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Il Viagra masticabile

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Il nuovo farmaco contro la disfunzione erettile sarà contenuto in un chewing gum che costera’ il 60% in meno rispetto alla versione tradizionale, disponibile in confezioni da 4 0 8 compresse, di 50 e 100 milligrammi ciascuna.

Il disturbo colpisce il 13% degli italiani, con una quota del 2% tra i giovani compresi tra i 18 e i 34 anni; fino a toccare il 48% degli over 70 anni. La versione masticabile del Viagra, presentata a Milano nel convegno intitolato ‘La seconda vita di Sildenafil’, e’ prodotta da Doc Generici, un’azienda italiana con ricavi pari a 150 milioni di euro. La novita’ arriva dopo che nel giugno scorso, alla scadenza del brevetto sul Viagra, Doc Generici aveva imposto il prezzo piu’ competitivo del farmaco equivalente Sildenafil (prodotto in compresse deglutibili) con uno sconto compreso tra il 60 e il 70%. A livello mondiale il mercato dei farmaci contro la disfunzione erettile vale circa 5,5 miliardi di dollari, con l’Europa che rappresenta il 25% del totale. L’Italia, che ha un record di 60 milioni di compresse vendute in 10 anni, e’ il secondo mercato continentale dopo il Regno Unito, e precede la Germania. Sono numerosi i fattori fisici e psicologici in grado di alterare il meccanismo dell’erezione, tra questi l’eta’, il fumo, l’abuso di alcol e droghe, l’obesita’. Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di disfunzione erettile e, se a questa si sommano i pazienti con diabete mellito, risulta che il 75% dei pazienti con disfunzione erettile sono affetti da queste patologie. Francesco Montorsi, ordinario di urologia all’Universita’ Vita e Salute San Raffaele, spiega che il Viagra masticabile “soddisfa i bisogni dei pazienti che soffrono di disfunzione erettile sia per quanto riguarda la modalita’ di assunzione (che tiene conto della componente psicologica ancora presente in questo tipo di disturbo) sia per la riduzione del prezzo, a parita’ di qualita’ ed efficacia”. Secondo Alberto Margonato, professore di cardiologia all’Universita’ Vita e Salute del San Raffaele, “i pazienti con problemi di erezione sono ancora molto restii a parlare del disturbo con il medico”, mentre “rivolgersi a un medico per la soluzione del problema e’ molto importante perche’ permette di seguire un trattamento senza andare incontro a nessun rischio”. L’amministratore delegato di Doc Generici, Gualtiero Pasquarelli, ha spiegato che “la nostra politica ha un duplice merito: rendere piu’ accessibile il farmaco favorendo chi ne ha realmente bisogno (anziani, diabetici, cardiopatici) e riportare il business in farmacia arginando il mercato illegale e l’acquisto online”.

(Sanita’ News  17 ottobre 2013)

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Italiani e farmaci: Ogni anno spendiamo 430 euro per 30 medicinali

farmaci-Italia

Presentato nei giorni scorsi  il Rapporto su “L’uso dei farmaci in Italia” realizzato dall’Agenzia nazionale del Farmaco (Aifa). Complessivamente in Italia sono state consumate, nel corso del 2012, 1.627 dosi di medicinali al giorno ogni 1.000 abitanti (ovvero, considerando anche i consumi in ospedale, in media ogni cittadino italiano, includendo anche i bambini, assume ogni giorno 1,6 dosi di farmaco), il 71% delle quali è stato erogato a carico del Servizio Sanitario Nazionale, mentre il restante 29% è relativo a dosi di medicinali acquistati direttamente dal cittadino. Nel 2012 la spesa farmaceutica totale, pubblica e privata, è stata in Italia pari a 25,5 miliardi di euro (nel 2011 era stata di 26,3 miliardi), di cui il 76% è stata rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale. In media, per ogni cittadino italiano, la spesa per farmaci è stata di circa 430 euro (434 nel 2011).

Nel 2012 ogni italiano ha acquistato in media 30 confezioni di medicinali attraverso le farmacie pubbliche e private, per un totale di oltre 1,8 miliardi di confezioni (in riduzione rispetto all’anno precedente del -0,4%). La spesa farmaceutica totale, pubblica e privata, è stata pari a 25,5 miliardi di euro, il 76% dei quali è stato rimborsato dal SSN. In media, per ogni cittadino italiano, la spesa per farmaci è stata di circa 430 euro. Le dosi giornaliere totali prescritte ogni mille abitanti nel 2012 sono state 1.626,8. La spesa farmaceutica territoriale complessiva, sia pubblica che privata, si è ridotta rispetto all’anno precedente del -5,6% ed è stata pari a 19.389 milioni di euro. Le dosi giornaliere prescritte ogni mille abitanti a carico del Servizio Sanitario Nazionale in regime di assistenza convenzionata sono state 985 (in aumento rispetto all’anno precedente del 2,3%), corrispondenti ad oltre 1 miliardo di confezioni dispensate (18,4 confezioni pro capite), con un incremento del +0,6% rispetto al 2011. Nel complesso della popolazione, la prevalenza d’uso è stata pari al 61%, con i più alti livelli nella popolazione pediatrica e nella popolazione anziana: il 50% dei bambini e oltre il 90% della popolazione anziana con età superiore ai 75 anni ha ricevuto almeno una prescrizione durante l’anno. Un anziano (con età superiore ai 74 anni) presenta consumi e spesa rispettivamente 22 e 8 volte superiori a quelli di un paziente con età compresa tra i 25 e i 34 anni. Emergono elevati livelli di inappropriatezza nell’uso di antibiotici nella popolazione anziana: il 56% dei pazienti di età compresa tra i 66 e i 75 anni con diagnosi di influenza è stato trattato con antibiotici rispetto al 24% dei pazienti con età inferiore ai 45 anni. I farmaci cardiovascolari rimangono al primo posto in termini di consumo (516 DDD/1000 ab die.) e di spesa farmaceutica totale sia pubblica che privata (4.350 milioni di euro). Al secondo posto per consumo (e per spesa) si collocano i farmaci dell’apparato gastrointestinale e metabolismo (242,2 DDD ogni 1.000 abitanti die), seguiti dai farmaci del sangue e organi emopoietici (218 DDD ogni 1.000 abitanti die), dai farmaci per il Sistema Nervoso Centrale (161 DDD ogni 1.000 abitanti die) e dai farmaci dell’apparato respiratorio (95 DDD ogni 1.000 abitanti die). I farmaci antineoplastici e immunomodulatori rappresentano la terza categoria terapeutica in termini di spesa farmaceutica complessiva (3.323 milioni di euro) e la dodicesima categoria in termini di consumi, pari a 13,5 DDD ogni 1.000 abitanti die. La prescrizione di farmaci a brevetto scaduto ha rappresentato nel 2012 il 62,1% delle dosi e il 37,7% della spesa netta, di cui il 13,4% è stato costituito dai farmaci equivalenti. Sia i consumi che la spesa dei farmaci a brevetto scaduto sono in aumento a confronto con il 2011, rispettivamente del 10,6% e del 6,4%. Nel confronto internazionale, l’Italia si colloca al terzo posto, dopo Grecia e Irlanda, in termini di spesa per farmaci che hanno goduto della copertura brevettuale; invece Inghilterra, Germania e Francia sono i Paesi con le più alte incidenze di spesa per farmaci equivalenti. In Italia si registra ancora un impiego limitato dei farmaci biosimilari che, al contrario, consentirebbero di guadagnare rilevanti risparmi in termini di spesa. Nell’ultimo anno hanno perso la copertura brevettuale alcune molecole ad elevato impatto sulla spesa: atorvastatina, irbesartan sia come monocomposto sia in associazione, candesartan, rabeprazolo, donezepil e la quetiapina. Nel 2012 lansoprazolo, pantoprazolo e omeprazolo continuano a rappresentare i primi principi attivi a brevetto scaduto in termini di spesa. Sono stati registrati nell’anno 2012 rilevanti incrementi nell’utilizzo di farmaci biosimilari, soprattutto per i biosimilari dell’epoetina alfa e del filgrastim.

La spesa territoriale pubblica, comprensiva della spesa dei farmaci erogati in regime di assistenza convenzionata e della spesa per i farmaci erogati in distribuzione diretta e per conto di classe A, è stata di 11.823 milioni di euro (il 61% della spesa farmaceutica territoriale) e ha registrato, rispetto all’anno precedente, una riduzione del -8%, principalmente determinata da una diminuzione della spesa farmaceutica convenzionata netta (-10,3%), mentre rimane stabile la spesa per i farmaci in distribuzione diretta e per conto (+0,2%). La spesa a carico dei cittadini [composta dalla spesa per compartecipazione da parte del cittadino (ticket regionali e differenza tra il prezzo del medicinale a brevetto scaduto consegnato al cittadino e il corrispondente prezzo di riferimento), dalla spesa per i medicinali di fascia A acquistati privatamente e da quella per farmaci di classe C] è stata di 7.566 milioni di euro, in riduzione del -1,5% rispetto al 2011. Ad influire maggiormente su questa flessione è stato il decremento della spesa a carico dei cittadini per l’acquisto di medicinali di classe C con ricetta medica (-6,5%), in parte compensato dall’incremento della spesa relativa alla compartecipazione a carico del cittadino (+5,2% rispetto al 2011), dall’incremento dell’acquisto privato di medicinali di fascia A (+0,6%) e dall’incremento della spesa per medicinali di automedicazione (+0,7%). La spesa per i farmaci acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche è risultata pari a 7,9 miliardi di euro (132,9 euro pro capite), con un incremento rispetto al 2011 del 12,6%.

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Sui farmaci equivalenti serve un’informazione chiara e trasparente

I farmaci equivalenti sono una svolta epocale e molto importante per tutti noi. Nel nostro Paese, solo il 15% dei farmaci venduti e’ generico o equivalente, contro una media europea del 50% e con punte eclatanti quali l’83% dell’Inghilterra. La causa di un tale divario e’ dovuta ad una coalizione disinformativa molto forte nel nostro Paese e funzionale agli interessi delle multinazionali del farmaco. Sono gravissimi i danni subiti dalle famiglie e dal Sistema Sanitario Nazionale: stimabili, secondo i calcoli dell’O.N.F. – Osservatorio Nazionale Federconsumatori, nel decennio trascorso, in 5,4 miliardi di Euro. Risorse che avrebbero potuto, ad esempio, essere utilizzate per diminuire i tempi di attesa per gli esami specialistici, grave piaga della sanità nel nostro Paese. Per fare ulteriore chiarezza, equivalente.it, ha intervistato il dottor Giorgio Foresti, presidente di Assogenerici (Associazione Nazionale Industrie Farmaci Generici).

Dottor Foresti, si fa un gran parlare della nuova norma, i giornali riportano affermazioni e opinioni assai diverse tra loro. Qual è lo stato delle cose?

La novità riguarda solo i farmaci rimborsabili con un risparmio a tutto vantaggio di Stato e cittadini; a tal proposito si sta facendo un po’ di confusione, ma ciò non mi stupisce. Così come non mi sorprendono le affermazioni veicolate da alcuni mezzi d’informazione riguardo la presunta “marcia indietro” del Governo, dietrofront che non c’è assolutamente stato. Il provvedimento è passato come doveva, fissando nella data del 31 luglio un giorno epocale per l’Italia: è finito il monopolio del farmaco di marca e con la spending review si apre finalmente agli equivalenti generici, come già accade nel resto d’Europa e in Nordamerica. È giusto sapere che in Italia a un nuovo prodotto immesso sul mercato ne corrispondevano in media altri quattro con nome di fantasia, “etichette” frutto di operazioni di comarketing fra scopritore e altre aziende in prevalenza italiane che, attraverso l’attività di informazione medico scientifica, ne affermavano il marchio presso la classe medica. Un modello chiuso che rendeva difficilmente sostituibili tra loro i medesimi medicinali etichettati, appunto, con nomi e confezioni diverse. È questo il sistema che ha favorito la grande affezione al farmaco “madre” e la conseguente difficoltà di far utilizzare il relativo equivalente generico alla scadenza del brevetto, un medicinale bioequivalente il cui nome è quello del principio attivo; è il principio attivo a curare, non la marca.
Oggi, con la nuova normativa, la situazione è radicalmente cambiata.

Approfondiamo: qual era questo meccanismo per cui negli anni passati il farmaco generico ha potuto prendere piede in tutto il mondo mentre in Italia no?

L’esempio delle quattro scatolette è solo una fra le tante ragioni. Un’altra è certamente che la classe medica non ha mai sposato la politica del farmaco generico, continuando a prescrivere il farmaco originator (la specialità di marca) e asserendo che con la politica del prezzo di riferimento, lo Stato, attraverso il Servizio sanitario nazionale, rimborsa il farmaco a prezzo più basso, non cambia nulla. Quando il medico prescrive un medicinale, per il cittadino è indifferente che abbia un nome di fantasia o quello del principio attivo. Però: se il dottore scrive sulla ricetta il nome commerciale, per esempio Aspirina, e il farmacista propone l’acido acetilsalicilico, quindi l’equivalente generico con il nome del principio attivo, certi pazienti obiettano, non comprendendo che non vi è differenza se non di prezzo. Così facendo si accollano, più o meno consapevolmente, la differenza di prezzo rispetto a quanto già rimborsato dal Servizio Sanitario. D’altronde il rapporto di fiducia fra medico e paziente è solitamente tale per cui quest’ultimo ne segue scrupolosamente l’indicazione, spesso in barba al suggerimento del farmacista, intento a far risparmiare il cliente. Ritengo quindi che sia proprio questo il grande scoglio da superare per ovviare alla difficoltà di penetrazione del farmaco generico nel nostro mercato. Ho sempre sostenuto che il detentore della prescrizione, giustamente, è il medico, quindi concordo con Giacomo Milillo, segretario dell’associazione di medicina generale Fimmg, quando si inalbera se si mette in discussione questo diritto/dovere dei medici. Ho altresì sempre sostenuto che questa empasse si sarebbe potuta risolvere in breve tempo se proprio i medici avessero cominciato a prescrivere l’equivalente invece di delegare al farmacista la sostituzione.
È per questo che sono contentissimo di questa norma, anche se non credo sarà immediata nello sconvolgere il mercato, perché ora i medici devono nominare il principio attivo così, quando il paziente si reca in farmacia con una prescrizione, ad esempio per l’omeprazolo, riceverà una confezione con scritto “omeprazolo”, annullando definitivamente ogni differenza tra quanto prescritto dal medico e quanto consegnato dal farmacista.

Infatti in tutto questo scenario che lei ha dipinto sembrerebbe quasi che fino a oggi il cittadino abbia avuto un ruolo passivo. Cioè ci si è sempre concentrati sul medico, sul farmacista, sulle norme che devono regolare la prescrizione, ma sembrerebbe quasi che nessuno si sia mai preso la briga di informare ed educare il cittadino perché nessuno lo ha mai considerato come un elemento importante nella catena di scelta del generico.

Questo aspetto mi rende drastico: in questi miei quattro anni di presidenza Assogenerici ne ho sentite dire molte al mio indirizzo. Anche da medici che domandavano un maggiore impegno in termini di comunicazione, di sollecitazione del Ministero affinché promuovesse campagne d’informazione. Spetta al medico informare il paziente, proprio per quel rapporto di fiducia che si instaura con chi mette nelle tue mani la propria salute. Chiunque in caso di problemi di salute si rivolge in primis al medico, solo in seconda battuta, generalmente se insoddisfatto, si affida a televisione, giornali, internet.

O, in alternativa, anche dal farmacista.

Per rispondere ci vuole un piccolo esempio, altrimenti su queste cose si tende a far confusione. In Italia abbiamo 47.000 medici di base: volendo ipotizzare che ciascuno di loro visiti nella settima lavorativa (5 giorni) almeno 10 pazienti al giorno, otterremo mezzo milione di contatti quotidiani che, moltiplicati per 10 giorni, diventano 5 milioni. Un bel numero, a dimostrazione ulteriore che la comunicazione più capillare passa attraverso il medico, che è lui che deve spiegare al cittadino l’equivalenza dei generici rispetto ai farmaci già conosciuti e assunti, oltre al vantaggio per lo Stato offerto dal risparmio al Sistema sanitario nazionale da un maggior volume di vendita. Senza dimenticare che questo risparmio si traduce in maggiori investimenti in ambito delle cure innovative. A mio parere è in definitiva questa la formula migliore per comunicare. Rapida e diretta, carica dell’autorevolezza della parola del medico. Una persona di fiducia.
Ammetto che proprio su questo punto ho sempre incontrato l’intesa con la categoria dei medici di medicina generale, anche se devo constatare che nei fatti la reazione è stata opposta e si è teso a osteggiare il generico. Il perché si può cercare nella pretesa della categoria che le aziende farmaceutiche di equivalenti si comportassero come quelle di marca, che avessero strutture di 150/200 informatori medico scientifici pronti tutti i giorni a visitarli per parlar loro del farmaco generico, per fare informazione scientifica, a dar loro un supporto – come è stato fatto per tanti anni da parte del farmaco brand – per il loro aggiornamento, per la loro formazione, per iniziative che le aziende di farmaco generico non hanno minimamente la possibilità economica di fare. Perché? Prendiamo l’esempio della torvastatina. Il giorno dopo che ne è scaduto il brevetto il prezzo è sceso del 73% rispetto all’originale. Quindi: come può un’azienda con il 27% di margine mantenere le medesime attività? È semplicemente impossibile.

Ci sarebbe anche da chiedersi qual è l’utilità dell’informatore medico scientifico su farmaci che ormai da 20 anni sono in commercio e che peraltro sono identici a quelli su cui è stata fatta informazione.

Esatto. E su questo io mi sono sempre impuntato. Secondo me ancora una volta spetta al medico, per il semplice fatto che un libero professionista – che però opera in stato di convenzione a remunerazione fissa e garantita dal SSN – deve sentire il dovere di far risparmiare il più possibile lo Stato che, fra l’altro, gli potrà continuare a pagare lo stipendio anche nei prossimi “duri anni”. Prescrivendo il generico e garantendo l’inalterato servizio e lo stesso risultato offerto ai pazienti cui prescriveva il brand. Una soluzione molto semplice.

Lei diceva che questa norma si tradurrà in un concreto risparmio per il Sistema Sanitario Nazionale.

Farmindustria ha sempre sostenuto che con questa norma non cambierà niente per il Sistema Sanitario e che a guadagnare sarà solo l’industria dei farmaci generici. Anziché rispondere direttamente, meglio spiegare come funziona il sistema in modo che chiunque possa comprendere meglio. Normalmente, in tutti i Paesi “normali”, non c’è un sistema sanitario come in Italia che rimborsa il 100% del medicinale. Le dinamiche commerciali in tutti i Paesi europei e negli Stati Uniti mettono in concorrenza le aziende di farmaco generico tra di loro, generando una discesa dei prezzi che magari non è così alta come all’inizio è per il SSN italiano. Nel nostro caso, infatti, il primo giorno il prezzo può scendere per esempio del 70%, per poi rimanere invariato senza diminuire ulteriormente. In altri Paesi la prima riduzione è magari pari al 50%, e prosegue gradualmente per altri 5 o 6 anni. Ciò accade perché all’estero il prezzo è determinato dalla concorrenza fra genericisti che, aumentando quote e volumi, possono ritoccare al ribasso i prezzi secondo la dinamica di mercato: più produci, più pezzi vendi, più hai margini per diminuire il prezzo al dettaglio. Almeno finché si raggiunge il cosiddetto floor price, ovvero il prezzo limite sotto cui non si può più scendere senza pregiudicare qualità e approvvigionamenti del prodotto stesso. È quindi il prezzo minimo sotto il quale le grandi aziende, che devono rispettare regole precise sulla qualità e sicurezza del prodotto, non possono scendere. In Italia invece il SSN rimborsa il prezzo più basso del prodotto in commercio da 1 giorno dopo la scadenza del brevetto, indifferentemente che sia Brand o Generico, lasciando al cittadino l’onere di pagare la differenza nel caso in cui il prodotto da lui scelto costi di più.
Il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi sostiene che il sistema non deve impedire a chiunque sia disposto a pagare la differenza per un marchio di poterlo fare. Concordo, ma ricordo che se non si innesca una sana concorrenza all’interno del mercato del farmaco generico, i prezzi non possono scendere. In Italia gli equivalenti non hanno accesso ai grandi volumi perché gli originator, mantenendo un differenziale di prezzo minimo, continuano a mantenere la propria quota di mercato, e ovviamente loro non hanno nessun interesse a far diminuire il prezzo. Oltretutto la legge è anche mal impostata: se un’azienda decide di abbassare il prezzo di un medicinale, gli altri player si allineano all’istante. Questo sì determina un risparmio per il SSN, ma non porta nessun beneficio a chi lo determina. Un produttore genericista quindi non ha vantaggi a far diminuire i prezzi perché alla sua diminuzione dei prezzi non corrisponde a un reale aumento di volumi di vendita.
Attualmente la quota di mercato dei generici in Italia è ferma al 15%, mentre – va ricordato – raggiunge una media del 55% in Europa con punte dell’85 % in Inghilterra. Con la nuova norma, inevitabilmente i nostri volumi aumenteranno e quindi i farmaci “brand” saranno costretti, trascorsi i 9 mesi dalla scadenza del brevetto durante i quali non è consentito loro modificare il prezzo entro un certo limite, ad allineare il prezzo a quello degli equivalenti per non perdere ulteriori quote di mercato. Così il prezzo comincerà nuovamente a scendere per un meccanismo, se vogliamo, estremamente banale, ma efficace.

Secondo lei, questa norma che tipo di incrementi di volumi potrebbe portare e in quanto tempo?

L’incognita è grande, perché sono certo che la resistenza della classe medica pur di indicare un nome commerciale sarà vigorosa. Vedremo fioccare le spiegazioni più disparate, sono curioso di leggere quali motivazioni i medici useranno per mettere la crocetta sulla “non sostituibilità”. Forse vedremo sparire di colpo i cronici e aumentare drammaticamente gli acuti, non so, ma sono molto indeciso a riguardo perché in Italia gli escamotage per aggirare le leggi sono comunemente assai fantasiosi. Aspetto di vedere, ma sicuramente ci sarà un incremento dei volumi e più sarà rapido e importante, più sarà inevitabile che l’originator si allinei al prezzo del generico. Sarà quello il momento in cui i prezzi ricominceranno a scendere.
Inoltre non va dimenticato il risparmio che potranno avere i cittadini (circa 800 milioni di euro) che finalmente, ricevendo la stessa prescrizione fatta dal proprio medico, smetteranno di chiedere il brand risparmiando anche direttamente di tasca propria.

Si aspetta altri provvedimenti governativi a breve o pensa che questa sia una mossa “finale” del Governo?

Secondo me è la mossa iniziale, anzi, me lo auguro. C’è da rivedere il sistema della remunerazione della farmacia nei prossimi 3 mesi e quindi su quello ci sarà da discutere. È cambiato il mondo, non è un modo di dire, e ora è il caso di cominciare a discutere su come vogliamo sostenere concretamente il nostro Paese. Credo che abbia ragione il professor Balduzzi quando afferma che non si può più continuare a pensare di dare tutto a tutti, ma è necessario incominciare a pensare quali sono quei prodotti che al SSN costano di più e di quanto costano al paziente, perché credo che facendo un conto di spesa reale sostenuta dal servizio sanitario per la dispensazione di un determinato prodotto – tra costo del medico, costo del farmacista, oneri e ticket – e poi andiamo a vedere il valore della confezione – magari 1,50 euro – l’intera filiera sarà costata molto di più allo Stato di quanto al cittadino che abbia pagato direttamente l’euro e cinquanta di medicina. Si tratta di considerazioni all’esame in Europa e nei Paesi dove si affrontano le nostre stesse problematiche. Non vedo quindi perché la sola Italia dovrebbe pretendere di rimanere immobile. I farmacisti ci hanno impiegato un po’ a capire che il sistema della remunerazione solo a percentuale poteva diventare un problema, forse lo hanno scoperto un po’ tardi. Credo sia oggi il momento, prima che sia tardi per tutti, di provare a ridiscutere del sistema nel suo insieme e non solo della remunerazione della farmacia.

Anche perché, in tutti questi discorsi, alla fine quello che è sempre un po’ fuori e marginale continua a essere il cittadino.

Premesso che quando si parla di farmaci si parla di argomenti seri, che incidono sulla salute e che il cittadino, pur essendo il protagonista al centro della scena, deve necessariamente affidarsi agli esperti della materia, di tutti questi problemi che abbiamo in Italia nel resto del mondo non c’è traccia. All’estero si va dal medico o dal farmacista, questi danno un medicinale, il paziente l’assume. Non si crea il problema se è buono o non è buono. È una questione tutta nostra, locale, dovuta ai medici che per anni hanno detto che il generico non è buono, generando una sorta di dottrina, di controinformazione che pretende che gli equivalenti sono fatti da chi produce senza qualità. In questi giorni i mezzi d’informazione ripropongono questa idiozia: c’è un organo regolatorio che è l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) che garantisce la qualità del farmaco generico, c’è l’Istituto Superiore di Sanità che effettua costantemente i controlli che deve fare. I ritiri di prodotto di farmaco generico in Italia, nonostante i 300 milioni di confezioni vendute, sono più bassi di quelli che coinvolgono i farmaci di marca. In Europa la prima azienda per confezioni vendute è un’azienda di farmaci generici, e non è che in Italia questa azienda commercializzi prodotti diversi da quelli venduti in Germania e nelle altre nazioni.

A proposito dell’Europa, Massimo Magi, segretario della FIMMG Marche, dice in chiusura di un discorso sulla bontà o meno dei generici: “Paesi come la Germania, che usano largamente i farmaci generici, possono permetterselo perché hanno una regolamentazione molto più chiara con liste predefinite di farmaci nelle quali scegliere quello più idoneo.”

Non è assolutamente vero. Tutti citano il famoso Orangebook o Whitebook, ma c’è l’Aifa che stila la lista di trasparenza che è l’equivalente dell’Orangebook. Il medico deve semplicemente scrivere il principio attivo che vuole dare, se vuole dare un generico decide di chi è l’azienda di cui vuol dare il generico e ha risolto il problema, nessuno glielo cambierà e lui è garantito e sicuro che quello che scrive verrà consegnato.
Se invece si vuole rivedere la lista di trasparenza e riscrivere qualcosa di diverso, garantisco che non saremo certo noi genericisti a opporci, anzi.

Un’ultima considerazione per chiudere con una nota “originale” arrivata da Paolo Zona, Presidente di Federcongressi ed Eventi, che ha dichiarato che anche il settore turistico potrebbe entrare in crisi a causa di questa norma.

Davvero interessante argomento che merita due considerazioni di fondo.

Se si ritiene che questo provvedimento possa ridurre gli investimenti delle Aziende Farmaceutiche in Italia e questo possa essere un problema per il turismo, credo che il problema vada sottoposto al Ministro Passera che deve definire quanto strategico sia il settore Farmaceutico come industria e come indotto economico e in che modo debba essere sostenuto. Se invece Zona ritiene che sia compito del Ministro Balduzzi doversi preoccupare anche dei risvolti che le sue scelte di sostegno al SSN possono avere sul turismo, devo dire che siamo realmente un Paese “unico”.

La mafia della sanità. Come liberarsi dall’industria farmaceutica e diventare sovrani della propria salute. I giochi di potere, gli enormi interessi economici dell’industria farmaceutica, in cui i reali bisogni del malato non trovano spazio, vengono analizzati con estrema lucidità e vengono fornite anche le motivazioni per le quali il mondo sanitario è caratterizzato da costi eccessivi, dall’impossibilità di controllo da parte degli utenti e da un numero di patologie in continuo aumento.

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Le multinazionali del fumo tremano

Pictorials warning - Food and Drug Administration

 

La posta in palio e’ alta: il futuro del mercato mondiale del tabacco. All’orizzonte si profila un altro pesante giro di vite per le aziende produttrici di sigarette e, a cascata, per il loro enorme indotto. La scacchiera sulla quale si sta disputando e’ globale: Unione europea, Stati Uniti e Australia per cominciare. Le parole chiave sono inglesi: il “plain packaging”, innanzitutto, una sorta di pacchetto generico, indifferenziato. Dalle confezioni, cioè, potrebbero sparire brand, marchi e loghi accattivanti, per finire avvolte in una rigida uniformità cromatica, mentre in bella evidenza impressionanti “pictorials warning” a colori avvertirebbero i fumatori delle future inevitabili conseguenze. Un esempio di quanto potrebbe concretizzarsi arriva dall’agenzia federale americana Food and Drug Administration: sotto l’immagine che ritrae un corpo senza vita disteso sul tavolo di un obitorio c’è una scritta bianca in campo nero che avverte “Smoking can kill you”, oppure c’è quella che mostra una dentatura tutt’altro che hollywoodiana con il classico “Cigarettes cause cancer”, e poi quella in cui compare un viso attaccato a una maschera d’ossigeno o quell’altra in cui un uomo sputa fumo da una gola fresca di tracheotomia. Insomma, una guerra giocata sull’onda dell’emotività. Ma non solo, perché la Commissione Ue sta studiando, oltre a una forma di “plain packaging”, anche una serie di divieti: il cosiddetto “ingrediente ban”, lo stop all’utilizzo degli additivi che abitualmente le aziende mischiano al tabacco per addolcirne il sapore, arricchirne l’appel e, in qualche modo, incentivare la fedeltà (o la dipendenza) dei consumatori: dal mentolo al cacao, dalla vaniglia allo sciroppo di ciliegia o di acero. Ma anche mercurio e ammoniaca. “Sono oltre 600 le sostanze che le industrie usano per personalizzare il loro prodotto”, sottolinea Biagio Tinghino, presidente della Società italiana di tabaccologia. Sostanze, in alcuni casi, apparentemente innocue, ma che per effetto della combustione possono non esserlo più. “In particolare, c’è il sospetto che alcuni ingredienti siano in grado di facilitare il metabolismo e l’assorbimento della nicotina da parte del cervello”, spiega Tinghino.

Allo studio della Commissione europea c’è, infine, il “display ban”: le sigarette, praticamente, sparirebbero dagli scaffali dei rivenditori. “Sono misure che determinerebbero uno svilimento del prodotto, quindi del suo valore”, attaccano dalla British American Tobacco. Così, le grandi multinazionali che si spartiscono la torta, dalla Philip Morris alla British American Tobacco, dalla Japan Tobacco alla Imperial Tobacco (che da sole controllano il 90% del mercato europeo), alla Reynolds American, si stanno giocando il tutto per tutto per fermare l’ultima offensiva anti smoking.

I numeri in ballo sono enormi. Il business delle bionde, soltanto in Italia, muove ogni anno qualche cosa come una ventina di miliardi di euro, con oltre 200 mila occupati nell’intera filiera, dalla coltivazione ai punti vendita. Un giro di affari che in Europa arriva a superare i 136 miliardi, contro un costo sociale annuo che, secondo la Commissione europea, sfiora i 550 miliardi. E’ abbastanza, dicono a Bruxelles, per intervenire. E con la mano pesante, se il 35% dei giovani tra i 15 e i 24 anni vive ancora la schiavitù della dipendenza da nicotina e l’80% di chi comincia a fumare lo fa prima dei 18 anni.

Dopo l’Australia, anche il Regno Unito si e’ mosso. Il ministro della Sanità britannico, Andrew Lansley, ha annunciato che Londra vuole andare verso il plain packaging e i toni non sembrano affatto concilianti: “Non cerchiamo la collaborazione delle compagnie del tabacco. Vogliamo che in questo Paese non facciano più affari”.

(Fonte IL MONDO)


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