Il Senato virtuale che governa il mondo

il Senato virtuale

“Il “Senato Mondiale parla questa lingua, leggete: 

Oggi grande occasione per i Buy The Fucking Dip (BTFD), con i FANG stocks a caduta libera, salvati proprio all’ultimo in Europa dai BTFD… AAPL bastonati, mentre il S&P 500 Tech Sector gli è andato dietro disastrosamente.  Alla fine però neppure i BTFD hanno salvato i FANG. S&P ci dice che la Crescita di nuovo collassa mentre il Valore sta su. In Italia l’anti Eurozona M5S è sprofondato nelle amministrative, rendimenti BTP al ribasso, Mercati ora più tranquilli. Goldman bearish sui Bitcoins, dicono che si attestano fra un massimo di 2.230 e un minimo di 1.915, sanno qualcosa che noi non sappiamo?”.

Non ci avete capito niente, ma così parla ogni giorno il vostro Padrone, quello che Noam Chomsky già nel 1989 chiamava con immensa saggezza “Il Senato Mondiale”, I MERCATI, contro cui non esiste appello. Sono coloro che decidono se tuo figlio finirà la sua vita da individuo o da servo della Tech-gleba in un loop di vita disumano. Continue Reading

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Chi e come controlla il capitale finanziario italiano e mondiale?

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Il tema della creazione di moneta in cambio di debito pubblico è talmente delicato ed esplosivo da non essere quasi mai al centro delle discussioni, nemmeno tra gli economisti, nemmeno dopo questa crisi. Eppure esso è stato da sempre al centro dell’attenzione delle principali religioni: il popolo d’Israele ogni sette anni doveva rimettere tutti i debiti ai propri connazionali (non ai gentili), l’Islam ancora oggi vieta il prestito ad interesse e qualcuno dice che tale proibizione ha salvato il sistema finanziario dei paesi arabi, il magistero cattolico ha sempre tuonato contro l’usura e nel 1931 con PIO XI, persino contro l’internazionalismo bancario.

Lo stesso Marx, che ancora non poteva mettere a fuoco la finanziarizzazione dell’economia così come la conosciamo oggi, ne IL CAPITALE, LIBRO I, SEZIONE VII, CAPITOLO 24, diceva:

“Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico. Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. (…) il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna. Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale. In Inghilterra, proprio mentre si smetteva di bruciare le streghe, si cominciò a impiccare i falsificatori di banconote. (…) C’è forse qualcosa di più pazzesco dell’esempio offertoci dalla Banca d’Inghilterra? Mentre le sue banconote hanno credito unicamente per il fatto di essere garantite dallo Stato, essa si fa pagare dallo Stato e quindi dal pubblico, nella forma degli interessi sui prestiti, per il potere che lo Stato le conferisce di convertire questi stessi biglietti di carta in denaro e darli poi in prestito allo Stato!” Continue Reading

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Il sangue monetario

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Pubblichiamo un estratto dell’intervento, tenuto a Brescia il 23 ottobre scorso, del padre gesuita francese Gael Giraud (docente di Economia Matematica all’ Università Sorbonne di Parigi e Direttore di Ricerca al Cnrs), uno dei giovani economisti più influenti in Francia. L’illusione finanziaria di Gael Giraud.

Il mestiere delle banche consiste, in larga misura, nel creare moneta dal nulla. Con le regole in vigore oggi, ogni volta che la banca accorda un prestito, la moneta prestata è per il novanta per cento creata dal nulla, inesistente fino ad un attimo prima. Se è così, la maggior parte dei debiti che dovrebbero giustificare le sofferenze imposte ai popoli del sud Europa non corrisponde a denaro guadagnato con il sudore della fronte dai lavoratori dell’Europa del Nord. Corrisponde, in primo luogo, a qualche linea di codice su un computer. Questo particolare, ignorato nella discussione pubblica, non rende soltanto inaccettabile la distruzione della società greca (e forse tra poco portoghese, spagnola, italiana). Rivela anche una somiglianza apparente tra il lavoro del banchiere e l’azione divina. Creare moneta è come irrigare di sangue il corpo sociale, permettendo al sistema economico di funzionare. Il sangue dona la vita. Ecco perché il Presidente di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, si è potuto permetter di rispondere ad un giornalista dicendo che “si accontentava di fare il lavoro di Dio”. Ma quale Dio? Un dio malvagio che condanna a morte i suoi figli per costringerli a ripagare i debiti? Davvero oggi i mercati sembrano avere alcune caratteristiche delle antiche divinità: bisogna sacrificare a queste divinità i servizi pubblici, le pensioni, i sussidi di disoccupazione, i sistemi di assicurazione sociale, tutto per “placare la loro ira”. E solo due categorie di interlocutori sono autorizzati a superare il limite che separa i laici dai mercati: la banche le quali ricoprono il ruolo che un tempo aveva la tribù di Levi, ed il banchiere centrale, che assume sempre più l’atteggiamento del Gran Sacerdote. Divinità invero misteriose…: chi, nell’opinione pubblica, ha capito che i piani di salvataggio per la Grecia, la Spagna, il Portogallo, Cipro, sono prima di tutto piani per salvare le banche francesi e tedesche? I popoli di questi paesi avrebbero accettato i sacrifici se avessero davvero capito a chi erano destinati i soldi che ricevevano in prestito dall’Europa o dal Fondo Monetario Internazionale? La gran parte del denaro prestato dalla Troika in cambio di pesanti piani di aggiustamenti strutturali è tornato immediatamente nei bilanci delle nostre banche. È dunque molto preciso quello che afferma l’enciclica Quadragesimo anno pubblicata il quindici maggio millenovecentotrentuno da papa Pio undicesimo quando stigmatiza la finanza senza regole parlando di dittatura economica ed utilizzando la metafora del sangue monetario che irrora il corpo sociale con parole che potrebbero essere state scritte nel duemila e tredici:

105. E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.

106. Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare.

107. Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica della economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza. Forte della sua scelta profetica di non lasciarsi affascinare dagli idoli, la Chiesa e in particolare il Consiglio pontificio Giustizia e Pace ha chiesto nell’autunno del duemila e undici alcune riforme strutturali del sistema finanziario precise ed esigenti: l’imposizione di una tassa sulle transazioni finanziarie, la separazione dell’attività bancaria la ricapitalizzazione sotto condizione delle banche. Si può dire che, ad un anno di distanza, nessuna di queste tre domande ha avuto una risposta concreta.

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Prodi il finto buono

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Prodi ha la responsabilità delle disastrose privatizzazioni che hanno impoverito il Paese negli anni Novanta. Calca la scena politica italiana da quasi trent’anni, si propone alla Seconda – e alla Terza – Repubblica, quando è figlio prediletto della degenerazione della Prima.

Il suo cursus honorum è costellato di incarichi prestigiosi assolti mediocremente: pessima la sua prima gestione del carrozzone Iri, disastrosa (seppur breve) la seconda, come inquilino di Palazzo Chigi è stato cacciato dalla stessa parte politica che là lo aveva mandato, da presidente della Commissione Ue si è attirato critiche unanimi della stampa internazionale… Eppure – sarà per quell’aria apparentemente inoffensiva e bonaria, da curato di campagna, che spinge i suoi avversari a sottovalutarlo (Massimo Giannini ha recentemente ironizzato: «I suoi artigli grondano bontà») – è sempre riuscito a risorgere dai propri fallimenti. Meglio: è riuscito spesso a far passare l’idea che venisse “epurato” per la propria ostinazione a difendere gli interessi generali invece che quelli dei soliti noti, proprio lui che ha sempre flirtato coi poteri forti e con le aree politiche legate a questi ultimi. Così, da ogni flop ha preso nuovo slancio, potendo contare sulle amicizie giuste, su un “ombrello” di potentati che l’hanno protetto, essendone lui fedele reggicoda. All’inizio fu la compatta falange della sinistra Dc, che poi risulterà non a caso l’unica componente dell’ex Balena Bianca a salvare le penne nella bufera giudiziaria di Tangentopoli. Poi, subito dopo, certi poteri italiani legati agli ambienti cattolici (Nanni Bazoli) e laici (Carlo De Benedetti ma anche Gianni Agnelli) del centrosinistra, con i conseguenti addentellati nel mondo dei mass media. Infine, l’ombra lunga di Goldman Sachs. È, questo, un capitolo piuttosto oscuro della nostra storia. Attraverso le privatizzazioni furono smantellati settori trainanti dell’economia italiana: quello agro-alimentare già dell’Iri (acquisito da gruppi inglesi, olandesi ed americani), il Nuovo Pignone dell’Eni, la siderurgia di Stato, l’Italtel, l’Imi.

Sono state inoltre privatizzate Telecom e in parte anche Enel ed Eni, già enti di Stato che potrebbero presto finire nelle mani delle solite multinazionali estere. Prodi, iniziatore e protagonista di questo processo, prima come presidente dell’Iri, specie durante il suo secondo mandato (1993-94), poi come presidente del Consiglio (1996-99). Ovviamente, appoggiato da forti gruppi di potere: Bilderberg, Rothschild, Goldman Sachs… Prendiamo allora quest’ultimo, una cosiddetta merchant bank (banca d’affari) già presente al famoso summit del Britannia, dove si decise lo smantellamento dello Stato-imprenditore italiano; ha poi ricoperto un ruolo essenziale nel processo di privatizzazione delle partecipazioni statali, favorendo l’intervento delle grandi multinazionali e di importanti uomini di potere nostrani, come Mario Draghi, ex vicepresidente Goldman per l’Europa, e poi proprio il Romano Prodi, a più riprese consulente di livello della banca e per questo assai ben remunerato (3,1 miliardi di lire di compensi, come scrissero il Daily Telegraph e l’Economist).

Draghi, oltre che direttore generale del Tesoro tra il ’96 e il 2003, presiedette nel ’93 il Comitato per le privatizzazioni; nello stesso periodo Goldman Sachs, tramite il fondo Whitehall, acquisì nel 2000 l’ingente patrimonio immobiliare dell’Eni di San Donato Milanese, oltre agli immobili della Fondazione Carialo e, assieme alla Morgan Stanley, quelli della Unim, Ras e Toro. Prodi era presidente dell’Iri quando decise la privatizzazione della Credito Italiano proprio tramite la Goldman Sachs, che fissò il valore delle azioni a 2.075 lire, meno di quello di Borsa (che era a quota 2.230). Ma dobbiamo all’attuale premier anche la perdita di molti dei marchi storici del nostro comparto agroalimentare, ovviamente finiti (male) in mano straniera. Prodi concluse la cessione dell’Italgel (900 miliardi di fatturato) alla Nestlé per 703, così come l’assai discussa vendita della Cirio-Bertolli-De Rica (fatturato 110 miliardi, valutata 1.350), ad una fantomatica finanziaria lucana (Fisvi) al prezzo di 310 miliardi, che ne garantì il pagamento con la futura alienazione di parte del gruppo stesso alla multinazionale Unilever.

Ma proseguiamo: quello della Sme a De Benedetti non è l’unica cessione sballata che Prodi avrebbe voluto effettuare, a prezzi poi rivelatisi impropri. Pensiamo alla Stet, ricca e potente finanziaria delle telecomunicazioni, che controllava Sip, ma anche Italtel e Sirti: nell’ottobre 1988 Iri vendette a Stet il 26% del pacchetto azionario Italtel per 440 miliardi, quando in base a un piano elaborato due anni prima da Prodi e Fiat ne avrebbe ricavati solo 210. O ancora, alla vicenda del Banco di Santo Spirito, acquistata dalla Cassa di risparmio di Roma diretta dal demitiano Pellegrino Capaldo: il progetto iniziale – appoggiato dall’attuale premier – prevedeva introiti per l’Iri tra i 350 e i 500 miliardi, mentre quello finale, profondamente trasformato, toccò quota 794 miliardi. Abbiamo già accennato alle cifre improprie della privatizzazione Credit, durante il “Prodi II” all’Iri.

E forse varrebbe anche la pena di rievocare altre storiacce, come quella della sciagurata gestione del buco Finsider o dei fondi neri Italstat. Riguardo alla vendita Alfa Romeo alla Fiat, Prodi, allora presidente Iri cui apparteneva il marchio del Biscione attraverso Finmeccanica, in tempi recenti ha sostenuto: «Volevo vendere l’Alfa alla Ford, fecero di tutto per impedirmelo e ci riuscirono». È stato subito smentito da Fabiano Fabiani, ex ad di Finmeccanica e all’epoca dei fatti a capo della delegazione che trattava per conto dell’azionista pubblico la cessione della casa automobilistica di Arese: «Non ho percepito un’opposizione di Prodi all’acquisizione dell’Alfa Romeo da parte della Fiat». Le cose andarono così. L’Alfa perdeva centinaia di miliardi l’anno eppure la Ford, probabilmente ritenendo che si potesse usare un nome di grande tradizione e una casa con clienti affezionatissimi per sbarcare in Europa, avanzò un’offerta assai generosa: ben 3.300 miliardi (secondo alcune fonti 4.000) per acquisire gradualmente il pieno controllo entro otto anni, piano di investimento di 4.000 miliardi per il quadriennio successivo all’acquisto, ottime garanzie per coloro che risultavano impiegati nel carrozzone. L’offerta venne formalizzata il 30 settembre del 1986 e restava valida fino al 7 novembre dello stesso anno. Tutti d’accordo? Non proprio. Prodi informò subito Cesare Romiti: nulla di male, poteva essere un tentativo per ottenere un rilancio Fiat, che puntualmente arrivò il 24 ottobre. Ma era assai deludente: prevedeva un prezzo di acquisto di 1.050 miliardi, in cinque rate senza interessi, prima rata nel 1993 (alla fine Fiat sborsò in realtà tra i 300 e i 400 miliardi), poi 4.000 miliardi di investimenti entro il 1995 e molti posti di lavoro da tagliare per recuperare competitività. Bene : il 6 novembre l’Iri di Prodi cedette l’Alfa alla famiglia Agnelli, quella che dieci anni più tardi, con Mortadella al governo, sarebbe stata tenuta artificialmente a galla con gli ecoincentivi per l’auto.

Lorenzo E. 

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Alcoa: Chi la dirige, Chi la gestisce e Chi c’è dietro

Lasciamo perdere le commemorazioni e le piatte rimembranze retoriche e passiamo subito al sodo che ci interessa, oggi e a casa nostra. Parliamo dunque dell’Alcoa e di Portovesme in Sardegna.

Di conseguenza, parliamo di scelte strategiche militari e di investimenti di speculazione finanziaria sui derivati nelle commodities del settore minerario. Quella che si sta combattendo in Sardegna è guerra vera, ma non lo dicono. Quando parlo di “guerra vera” intendo dire carri armati, bombardieri, ecc. E di un flusso di cassa permanente di soldi per la criminalità organizzata.

Una brevissima pausa tanto per ricordare quel martedì atroce dell’11 settembre. Non quello delle torri gemelle nel 2001. Bensì quello del 1973, quando la Alcoa, la Enron, la ITT e la Citicorp diedero il via definitivo ai fascisti cileni per impossessarsi del potere in Sudamerica con la violenza. Avevano bisogno del controllo economico e finanziario di tutta la produzione estrattiva delle miniere di rame in Cile, del controllo della produzione di alluminio, carbone e zinco nella zona tra Il Cile, il Perù, l’Uruguay e il Paraguay. Fu quella la ragione e il motivo. 39 anni dopo la Alcoa sta di nuovo in prima fila nella gestione del riassestamento strategico delle sue aziende. L’ufficio operativo marketing europeo nacque e si costituì a Milano, nel 1967, e da lì, grazie all’appoggio dei ceti più  conservatori della politica italiana, iniziarono a tessere le fila per il golpe in Sudamerica nei primi anni’70, come tonnllate di documenti hanno ampiamente provato da decenni.

Ho ritenuto opportuno, oggi, quindi, spiegare chi sia la Alcoa. Chi la dirige, chi la gestisce. Chi c’è dietro. Per comprendere che non si tratta di una “normale” battaglia sindacale.

Si tratta del nuovo scenario dell’oligarchia finanziaria planetaria da applicare all’Azienda Italia  per affossare definitivamente il paese. Dietro l’Alcoa c’è la Citicorp che ne gestisce la finanza in un fondo creativo il cui management operativo è affidato al nucleo di Black Rock Investment, garantito da Royal Bank of Scotland e amministrato, in ultima istanza, dal quartiere generale di Goldman Sachs (è tutta robbetta ricavata da files pubblici gentilmente offerti nel 2010 e nel 2011 dalla ditta wikileaks di Julian Assange) che in questo 2012 sovrintendono, gestiscono e stabiliscono gli investimenti produttivi nel settore energetico nel pianeta.

Ecuador, Bolivia, Uruguay, Islanda, Australia, Spagna, Italia. Queste sono le nazioni “strategicamente” più interessanti per Alcoa negli ultimi 10 anni.
Queste sono le nazioni nelle quali, nell’ultimo triennio, Alcoa ha avuto dei seri guai (oltre che perdere ingenti profitti ai quali erano abituati).
Nelle prime quattro nazioni il problema è stato risolto dai governi locali e vi spiegherò come. In Australia è stato affrontato e risolto dal Commonwealth in 36 ore tra il 28 e il 29 giugno del 2012, evitando una pericolosa crisi politica britannica venti giorni prima dell’inizio delle olimpiadi. In Spagna e in Italia (considerate ormai in tutto il mondo le due nazioni più conservatrici, più arrese, più arretrate dal punto di vista politico, completamente commissariate dai colossi finanziari) è stata scelta la linea colonialista, sapendo che in Italia e Spagna, in questo momento, è possibile fare tutto ciò che si vuole perché non esiste nessuna opposizione reale, avendo cancellato l’esercizio dell’informazione giornalistica.
Nessuno spiega chi è Alcoa, che cosa fanno, che cosa vogliono da noi, e perché se ne vanno via, dove, come, a fare che. La prima botta per Alcoa è venuta dall’Islanda.
I guai per Alcoa (si fa per dire) iniziano in Islanda, agli inizi del 2007, quando un esponente del partito socialista islandese, membro della commissione salute e sanità del parlamento islandese,  Helgi Hjorvar, fa una interpellanza parlamentare contro Alcoa sostenendo che “sta ottenendo sovvenzioni statali grazie alle quali ha assunto il totale controllo dell’erogazione di energia elettrica nella nostra isola praticando un prezzo ai consumatori dell’850% superiore a quelli di mercato e a quelli praticati in altre nazioni”.  Da lì nasce una tremenda querelle che porterà poi Alcoa, prima a scusarsi, poi a patteggiare e infine, travolta dallo scandalo di corruzione delle multinazionali emerso in seguito al default islandese, a pagare un dazio e poi scappare via. Continue Reading
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