“Subito dopo un’esondazione o una frana, che provoca morti e dispersi, le dirette televisive e gli editoriali sui principali quotidiani si sprecano. Si intervistano esperti, direttori della protezione civile, sindaci, cittadini con il badile, volontari sporchi di fango. Ma poi, passate solo poche settimane, gli “strascichi” degli episodi di dissesto idrogeologico trovano spazio a pagina 27. Così, di alluvione in alluvione e di frana in frana, ci trasciniamo una situazione che ormai è considerata facente parte dell’arredamento di “Casa Italia”. Tra alluvioni e frane negli ultimi 50 anni sono state quasi 7000 mila le vittime mentre dal dopoguerra ad oggi i danni sono stati quantificati in oltre 60 miliardi di euro. I comuni ad elevata criticità idrogeologica sono 6.631, per una popolazione potenzialmente a rischio pari a 5,8 milioni di persone. Numeri che, da soli e senza ulteriori commenti, studi o approfondimenti, dovrebbero incollare la politica alle proprie responsabilità. E invece la politica, dopo essersi recata ai funerali delle vittime per piangere lacrime di coccodrillo, una volta uscita dalle chiese e terminato il solito balletto dello scaricabarile, entra puntualmente nei consigli comunali, regionali o dei ministri, per approvare cementificazioni di ogni genere, porti, grandi opere, trafori. Interventi contro il dissesto idrogeologico? Sempre in fondo alla lista delle priorità. Ma la goccia ha oggi fatto davvero traboccare il vaso. Ed i cittadini, i comitati, gli alluvionati, hanno deciso di passare dalla denuncia del giorno dopo alla proposta attiva, all’autorganizzazione dal basso. Stanchi di essere malsopportati, trattati come un problema, ciascuno isolato nel proprio territorio dissestato, hanno deciso di unirsi e di costituirsi in “massa critica”, per obbligare le istituzioni a fare concretamente il proprio dovere e soprattutto a farlo con giustizia e correttezza, mettendo fuori gioco le politiche di intervento legate a logiche discrezionali che spesso creano danni ulteriori e corruzione. La rete nazionale si chiama “Mai più”, mai più bombe d’acqua e disastri ambientali – Movimento e rete delle comunità dei fiumi e del popolo degli alluvionati” ed ha le idee molto chiare: ricostruire il rapporto fra le comunità e i territori attraversati da corsi d’acqua; cambiare il modello economico e di gestione del territorio concausa del dissesto idrogeologico; ottenere trasparenza ed equità degli interventi. In poche parole, rimuovere lo spesso strato di fango accumulato in tutti questi anni lungo tutto lo stivale. Alluvione dopo alluvione”. Domenico Finiguerra
Frane
L’imbecillità di chiamarle bombe d’acqua
Il nostro è un Paese in cui nessuno è al sicuro e che non investe nella manutenzione del territorio. Ben 5 milioni di persone, in Italia, vivono in zone ad alto rischio idrogeologico e 1.260.000 sono gli edifici a rischio frane e alluvioni di cui 6122 scuole e 531 ospedali. Il paradosso italiano è che spendiamo ogni anno 1 miliardo per riparare i danni ma solo poco più di 100 milioni per prevenirli.
Ogni volta proclami e promesse. Mai che si parli di responsabilità o di punire i colpevoli. Tra il 1950 e 2012 si sono registrati 1.061 eventi di frana e 672 eventi di inondazione. Le vittime sono state oltre 9.000 e gli sfollati e senza tetto oltre 700.000. L’Italia ha il territorio più fragile d’Europa e il più esposto al danno idrogeologico. I lavori per un’aggiornata carta geologica si sono fermati al 40% grazie ai tagli del fu’ Tremonti, siamo rimasti a quella voluta da Quintino Sella nel 1862. Fantastico! Il 60% del territorio italiano non ha una carta geologica aggiornata! Ed ora arriva il geniale decreto “Sblocca Italia” che prevede permessi edilizi più facili e grandi opere accelerate. Ri fantastico! Altro che bombe d’acqua, siamo noi che ci bombardiamo da soli. E intanto ignoriamo i continui appelli dei geologi.
“In Italia continuiamo ad impermeabilizzare ed a far perdere ai nostri terreni la loro capacità di ritenzione idrica con le conseguenti immense difficoltà di dover gestire quantitativi sempre maggiori di acqua che non può più infiltrarsi“. Vittorio D’Oriano, Vice Presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi.
“La tragedia di Refrontolo si colloca al centro di un problema idrogeologico più volte evidenziato e che coinvolge tutta l’area collinare dell’Alta Marca trevigiana. I terreni che costituiscono l’impianto geologico del Montello, sono resi oggi ancora più fragili dall’azione intensiva dell’uomo, che riscontrandone il pregio sotto il profilo enologico, in particolare per la coltivazione del pregiato prosecco, interviene massicciamente con sbancamenti per nuovi impianti di vigneti”. Paolo Spagna, Presidente Geologi del Veneto.
Queste le tre proposte forti che la rete della società civile (Ance, Architetti, Geologi e Legambiente) continua ad indicare inutilmente per uscire dall’emergenza:
- far partire entro l’estate un Piano unico nazionale di manutenzione e prevenzione;
- liberare tutte le risorse già stanziate che Stato e enti locali non sono riusciti a spendere a causa dei vincoli del Patto di stabilità e reperirne di nuove attraverso i Fondi strutturali;
- garantire a livello nazionale un controllo sulla qualità dei progetti e degli interventi ispirati a un modello di sostenibilità ambientale ed economica, efficacia; trasparenza delle regole e delle procedure.
Piove, Governo sordo: 40 anni di allarmi inascoltati
Negli ultimi 60 anni gli eventi naturali a carattere disastroso sono stati ben 3.362 e sono collegabili principalmente a fenomeni come improvvise inondazioni, frane di tutti i tipi e di tutte le dimensioni, colate di fango e detriti. Con l’arrivo delle nuove piogge, al manifestarsi di nuove alluvioni ci si ritrova a ribadire stessi concetti, ad inseguire emergenze, a far la conta di danni e vittime.
Il territorio è la più grande infrastruttura, la sua salvaguardia non può più aspettare, non è possibile prescindere dall’attuazione di misure rigide e ragionate finalizzate a garantire ad ampio raggio adeguati interventi nell’ottica di un concreto cambio di rotta. Solo quando la cultura della emergenza sarà radicalmente sostituita da quella della prevenzione potremo ritenerci soddisfatti. L’abusivismo e l’illegalità sono stati tra le cause principali dello scempio del nostro territorio, con i conseguenti conteggi di danni, distruzioni e lutti.
Proprio 50 anni orsono, il 3 febbraio 1963, lo Stato italiano definì, attraverso la Legge n. 112, i criteri per esercitare la professione di geologo. Al geologo venne attribuito per la prima volta un corpus sistematico di conoscenze ed un profilo professionale specifico e soprattutto esclusivo, che a partire da quella data sono stati riconosciuti dall’ordinamento giuridico del nostro Paese.
E’ da allora che i geologi lanciano continui allarmi inascoltati. Il Consiglio nazionale dei geologi ripercorre questi 50 anni riproponendo gli interventi fatti a salvaguardia di un’Italia troppe volte flagellata dal susseguirsi di eventi distruttivi, talvolta impudicamente definiti disastri naturali.
- Contributo della geologia alla pianificazione del territorio – marzo 1971
- Costa miliardi la pioggia in Italia – marzo 1973
- La verità sul territorio – aprile 1975
- I problemi della geologia in Italia e le strutture pubbliche del settore – gennaio 1978
- Una sola Italia – luglio 1983
- Libro Bianco “Territorio-Ambiente 1987″
- I numeri del dissesto idrogeologico in Italia – ottobre 2010
- I costi del rischio del non controllo – ottobre 2010
- Manifesto dei geologi italiani per la messa in sicurezza del nostro territorio – gennaio 2013
- Anche quest’anno i geologi ci ricordano che il territorio è a rischio – agosto 2013
Oltre 5 milioni di italiani vivono in zone a rischio alluvioni
Strade invase dall’acqua, campi allagati,, smottamenti, black out.La pioggia, dopo i danni arrecati in Veneto, Liguria, Emilia Romagna, alta Toscana (in particolare le province di La Spezia, Massa e Carrara) sta imperversando nel Centro Italia. Le regioni più colpite oggi dal maltempo sono l’Umbria, la Toscana, il Lazio, minacciate da fiumi in piena e corsi d’acqua esodati.
Frane e alluvioni comportano ogni anno un bilancio pesantissimo per il nostro Paese, sia per le perdite di vite umane che per gli ingenti danni economici. A fronte di ingenti risorse stanziate per il funzionamento della macchina dei soccorsi, per l’alloggiamento e l’assistenza agli sfollati, per supportare e risarcire le attività produttive e i cittadini colpiti e per i primi interventi di urgenza, è evidente l’assoluta necessità di maggiori investimenti in termini di prevenzione, attraverso cui affermare una nuova cultura dell’impiego del suolo che metta al primo posto la sicurezza della collettività e ponga fine a usi speculativi e abusivi del territorio.
Secondo il report redatto dal Ministero dell’Ambiente nel 2008, sono ben 6.633 i comuni italiani in cui sono presenti aree a rischio idrogeologico, l’82% del totale. Una fragilità che è particolarmente elevata in regioni come Calabria, Molise, Basilicata, Umbria, Valle d’Aosta e nella Provincia Autonoma di Trento (dove il 100% dei comuni è classificato a rischio), seguite da Marche e Liguria (99%), da Lazio e Toscana (98%). Sebbene in molte regioni la percentuale di comuni interessati dal fenomeno possa essere leggermente inferiore, la dimensione del rischio è comunque preoccupante, come testimonia l’alluvione del 2010 che ha colpito una vasta area del Veneto, regione in cui si registra la percentuale più bassa di comuni interessati da fenomeni di dissesto idrogeologico (pari comunque al 56% del totale) ma in cui evidentemente l’entità del rischio, seppure in aree di estensione più concentrata in alcuni territori, è molto elevata. La superficie delle aree ad alta criticità idrogeologica si estende per 29.517 Kmq, il 9,8% dell’intero territorio nazionale, di cui 12.263 kmq (4,1% del territorio) a rischio alluvioni e 15.738 Kmq (5,2% del territorio) a rischio frana. Oltre 5 milioni di cittadini si trovino ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. I dati sono contenuti nel rapporto “Ecosistema rischio” fatto da Legambiente insieme alla Protezione Civile.
La stima del numero di cittadini quotidianamente esposti al pericolo di frane e alluvioni testimonia chiaramente come, negli ultimi decenni, l’antropizzazione delle aree a rischio sia stata eccessivamente pesante. Se osserviamo le aree vicino ai fiumi, risulta evidente l’occupazione crescente delle zone di espansione naturale dei corsi d’acqua con abitazioni, insediamenti industriali, produttivi e commerciali e attività agricole e zootecniche. L’urbanizzazione di tutte quelle aree dove il fiume in caso di piena può “allargarsi” liberamente ha rappresentato e rappresenta una delle maggiori criticità del dissesto idrogeologico italiano. Anche gli interventi di difesa idraulica continuano a seguire filosofie tanto vecchie quanto evidentemente inefficaci: in molti casi vengono realizzati argini senza un serio studio sull’impatto che possono portare a valle, vengono cementificati gli alvei e alterate le dinamiche naturali dei fiumi. Soprattutto, troppo spesso le opere di messa in sicurezza si trasformano in alibi per continuare a costruire.
In 1.121 comuni (l’85% di quelli analizzati in Ecosistema rischio 2011) sono presenti abitazioni in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana, e nel 31% dei casi in tali zone sono presenti addirittura interi quartieri. Nel 56% dei comuni campione dell’indagine in aree a rischio sono presenti fabbricati industriali che, in caso di calamità, compartano un grave pericolo oltre che per le vite dei dipendenti, per l’eventualità di sversamento di prodotti inquinanti nelle acque e nei terreni. Nel 20% dei comuni intervistati sono state costruite in aree a rischio idrogeologico strutture sensibili come scuole e ospedali, e nel 26% dei casi strutture ricettive turistiche o commerciali.
Nonostante l’urbanizzazione delle aree più fragili ed esposte a rischio nel territorio della Penisola sia molto pesante, non si nota purtroppo una seria inversione di tendenza nella gestione del territorio. Complessivamente soltanto il 4% dei comuni italiani intervistati nel rapporto, ha intrapreso azioni di delocalizzazione di abitazioni dalle aree esposte a maggiore pericolo e appena nel 2% dei casi si è provveduto a delocalizzare insediamenti o fabbricati industriali.
Le problematiche connesse al rischio idrogeologico non coinvolgono solo i piccoli e medi comuni, ma anche le grandi città e le metropoli. Infatti, tra i capoluoghi di regione e delle due Province autonome, 18 sono considerati a rischio idrogeologico dallo studio del Ministero dell’Ambiente e dell’UPI del 2003 (tutti tranne Venezia, Trieste e Bari).
Questo è il tragico quadro. Una politica di prevenzione è l’unica arma per evitare tragedie. Tutte cose ovvie ma che vengono ricordate solo dopo. Per Simone Andreotti, responsabile Protezione civile di Legambiente, è necessario “cominciare a mettere un freno alla cementificazione” mentre “sulle delocalizzazioni siamo fermi ancora al palo”.
Come riparare l’Italia. Rilanciare l’economia e salvare il territorio con la Blue Economy. Dal dopoguerra spendiamo 5 miliardi di euro all’anno solo per risarcire e riparare i danni dei disastri naturali (alluvioni, frane, terremoti, incendi) e siamo il Paese con più rischi e meno prevenzione del mondo. Il dissesto idrogeologico interessa 6.633 comuni, l’82% del totale, con aree edificate che rischiano di smottare o finire sott’acqua, e negli ultimi tre anni sono triplicati gli eventi estremi e i disastri, dalle Cinque Terre alla Sicilia, in assenza di politiche per la sicurezza che non vanno oltre gli annunci. Eppure si può invertire la rotta, e questo libro ci spiega come. Lanciando la Blue Economy per difenderci dagli effetti dei cambiamenti climatici e prevenire il dissesto, mettere al sicuro ambiente e ciclo dell’acqua.