente di programmazione di computer, sono riusciti a utilizzare un Arduino per fare qualcosa di bello, come rispondere a dei sensori, fare lampeggiare delle luci o controllare dei motori. Poi, Banzi, Cuartielles e Mellis, insieme a Gianluca Martino, hanno messo online gli schemi elettronici e hanno investito circa 3mila euro per produrre il primo lotto di schede” […].

Arduino è entrato nei laboratori di Apple, Hitachi, Panasonic, Asus. Chiunque può scaricare i progetti da internet, imparare il linguaggio di programmazione per gestirlo e divertirsi in test come in laboratorio con i mattoncini lego. È il successo dell’open source hardware: i documenti vengono condivisi online e le community di appassionati mettono alla prova le idee.

ArduinoProprio per questo piace alla gente perché solo con quella schedina e una bella idea ci si può sbizzarrire in mille progetti diversi e realizzarli spesso con pochi soldi: Arduino fa funzionare un acceleratore di particelle al Cern di Ginevra così come permette a una pianta di twittare quando ha sete; con Arduino si può comandare a distanza un macinacaffè oppure animare un’opera di videoarte totalmente robotizzata: Tantra, un’installazione dall’aspetto chirurgico formata da dispenser di palline da ping pong, racchette in acciaio rotanti e luci al LED. C’era Arduino anche alla base del progetto ArduSat: finanzianto su Kickstarter, punta a permettere a chiunque di effettuare esperimenti usando un satellite geostazionario. C’è un Arduino anche per togliere il volume alla tv quando si parla di personaggi insulsi (si chiama Enough Already!, ovvero Adesso basta!). Google usa Arduino per controllare da un cellulare Android una versione gigante del gioco Labyrinth e un 14enne cileno di nome Sebastian Alegria con il circuito elettronico prodotto a Ivrea ha invece creato un sistema di monitoraggio dei terremoti prima di quello messo in piedi dal governo.

Quali sono le nuove frontiere dell’utilizzo di Arduino? Prima di tutto la stampa 3D che con il suo rapido sviluppo sempre basato sul concetto di “ hardware open source” sembra disegnare scenari futuri al limite della fantascienza. Ma non solo.

Nell’epoca dell’Internet delle cose Arduino può giocare un ruolo importante nel creare oggetti interattivi, come nel caso di questi 50 progetti che utilizzano proprio il microcontrollore open.

Qui sotto l’intervista a Massimo Banzi, Co-creatore di Arduino.


Fonti: tv.wired – wired

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Una casa ed una città più intelligente grazie all’internet delle cose

internet of things-internet delle cose

Capita spesso di sentire parlare di internet of things e percepire questa nuova locuzione come qualcosa di futuristico, ma assolutamente inutile o poco concreto. Un progetto Europeo a cui partecipano anche centri di ricerca italiani e l’italianissima Arduino ci aiuta a capire come e perché dagli oggetti collegati in rete e dall’interazione tra le persone può nascere una casa ed una città più smart. Il futuro è già qui…

Attraverso casi e best practice abbiamo più volte sostenuto e verificato che la partecipazione è il tassello fondamentale di tutta l’architettura del nuovo web, che a sua volta supporta un nuovo modo di vivere la città. Se infatti questa è sempre stata una delle caratteristiche fondamentali di internet, è con le nuove piattaforme che diventa vero e proprio motore di sviluppo. Per Michael Wesch, docente di Antropologia Culturale presso la Kansas State University, siamo costretti a ripensare noi stessi e la nostra identità, perché noi siamo divenuti la macchina:

Web 2.0 is linking people…
…people sharing, trading and collaborating…

Il web di oggi ha imparato a disegnarsi e ad aggiustarsi utilizzando le applicazioni di un sistema emergente. Per emergenza si intende “idea che un ordine significativo emerga da sé nei sistemi complessi da molte parti interagenti” [1]. Le informazioni più utili e interessanti emergono dal mare magnum grazie all’azione degli individui che selezionano e redistribuiscono il materiale che essi ritengono più curioso e degno di attenzione . Ogni singolo utente può inserire nuovi documenti, questi si andranno ad aggiungere alla struttura del web e, con molta probabilità, verranno scoperti da altri utenti che, a loro volta, se li riterranno importanti, li rimetteranno in circolo mediante altri collegamenti.

L’individuo agisce come un “essere collettivo” dotato di una swarm-intelligence [2] (intelligenza distribuita o collettiva). Già Pierre Lévy[3] parlava di intelligenza collettiva nel momento in cui vedeva il consumo trasformarsi in un processo collettivo: nessuno può sapere tutto, ma ognuno può sapere qualcosa, quindi si possono mettere insieme i pezzi per creare una forma di intelligenza alternativa.

Le stesse applicazioni, pensate come soluzione di un problema “sociale”, sono progettate per essere modificate o, prendendo a prestito il termine usato da Granieri, hackerate[4]. Questo significa che è il contributo degli utenti che le migliora e le rende disponibili al miglioramento di altre applicazioni.

Nell’era dell’internet of things non si parla più semplicemente di scambio di informazioni, ma di scambio di azioni fisiche vere e proprie. Il progetto europeo Social&Smart – SandS, iniziato a novembre 2012, prende avvio con l’idea di creare un social network per la condivisione di processi fisici tra i suoi membri: un social network of facts. In pratica lo sviluppo di una infrastruttura fisica e di calcolo che permette alle persone di controllare i loro dispositivi ed elettrodomestici attraverso una rete.

Gli utenti saranno in grado di “iniettare” intelligenza nei loro apparecchi utilizzando il social network – piuttosto che incorporandola come si farebbe con un robot – per sviluppare istruzioni finemente sintonizzate. Questa infrastruttura consentirebbe al social network di produrre delle “ricette” di intelligenza computazionale, da spedire agli elettrodomestici attraverso una rete domestica locale.

Ma forse è bene fermarci un attimo e fare qualche esempio concreto per provare rendere lo senario un po’ più comprensibile. Come si generano le “ricette”? Ogni volta che un utente da indicazioni per un lavaggio in lavatrice o di pulizia delle casa, genera delle istruzioni. Al termine di ogni procedura lascia un feedback, così come ne lascia altri confrontandosi con gli utenti. Tutti i feedback lasciati dai membri del social network, più o meno esperti, confluiscono in un database di conoscenza open source, che può essere condiviso in modo proattivo e definito di volta in volta con altre persone che possiedono gli stessi o altri elettrodomestici intelligenti. Software come cicli di lavaggio o tempi di cottura non sono più una questione privata dei produttori di elettrodomestici, ma emergono dalla rete di conoscenza condivisa dai membri. La soluzione sociale si dimostra ancora la più conveniente: nel web c’è sempre qualcuno che ne sa più di te.

Bruno Apolloni, del Dipartimento di informatica dell’Università di Milano, dove si sta sperimentando il progetto, ci dice: “Oggi il discrimine tra cosa riguardi la città e cosa la singole case diviene abbastanza labile, più che altro affidato a questioni giuridiche anziché tecniche. Se ci poniamo l’obiettivo di un comfort generalizzato e sostenibile, allora possiamo fare riferimento ad un unico ecosistema urbano, che potremmo caratterizzare come Social&Smart, in cui gli elettrodomestici rappresentano una raguardevole fonte del comfort domestico e una altrettanto notevole voce del consumo di risorse energetiche e idriche e di inquinamento della falda acquifera”.

Quali sono infatti i vantaggi per l’ecosistema urbano?

  • l’adeguamento della condotta domestica alle esigenze della città, dalla riduzione dei picchi di carico elettrico, all’adeguamento alle disponibilità idriche e la riduzione del carico inquinante;
  • la interazione con vari episodi della vita cittadina, dalle condizioni atmosferiche che influenzano le ricette di cottura dei cibi o asciugatura dei panni, a fenomeni di traffico che modifichino lo scheduling di esecuzione delle ricette.

In progetto SandS è svolto da un consorzio di 8 partners tra i quali il Centro Tecnologico di CARTIF in Valladolid, nel quale è stato allestito una showroom dove 5 elettrodomestici sono pilotati dalla rete in risposta alle richieste di esecuzione di un compito da parte dell’utente, e l’azienda Arduino che produce le interfacce per connettere gli elettrodomestici alla rete. I laboratori di Arduino in Malmo [ abbiamo già parlato della città di Malmo, leggi il nostro articolo], unitamante a quelli del Dipartimenti di Informatica dell’Università di Milano, prototipizzano le sperimentazioni che vengono poi eseguite a regime in CARTIF.


[1] Buchanan, Nexus, cit. p.243

[2] Jenkins, H. 2007, Cultura Convergente, Milano, Apogeo

[3] Lévy, P. 2002, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Milano, Feltrinelli

[4] Granieri, G. 2006, La Società digitale, Roma, Laterza

(Fonte smartinnovation.forumpa)

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L’Internet delle cose: Benvenuti nella terza rivoluzione industriale

internet-of-things

Benvenuti nel futuro: ogni abitudine, qualsiasi gesto quotidiano si arricchirà di un valore aggiunto quando l’internet delle cose, cioè la possibilità di dotare gli oggetti di uso comune di una identità “digitale” e di connetterli tra di loro in rete, diventerà, dalla grande promessa che è oggi, la nuova, solida e onnipresente frontiera dell’hi-tech.

Presto ad avere accesso al web, a essere abilitati per trasmettere informazioni, saranno tutti gli oggetti, inclusi i più piccoli, insignificanti e ordinari: lampadine, vestiti, braccialetti, elettrodomestici e così via. Le “cose connesse” nel 2009 erano appena 900 milioni. Saliranno, secondo la società di consulenza Gartner, a quota 26 miliardi nel 2020, con un impatto da capogiro sull’economia: un giro d’affari pari a 1,9 mila miliardi di dollari. 

L’azienda Wolfram Research ha già iniziato, attraverso il sito Connected devices, ha catalogare tutti gli oggetti che possono collegarsi a internet e comunicare dati. Finora il sito contiene duemila oggetti prodotti da circa 300 aziende diverse: braccialetti che monitorano come dormiamo e aiutano a migliorare il nostro benessere, cubi magnetici per assemblare robot per bambini, apparecchi medici, fonometri, lavatrici, termometri, contapassi, robot che puliscono al posto nostro e, in generale, tutti quegli strumenti che servono per misurare e monitorare. È possibile anche consultare il database e cercare, ad esempio, tutti gli smartphone che costano meno di duecento dollari e pesano meno di 100 grammi. Chiunque può partecipare segnalando un oggetto che manca nel catalogo, e contribuire alla terza rivoluzione industriale. 

L’unica, ma grande pecca, ad oggi è lo scarso livello di sicurezza di queste tecnologie. “L’internet delle cose è terribilmente insicuro” titola un articolo della rivista americana Wired, in cui si afferma che un oggetto con un chip al suo interno è estremamente vulnerabile da attacchi esterni. Gli hacker di domani potrebbero prendere, tranquillamente, il controllo della nostra auto o della nostra casa, esponendoci a rischi non di poco conto.

Ma nonostante tutto, l’internet delle cose cambierà le nostre vite o, almeno, proverà a renderle più smart.

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