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Prodi-Cirio e quella assoluzione con legge Ad personam

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Nel 1993, quando Romano Prodi è presidente dell’Iri, viene privatizzata la Sme, il vecchio colosso pubblico alimentare dell’Iri. Fallito l’accordo con la Cir di De Benedetti per la cessione dell’intera azienda, questa viene poi venduta pezzo per pezzo. Una parte, la finanziaria Cbd (il gruppo Cirio-De Rica-Bertolli), passa per 310 miliardi alla Fisvi, la società di un semisconosciuto imprenditore di nome Carlo Lamiranda, che lo rivende poi a prezzo maggiorato. Operazione sospetta, secondo la Procura di Roma: perché Lamiranda, più che di quattrini, era ricco di appoggi nella Dc del Sud e avrebbe ottenuto le aziende sottocosto, con un danno quindi per l’Iri. Inoltre, secondo l’accusa, fin dall’inizio sarebbe stato chiaro che Lamiranda avrebbe fatto soltanto da intermediario, per rivendere poi la Bertolli alla multinazionale anglo-olandese Unilever, di cui Prodi era stato consulente fino al giorno prima della sua nomina all’Iri. Dunque, secondo la Procura capitolina, Prodi va processato per avere procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale alla Fisvi e un ingiusto vantaggio patrimoniale e non patrimoniale alla Unilever.

Il 26 novembre 1996 il pm Giuseppa Geremia chiederà il rinvio a giudizio per Prodi, Lamiranda e gli altri cinque consiglieri d’amministrazione dell’Iri. Prodi, in particolare, fin dal 1990 aveva rivestito la carica di advisory director della Unilever Nv (Rotterdam) e della Unilever Pic (Londra), gruppo che secondo le indagini aveva gestito la trattativa attraverso la Fisvi. Stando all’accusa, Prodi aveva consentito alla Fisvi di acquistare la Cirio-Bertolli-De Rica (da qui in poi CDB, ndr) senza che la stessa avesse i mezzi per realizzare l’operazione. Lo scopo era quello di far avere alla Unilever il ramo olio (Bertolli) dell’azienda per 253 miliardi. Così facendo Prodi aveva permesso che venisse a conclusione un’operazione molto complicata: la Unilever, di cui lo stesso era advisory director, poteva accaparrarsi il ramo olio, settore strategico del gruppo, senza sopportare gli obblighi di natura finanziaria derivanti dalla stipula del contratto di acquisto direttamente dall’Iri. Lo stesso Prodi, in questo modo, evitava il conflitto di interessi. Inoltre l’Iri aveva venduto la CBD violando le direttive del Cipe che prescrivevano il conseguimento del miglior prezzo. Ma non è finita. L’Iri, così facendo, aveva ripetutamente consentito la modifica delle condizioni dello schema di contratto in modo del tutto favorevole all’acquirente senza alcun vantaggio, anzi con danno, per l’Iri. La cessione delle azioni della CBD era inoltre avvenuta sulla base della valutazione di una società, la Parifin, che non aveva valutato la reale consistenza patrimoniale della Fisvi e la sua capacità di reddito, fidandosi soltanto dei dati di bilancio. Come se non bastasse, Prodi e i suoi amministratori in seno all’Iri, anziché valutare la possibilità di vendere separatamente i comparti alimentari della CBD, li cedevano tutti alla Fisvi. E questo anche se la Fisvi non solo non aveva indicato i mezzi finanziari per far fronte al pagamento del pacchetto azionario, ma era riuscita ad ottenere perfino una modifica delle condizioni contrattuali.

Prodi, fin dal primo giorno d’inchiesta, respinge ogni accusa e sostiene che l’offerta della Fisvi era la più alta fra quelle arrivate all’Iri, come garantito dalla banca d’affari inglese Wasserstein Perella; e che lui nulla sapeva di intese tra la Fisvi e la Unilever. Ma comunque si appresta a fare la campagna elettorale come candidato premier nella scomoda posizione di indagato per abuso d’ufficio. Sarà prosciolto il 22 dicembre 1997. Con una motivazione, per certi versi, imbarazzante. Nella sentenza di 47 pagine il giudice Landi si sofferma a lungo sul capo di imputazione, il reato di abuso in atti d’ufficio, la cui formulazione è stata sostituita dal parlamento con una legge del 16 luglio 1997, una legge nuova, intervenuta proprio mentre l’udienza preliminare che vede sul banco degli imputati Romano Prodi è ancora in corso.

Landi osserva correttamente che la nuova ipotesi di abuso – voluta fortemente dall’allora capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro e varata con il pieno appoggio dell’allora Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, grande amico (inutile ricordarlo) dello stesso Prodi – è “più favorevole all’imputato”. E questo non solo “avuto riguardo al più mite trattamento sanzionatorio – pena da sei mesi a due anni in luogo della precedente da due a cinque anni – bensì per la trasformazione del delitto da reato di pura condotta o di pericolo, sorretto dal dolo specifico, in reato di evento, in cui il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto devono essere cagionati intenzionalmente”. Leggendo la sentenza di Landi si ha la sensazione che questa modifica della legge, votata da maggioranza e opposizione, abbia avuto un peso determinante nell’assoluzione di Prodi. Landi non si chiede – e non ne aveva l’obbligo – se Prodi e soci sarebbero stati condannati secondo la vecchia legge. Molti imputati di tangentopoli, giudicati tempestivamente, in base alla vecchia legge per fatti anche meno gravi di quelli attribuiti al prof. Prodi sono stati duramente condannati a pene severe e sono finiti in galera. Prodi con questa legge Ad personam si salvò.

Il risultato di questo moltiplicarsi d’indagini è comunque uno solo. In attesa della chiusura delle inchieste, nemmeno l’Ulivo può spingere troppo sull’acceleratore della questione morale. Le liste del Polo e, in misura minore, quelle del centrosinistra, diversamente dal 1994, sono piene di candidati inquisiti e, qualche volta, addirittura condannati. L’Ulivo schiera Prodi, D’Alema, Occhetto e De Mita (che saranno poi prosciolti), oltre a Giorgio La Malfa (condannato per Enimont, come pure Bossi, leader della Lega). Il centrodestra schiera un condannato, Vittorio Sgarbi (per truffa) e un plotone di indagati di tutto rispetto: Berlusconi, Previti, Grillo e due new entry. Marcello Dell’Utri (imputato a Torino e a Milano) e Massimo Maria Berruti (sotto processo per la Guardia di finanza). “Ho deciso di candidare Berruti per salvarlo dalla persecuzione dei giudici”, annuncia Berlusconi. A Milano la Lega affigge manifesti con i volti di Dell’Utri e Berruti, e la scritta: “Votatemi, se no mi arrestano”.

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