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Il fallimento dei project bond. E come al solito pagano i cittadini

spreco denaro pubblico

Per la Commissione europea doveva essere la trovata del secolo per dirottare fiumi di capitali privati nella costruzione di grandi opere infrastrutturali. Invece, la prima uscita dei project bond è stata un fallimento totale e a farne le spese saranno adesso i cittadini spagnoli, che dovranno sborsare 1,3 miliardi di euro. Non proprio noccioline per uno dei paesi più colpiti dalla crisi finanziaria.

Alla costante minaccia russa di chiudere i rubinetti del gas nei momenti di maggior tensione geopolitica, Bruxelles e il governo iberico intendevano rispondere con una sorta di magazzino sottomarino dove stoccare ingenti quantità di gas, a cui attingere in caso di emergenza. Ma una serie di terremoti ha affossato il progetto e ora Madrid dovrà risarcire gli investitori privati.

Il progetto Castor, al largo del golfo di Valencia, prevedeva infatti un grande deposito offshore a 1.750 metri di profondità, in grado di stipare fino a 1.300 milioni di metri cubi di gas naturale. Una quantità in apparenza enorme, ma pari ad appena 13 giorni di consumo nazionale.

In Spagna di depositi di gas ce ne sono già tre in attività, ma Castor aveva qualcosa in più. Per finanziare l’opera, il governo spagnolo si era avvalso del 2020 Project Bond Initiative, un programma lanciato nel 2012 dalla Commissione europea e dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) per spingere i mercati a investire nelle grandi opere di “interesse comune”.

L’emissione di bond per 1.350 milioni di euro, garantiti dalla stessa Bei, ha permesso al consorzio Escal UGS di trovare in pochi giorni le risorse necessarie per avviare i lavori. A finanziare l’opera sarebbero stati decine di fondi pensione, istituti di credito e fondi di investimento, oltre ovviamente alla Bei che per alzare il rating dei bond ha investito circa 500 milioni di euro di fondi pubblici, di cui 300 milioni nell’acquisto degli stessi bond

L’iniziativa dei project bond altro non è che una versione raffinata di partnership pubblico-privata in cui attori finanziari come fondi di investimento e fondi pensione possono partecipare direttamente all’operazione, dove a socializzarsi sono sempre e soltanto le perdite. Così è stato per Castor, che dei project bond europei era addirittura il progetto pilota.

Quando il consorzio guidato dalla Acs di Florentino Perez, il presidente del Real Madrid, avviò le manovre di immagazzinamento del gas, centinaia di terremoti iniziarono a susseguirsi senza sosta nel paese iberico, con punte fino a 4.2 gradi della scala Richter. Fu lo stesso Istituto Geografico Nazionale ad accertare la relazione tra le iniezioni di gas naturale di Castor e i movimenti tellurici.

Eppure la faglia al largo delle coste valenciane era già stata mappata, e una seria valutazione di impatto ambientale avrebbe dovuto tenerne conto. Così non è stato, e poco importa se sia dipeso da negligenza o da dolo imputabile all’Escal.

Poco importa perché una clausola vessatoria del contratto di concessione, firmato nel 2008 dal governo Zapatero, prevedeva il recupero dell’investimento anche nel caso di interruzione del progetto “per dolo o negligenza dell’azienda concessionaria”. A causa dei terremoti, la scorsa settimana il governo spagnolo ha quindi deciso di “ibernare” Castor e di indennizzare Escal con 1.350 milioni di euro. Denaro pubblico che servirà per risarcire Escal e per ripagare gli investitori che avevano acquistato i project bond.

A rimborsare il consorzio guidato da Florentino Perez sarà il gestore pubblico del gas, Enagas, che si indebiterà con le banche per pagare Escal e poi girerà il debito ai cittadini spagnoli, che per i prossimi 30 anni si ritroveranno nella bolletta del gas una tassa in più da pagare: la “tassa project bond”, come l’hanno già rinominata tra Barcellona e Valencia.

Un’operazione che tra bond emessi, interessi alle banche e costi di mantenimento della piattaforma offshore, rischia di costare ai contribuenti quasi 3miliardi di euro.

Una cifra enorme che dovrebbe mettere in allerta anche il governo Renzi che, attraverso lo “Sblocca Italia”, intende rilanciare il meccanismo dei project bond. Una misura contro la quale è intervenuto addirittura il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, che pochi giorni fa ha evidenziato i gravi rischi sul piano della normativa anti-riciclaggio, sottolineando peraltro l’inefficacia dello strumento promosso dalla Bei.

Chissà se la lezione spagnola ci eviterà almeno questo nuovo grattacapo.

(Fonte recommon)

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L’ inganno shale gas, indipendenza energetica o bolla speculativa?

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Il successo dell’estrazione di petrolio e gas da giacimenti non convenzionali, in particolare le formazioni di scisti (in inglese shale), è uno dei rari raggi di luce negli anni bui di Grande Recessione. L’impatto è stato impressionante.

Da quattro anni gli Usa sono il maggior produttore di gas al mondo e da inizio 2014, con l’equivalente di 11 milioni di barili di petrolio al giorno, sono in testa alla produzione globale di idrocarburi. Il prezzo del gas naturale negli Usa, che a giugno del 2008 aveva superato i 12 dollari per milione di Btu (British thermal units, l’unità di misura più diffusa per il prezzo del gas), piombò a meno di 3 dollari a settembre 2009 e poi fino a un minimo di 2 dollari nell’aprile del 2012. Oggi il prezzo si aggira intorno ai 4 dollari per mBtu. Gli Usa un tempo rassegnati a massicce importazioni di gas liquefatto dal Qatar ora pianificano di esportare verso l’Europa (dove il gas vale 10 dollari per mBtu) e il ricco mercato asiatico (in Giappone il prezzo è circa 15 dollari) e addirittura verso il Medio Oriente.

In taluni settori manifatturieri, inclusi quelli che avevano trasferito le fabbriche in Asia o Messico, ora i costi energetici contenuti (e l’inflazione salariale nei Paesi emergenti) rendono gli Stati Uniti una localizzazione competitiva. L’ottimismo generato da questa manna energetica ha indotto a prevedere che gli Usa possano raggiungere l’autosufficienza energetica nel 2020. Tale epocale inversione non ha sconquassato solo l’economia, ma ha anche accentuato l’istinto isolazionista dell’America profonda e di Barack Obama. Il presidente infatti ha trascurato Libia, Siria, Iraq e teatri di guerra che un tempo avrebbero acceso l’allarme rosso alla Casa Bianca e si è ridestato lentamente dal torpore geopolitico solo di fronte agli sgozzamenti.

Sull’approvvigionamento energetico classe politica, Pentagono, società petrolifere e Wall Street (che ha riversato cascate di dollari su progetti targati shale) dopo decenni di patemi e tensioni sono convinti di potersi rilassare. Tuttavia da questo altare di certezze si odono mandibole di tarli in piena attività: i successi iniziali sono stati inopinatamente proiettati nel futuro per attirare capitali e gonfiare l’ennesima bolla. Una serie di studi del Bureau of Economic Geology (BEG) all’Università del Texas – una tra le più autorevoli think tank in campo energetico – ha rielaborato le previsioni iniziali sulla produzione di shale gas alla luce dei dati fin qui rilevati nei maggiori giacimenti. Tali studi condotti da geologi, economisti e ingegneri forniscono un’analisi, disaggregata per singolo pozzo, fino al 2030 sulla base di diversi scenari di prezzo (che determinano la convenienza economica dell’estrazione). Emerge che, in contrasto con le iniziali proiezioni, la produzione nel bacino texano di Barnett (il più vecchio) segue un declino esponenziale: la produzione raggiunge un picco nei primi mesi di attività, per poi crollare, invece di stabilizzarsi. Per compensare il rapido declino dei primi pozzi (più promettenti e meno costosi) si deve trivellare più intensamente e con tecnologie più sofisticate e i costi si impennano. Piani di investimento e aspettative di profitti rischiano di trasformarsi in perdite per azionisti e finanziatori incauti. Da altri grandi giacimenti di shale gas sfruttati da minor tempo, come Haynesville e Marcellus, si temono analoghi dispiaceri.

Oltre al gas, anche i dati dai pozzi di petrolio da scisti di Eagle Ford in Texas, elaborati da Arthur Berman indicano un preoccupante declino. La Shell ha iscritto a bilancio perdite per 2,1 miliardi di dollari dall’investimento in Eagle Ford. Un altro colosso mondiale delle materie prime, BHP Hilton, che aveva scommesso 20 miliardi di dollari sugli idrocarburi da scisti ha annunciato di voler vendere metà dei suoi bacini. Una doccia gelida è anche arrivata dall’Energy Information Administration(EIA) del governo Usa che ha tagliato del 96 per cento (da 13,7 miliardi di barili ad appena 600 milioni) le stime di petrolio estraibili dal bacino Monterey lungo circa 2500 chilometri in California e considerato (ormai erroneamente) il più grande degli States con due terzi delle riserve petrolifere non convenzionali. Insieme alle stime sono evaporati 2,8 milioni di posti di lavoro attesi entro il 2020, oltre a 24,6 miliardi di dollari introiti fiscali e un 14 per cento di aumento del Pil californiano.

L’epopea dei combustibili fossili oscilla da due secoli tra presagi di esaurimento imminente ed esaltazione da scoperte di giacimenti giganteschi. Lo shale gas ha alimentato aspettative mirabolanti probabilmente destinate ad ridimensionarsi. Il miraggio dello shale aveva colpito dalla Polonia al Regno Unito, dall’Argentina alla Cina. Ma al di fuori del Nord America al momento non si registrano successi di rilievo. In Polonia si sono accumulate perdite e dispute tra governo società petrolifere, mentre Oltremanica il governo sembra scettico. In Italia – dove comunque non si segnalano sostanziali giacimenti non convenzionali e la Strategia Energetica Nazionale esclude espressamente estrazioni da scisti – la Commissione Ambiente della Camera ha approvato da pochi giorni un emendamento che proibisce il fracking, cioè la tecnologia per estrarre lo shale gas.


(Da Il Fatto Quotidiano del 17 Settembre 2014)

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La Terza Guerra Mondiale per l’energia

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“Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina a oriente e meridione: dovunque si guardi, il mondo è infiammato da nuovi conflitti o guerre che si intensificano. A prima vista appaiono eventi indipendenti l’uno dall’altro, fondati su circostanze specifiche. Ma osservando la questione più da vicino si comprende come abbiano in comune caratteristiche fondamentali. In ciascuno di questi conflitti emergono antagonismi atavici fra tribù, sette e popolazioni vicine. Ma guardate più da vicino e vedrete che ognuno di questi conflitti è, in fondo, una guerra di energia.

In Iraq e Siria ci sono attriti profondi tra sciiti, sunniti, curdi, turkmeni e altri ancora; in Nigeria tra musulmani e cristiani e gruppi tribali; in Sud Sudan tra Dinka e Nuer; in Ucraina tra ucraini lealisti e allineati filorussi; nel Mar della Cina a oriente e a sud tra cinesi, giapponesi, vietnamiti, filippini e altri ancora. Sarebbe facile attribuire tutto ad attriti e odi di lunga data, come suggerito da molti analisti; ma questi conflitti in realtà sono alimentati da impulsi ben più attuali e moderni, cioè la volontà di controllare i giacimenti di petrolio e gas naturale. Non cadiamo nell’errore: le guerre del ventunesimo secolo sono le guerre per l’energia.

Nessuno dovrebbe sorprendersi a fronte del ruolo che l’energia gioca in queste guerre. Dopo tutto il petrolio e il gas naturale sono la fonte maggiore di introiti per governi e grandi società quando ne controllano produzione e distribuzione. E i governi di Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan e Russia ottengono enormi profitti dalla vendita del petrolio, mentre le grandi aziende dell’energia (molte di proprietà degli Stati) esercitano un potere immenso nelle nazioni coinvolte. Chiunque possa controllare questi Stati, e le aree al loro interno dove si estraggono petrolio e gas naturale, controlla anche la collocazione e l’allocazione di risorse cruciali. Nonostante la patina di inimicizie storiche, molti di questi conflitti, poi, sono davvero lotte per il controllo della principale fonte di reddito nazionale. Inoltre, viviamo in un mondo energetico-centrico in cui il controllo sulle risorse petrolifere e di gas (e dei loro vettori) si traduce in peso geopolitico per alcuni e vulnerabilità economica per gli altri.

La battaglia per le risorse energetiche è stata un fattore importante in molti recenti guerre, come la guerra Iran-Iraq tra il 1980 e 1988, la guerra del Golfo nel 1990 e la guerra civile sudanese tra il 1983 e il 2005. Magari, a prima vista, nei conflitti più recenti questo aspetto può apparire meno evidente, ma è sempre per quello. Le divisioni etniche e religiose possono fornire il carburante politico e ideologico, ma è la caccia al profitto che tiene viva la battaglia. In un mondo ancora fondato sui carburanti fossili, controllare petrolio e gas è una fattore essenziale dei poteri nazionali.

Senza la promessa di tali risorse, molti di questi conflitti finirebbero per mancanza di fondi per comprare armi e pagare le truppe. Finché il petrolio continua a scorrere, però, gli eserciti hanno sia i mezzi che gli incentivi per continuare a combattere.

In un mondo di combustibili fossili, il controllo sulle riserve di petrolio e gas è una componente essenziale del potere nazionale. “Il petrolio fa muovere automobili e aerei, alimenta il potere militare e la politica internazionale”, afferma Robert Ebel del Center for Strategic and International Studies, “è un fattore determinante per il nostro benessere, di sicurezza nazionale, e di potenza internazionale per coloro che possiedono questa risorsa vitale, e il contrario per coloro che non la possiede”.

Un giorno, forse, lo sviluppo delle energie rinnovabili cambierà tutto ciò, ma oggi se vedete una guerra scoppiare, è una guerra per l’energia”. Michael T. Klare

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Kazakistan: Ricchezza, corruzione e censura

Nursultan NazarbaevIl Kazakistan è la terza potenza della Comunità degli Stati Indipendenti (ex URSS). La maggioranza degli europei lo considera “paese esotico”, termine negativo per le autorità kazake che, invece, vorrebbero creare nuovi legami con l’Occidente, facendo passare un’immagine di partner politico ed economico democratico e stabile, cosa che in realtà non è per nulla!

Diverse le misure repressive (arresti, bagni di sangue, provocazioni) rivolte a:

  • oppositori politici
  • organizzazioni della società civile
  • pochi mezzi di comunicazione di massa indipendenti
  • scioperanti del settore petrolifero

Con la risoluzione del Parlamento europeo del 15 marzo 2012 e grazie alle pressioni politiche dell’Europa, molte persone arrestate sono state scarcerate, alcune delle quali sono poi emigrate specie in Polonia. Questo perché le autorità kazake sono molto sensibili all’opinione occidentale. Solo con il sostegno dell’Europa e degli USA l’opposizione e la società civile potranno partecipare in maniera pacifica alle decisioni in merito al futuro del Kazakistan.

Numerosi i rimpasti al potere:

  • 21 settembre 2012: Aslan Musin, rimosso da direttore plenipotenziario dell’amministrazione presidenziale;
  • 24 settembre 2012: Karim Masimov, rimosso da Primo Ministro e trasferito a responsabile dell’amministrazione;
  • 28 settembre 2012: Erlan Idrisov ha sostituito Erzan Kazychanov come Ministro degli Esteri.

Nonostante tutto questo, il presidente Nursultan Nazarbaev, ex segretario del Partito Comunista del Kazakistan, è a capo del Paese dal 24 aprile 1990. Ha sempre ottenuto almeno l’80% dei voti degli elettori nelle varie riconferme, ma nessuna di queste elezioni è stata considerata conforme agli standard democratici.

Il 55,5% del PIL prodotto nel Paese è controllato dal fondo di assistenza nazionale “Samruk-Kazyna” gestito da una ristretta cerchia di persone vicine a Nazarbaev, creando diseguaglianze nella distribuzione dei guadagni.

Diversi i conflitti tra le diverse fazioni al potere. Il successore più accreditato di Nazarbaev è il genero Timur Kulibaev.

Il presidente e la famiglia godono di immunità personale e in merito alle loro proprietà, controllando quasi interamente l’economia del Paese. Le critiche nei confronti del presidente (leader della nazione) sono considerate un grave reato.

Mukhtar Ablyazov, marito di Alma Shalabayeva, è proprietario della banca nazionalizzata BTA e cofondatore del principale partito di opposizione “Scelta democratica per il Kazakistan” (per questo è considerato nemico del popolo n°1). Personaggio fortemente ambiguo, sul quale pende un’ingiunzione di pagamento da parte dell’Inghilterra per appropriazione indebita di denaro e per la mala gestione della banca BTA. Nel 2010 la Russia ha emesso un mandato di cattura per Ablyazov, inserendolo in una lista di ricercati internazionali, per l’imputazione di diversi reati finanziari nel Paese. Il Regno Unito gli ha concesso l’asilo politico nel 2011, nonostante la richiesta di estradizione da parte del Kazakistan.

Nel 2005 il partito di Ablyazov è stato dichiarato illegale dal governo del Kazakistan e gli oppositori hanno quindi fondato Alga! che, nonostante risponda a tutti i requisiti normativi, continua a vedersi negato il diritto alla registrazione da parte delle autorità.

Il leader dell’opposizione Vladimir Kozlov è stato arrestato il 23 gennaio 2012 e l’8 ottobre 2012, dopo mesi di detenzione in condizioni inumane in cui sono stati violati i basilari diritti dei detenuti, è stato condannato a 7 anni e 6 mesi di detenzione per “incitamento all’odio sociale”, adesione a organizzazioni criminali, organizzazione di attività illecite, intenti di sovversione armata dell’ordine costituzionale. Gli sono inoltre state confiscate le proprietà.

Nel 2011, 15000 lavoratori del settore petrolifero di Zanaozen hanno scioperato per 7 mesi per chiedere:

  • tenere in considerazione gli interessi e i diritti dei lavoratori;
  • rivedere le condizioni di lavoro per rispettare gli standard internazionali;
  • porre fine alla discriminazione in base alla nazionalità;
  • aumentare i salari a un livello equivalente allo standard sociale minimo;
  • consentire l’attività dei sindacati indipendenti (ora illegali);
  • aprire il dialogo con sindacati, autorità, osservatori internazionali;
  • libertà di manifestare;
  • scarcerazione dei detenuti per sciopero.

Conseguenze dello sciopero: 2000 licenziati, 17 morti (ufficiali), 86 feriti, 37 verdetti di colpevolezza.

Nel 2012 anche i lavoratori di fabbriche metallurgiche e miniere di carbone nelle altre regioni del Paese hanno organizzato scioperi.

Il Kazakistan possiede i giacimenti di petrolio e gas naturale più promettenti del mondo, oltre a vari tipi di minerali (primo al mondo per zinco, tungsteno, barite). Il principale partner economico è l’Unione Europea, con cui avviene il 40% degli scambi commerciali. L’industria dei combustibili è il settore su cui poggia l’intera economia del Paese. La corruzione è un fenomeno sistematico a tutti i livelli politici e istituzionali.

Il Kazakistan figura al 160° posto (dati 2013) nella Classifica Mondiale della Libertà di Stampa di “Reporter senza frontiere” (l’Italia al 57°). I mezzi di informazione che non si allineano sono accusati di estremismo e terrorismo informatico.

*Dossier M5S

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Unione Europea: diffondere i combustibili puliti per ridurre la dipendenza di petrolio

combustibili-puliti-carburanti-alternativi

Se aumentasse il numero degli automobilisti che guidano veicoli elettrici o alimentati a idrogeno e metano invece che a benzina e diesel, l’UE dipenderebbe meno dalle importazioni di petrolio e ridurrebbe le emissioni di gas a effetto serra.

Ma chi  usa i carburanti alternativi ? Pochi. E i motivi sono facilmente comprensibili: il costo elevato dei veicoli, lo scarso livello di accettazione da parte dei consumatori e la mancanza di stazioni di ricarica e rifornimento. È un circolo vizioso: non vengono costruite stazioni di rifornimento perché non vi sono abbastanza veicoli, i veicoli non sono venduti a prezzi competitivi perché la domanda è insufficiente, i consumatori non acquistano i veicoli perché sono costosi e non ci sono stazioni di rifornimento.

Per eliminare questi ostacoli, la Commissione intende fissare obiettivi vincolanti e standard comuni. Le proposte principali riguardano:

1) l’elettricità: un numero minimo di stazioni di ricarica in ogni paese e un connettore universale per ricaricare l’auto in tutta l’UE;
2) l’idrogeno: standard comuni per i tubi di rifornimento e gli altri componenti nelle stazioni di servizio di 14 paesi UE;
3) il gas naturale liquefatto: stazioni di servizio per i mezzi pesanti ogni 400 km lungo la prevista rete centrale transeuropea di trasporto ; saranno necessarie anche stazioni di rifornimento per le navi in tutti i 139 porti marittimi e interni presenti lungo la rete
4) il gas naturale compresso: entro il 2020 stazioni di rifornimento con standard comuni accessibili al pubblico in tutta Europa, almeno ogni 150 km.

I paesi dell’UE potrebbero favorire questi cambiamenti adattanto la legislazione e la fiscalità nazionale per incoraggiare gli investimenti dei privati. I finanziamenti dell’UE necessari sono già disponibili.

Le proposte non riguardano altri carburanti alternativi che utilizzano infrastrutture esistenti (biocarburanti e carburanti sintetici) o che dispongono già degli impianti necessari (gas di petrolio liquefatto)

Il pacchetto “Energia pulita per il trasporto” è composto da una comunicazione relativa a una strategia europea per i combustibili alternativi, una direttiva incentrata sulle infrastrutture e sulle norme e un documento di accompagnamento che descrive un piano d’azione per lo sviluppo di gas naturale liquefatto (GNL) nel trasporto marittimo.

Le principali misure proposte sono:

Energia elettrica: La situazione relativa ai punti di ricarica varia sensibilmente all’interno dell’UE. I paesi leader sono Germania, Francia, Paesi Bassi, Spagna e Regno Unito. In base alla proposta, per ogni Stato membro è stato stabilito un numero minimo di punti di ricarica che utilizzeranno lo stesso tipo di connettore: l’obiettivo per l’Italia è di avere entro il 2020 una rete di 125 000 punti di ricarica (contro i 1 350 esistenti nel 2011), per alimentare i 130 000 veicoli elettrici che, secondo i piani del nostro paese, dovrebbero essere in circolazione entro il 2015. L’obiettivo è creare una massa critica di punti di ricarica in modo che le imprese garantiscano la produzione su larga scala di automobili elettriche a prezzi ragionevoli. Un connettore universale per tutta l’UE è un elemento essenziale per la diffusione dell’energia elettrica. Per porre fine all’incertezza del mercato la Commissione scommette sull’uso del connettore di tipo 2 come standard comune per tutta Europa.

Idrogeno: Germania, Italia e Danimarca dispongono già di un numero significativo di stazioni di rifornimento di idrogeno, anche se alcune non sono accessibili al pubblico. Per alcuni elementi, come ad esempio i tubi per carburante, sono ancora necessarie norme comuni. In virtù della presente proposta, le stazioni di servizio esistenti saranno collegate tra loro in modo da formare una rete soggetta a norme comuni che garantiscano la mobilità dei veicoli a idrogeno. Questo vale per i 14 Stati membri che dispongono attualmente di una rete per l’idrogeno.

Biocarburanti: rappresentano già quasi il 5% del mercato. Funzionano come combustibili miscelati e non richiedono alcuna infrastruttura particolare. Una delle sfide principali consisterà nell’assicurare la loro sostenibilità.

Gas naturale liquefatto (GNL) e compresso (GNC): il GNL viene utilizzato per il trasporto per via d’acqua, sia marittimo che per vie navigabili interne. Le infrastrutture per il rifornimento di GNL per le navi sono ancora in fase iniziale: soltanto la Svezia è provvista di alcune infrastrutture per navi marittime e altre sono previste in vari Stati membri. La Commissione propone che vengano installate stazioni di rifornimento di GNL in tutti i 139 porti marittimi e interni della rete centrale transeuropea rispettivamente entro il 2020 e il 2025. Non si tratta di importanti terminal di gas, bensì di stazioni di rifornimento fisse o mobili. Questa misura riguarda tutti i principali porti dell’UE.

GNL: il gas naturale liquefatto è utilizzato anche per gli autocarri, ma nell’UE ci sono soltanto 38 stazioni di servizio. La Commissione propone che, entro il 2020, vengano installate stazioni di rifornimento ogni 400 km lungo le strade della rete centrale transeuropea.

GNC: il gas naturale compresso è utilizzato principalmente per le autovetture. Attualmente questo combustibile è utilizzato da un milione di veicoli, pari allo 0,5% del parco automobilistico – il settore punta a decuplicare questo dato entro il 2020. La proposta della Commissione garantisce che, entro il 2020, siano disponibili in tutta Europa punti di rifornimento accessibili al pubblico, con norme comuni e ad una distanza massima di 150 km.

GPL: gas di petrolio liquefatto. Non è prevista alcuna azione per il GPL, poiché le infrastrutture di base esistono già.

Gli Stati membri saranno in grado di attuare questi cambiamenti senza dover necessariamente ricorrere alla spesa pubblica, mediante la modifica di norme locali che promuovano gli investimenti e l’orientamento del settore privato. L’UE offre già il proprio sostegno attraverso i fondi TEN-T, strutturali e di coesione.

Siim Kallas, Vicepresidente e Commissario responsabile per i Trasporti, ha dichiarato: “Lo sviluppo di combustibili innovativi e alternativi è un modo efficace per rendere l’economia europea più efficiente sotto il profilo delle risorse, ridurre l’eccessiva dipendenza dal petrolio e sviluppare un settore dei trasporti pronto a rispondere alle esigenze del XXI secolo. La Cina e gli Stati Uniti prevedono che entro il 2020 circoleranno complessivamente più di sei milioni di veicoli elettrici. Si tratta di una grande opportunità per l’Europa di assicurarsi una posizione solida in un mercato globale in rapida crescita.”

Punti di ricarica/veicoli elettrici per Stato membro

Punti di ricarica/veicoli elettrici per Stato membro


L’era dell’idrogeno. Energia per un pianeta più pulito. Il XXI secolo vedrà il declino del petrolio come fonte energetica principale. È giunto il momento di investire in una nuova direzione: l’era dell’idrogeno, che rappresenta il vettore energetico pulito del futuro.

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