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Ogni ora due aziende falliscono

aziende fallite 2014

Due aziende fallite all’ora, 62 al giorno per un totale di 15.605 fallimenti nel 2014. Un numero in crescita del 9% rispetto al 2013 e del 66% rispetto al 2009. Uno stillicidio infinito. Secondo i dati di Cribis D&B, società del gruppo Crif specializzata in business information, il picco è stato toccato nell’ultimo quadrimestre dello scorso anno, con 4.502 imprese fallite: è il dato più alto dal 2009. In sei anni sono complessivamente 75.175 le imprese chiuse.  Segno che la crisi che attanaglia il paese è ben lungi dall’essere risolta. I numeri valgono più delle parole e delle promesse.

La Lombardia si conferma la regione d’Italia in cui si registra il maggior numero di fallimenti, con 3.379 casi, pari al 22,1% del totale nazionale. Dal 2009 ad oggi solamente in questa regione si contano 16.578 imprese ad aver portato i libri in tribunale. La seconda regione più colpita è il Lazio, con 1.721 imprese chiuse nel 2014 (incidenza sul totale nazionale del 10,5%), la terza la Campania con 1.315 fallimenti (incidenza dell’8,7%). Nelle prime dieci posizioni, seguono Veneto con 1.313 casi, Toscana con 1.205, Piemonte con 1.175, Emilia Romagna con 1.124, Sicilia con 894, Puglia con 762 e Marche con 580.

Nella lunga lista delle aziende fallite, accanto a quelle che costruiscono nuovi edifici (1.899 solo nel 2014) o installazioni (1.309) o commerciano all’ingrosso beni durevoli (1.197), ci sono anche bar e ristoranti (720), trasporti, abbigliamento, alimentari, produzioni di macchine industriali e computer. Di fronte a questi numeri è veramente difficile ipotizzare una ripresa nel breve periodo.

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Dall’inizio dell’anno chiuse 45mila imprese, 7mila per fallimento

chiuso-per-fallimento

La recessione continua a mietere vittime tra le imprese: con le 22 mila aziende che nel secondo trimestre del 2013 hanno avviato una procedura di insolvenza o una liquidazione volontaria (+9,9% sullo stesso periodo del 2012), sale a 45 mila il totale delle chiusure di impresa nella prima metà dell’anno, in aumento del 9,3% rispetto al dato già elevato del 2012.

Nei primi sei mesi del 2013 la crisi non ha risparmiato alcun settore economico: le chiusure aziendali sono aumentate con tassi a due cifre rispetto allo stesso periodo dello scorso anno in tutta l’economia. L’edilizia rimane il comparto con la maggiore incidenza del fenomeno: l’exit ratio (rapporto tra il numero di chiusure di società di capitale al netto delle ‘scatole vuote’ e il numero di società operative con attivo patrimoniale maggiore di zero) si è attestato al 3% tra le imprese che operano nelle costruzioni, contro percentuali del 2,8% nell’industria e del 2,6% nei servizi. Anche dal punto di vista geografico, l’aumento di insolvenze e liquidazioni volontarie ha avuto un carattere pervasivo: le chiusure sono risultate in aumento nei primi sei mesi dell’anno in tutta la Penisola, con la sola eccezione della Valle d’Aosta. Nel Nord del Paese procedure e liquidazioni sono aumentate a ritmi dell’11%, nel Mezzogiorno e nelle Isole dell’8,4%, mentre nel Centro Italia del 6,7%. Nel periodo tra aprile e giugno sono aumentate tutte le procedure di chiusura, anche se con diverse dinamiche.

I fallimenti hanno fatto registrare nuovi record negativi: con gli oltre 3.600 casi del secondo trimestre (+10,7% sull’anno precedente e il massimo del periodo in oltre un decennio), il totale delle procedure aperte nella prima metà dell’anno ha superato abbondantemente quota 7 mila (record del decennio), in aumento del 12,3% rispetto al 2012. È proseguita anche la maggiore tendenza da parte degli imprenditori a chiudere volontariamente le proprie attività: si contano 17 mila liquidazioni volontarie tra aprile e giugno (+8,8%), per un totale di 36 mila pratiche avviate nella prima metà dell’anno (+8%). Diversamente dagli anni precedenti, in cui la crescita dei fallimenti riguardava quasi esclusivamente le società di capitale, nella prima parte del 2013 i default sono aumentati con tassi a due cifre in tutte le forme giuridiche: +12,2% nel caso delle società di capitale, +12,4% per le società di persone e +13,1% tra le altre forme giuridiche. L’accelerazione dei fallimenti non ha risparmiato nessuna area del Paese: il fenomeno è cresciuto con tassi del 19,5% nel Nord Est, area che aveva beneficiato di un miglioramento tra la prima metà del 2012 e del 2011, dell’11,2% nel Centro e del 10,6% nel Nord Ovest e nel Mezzogiorno. Anche dal punto di vista settoriale, il fenomeno è cresciuto ovunque con tassi a due cifre: +13,3% nei servizi, +11,3% nell’edilizia e +10% nella manifattura, che ha invertito il trend positivo dell’anno precedente.

Tra le chiusure, l’incremento più consistente ha riguardato le procedure di insolvenza diverse dai fallimenti: sono aumentate a ritmi del 34% nel secondo trimestre e del 31% nel primo semestre del 2013. All’origine vi è l’introduzione del cd concordato in bianco, che consente alle imprese di presentare una domanda priva del piano di risanamento e di bloccare le azioni esecutive dei creditori fino al termine stabilito dal giudice per la presentazione del piano. Secondo le stime di Cerved Group sono state presentate oltre 1.200 istanze nel secondo trimestre, che hanno portato a 2.500 il totale dei concordati con riserva della prima metà dell’anno. L’ampio utilizzo che le imprese italiane hanno fatto del concordato in bianco ha determinato una forte impennata anche dei concordati ‘tradizionali’ (comprensivi di un piano di risanamento) : nel primo semestre dell’anno se ne contano più di mille, cui corrisponde un aumento dell’87,5% rispetto alla prima parte del 2012. Complessivamente, contando anche le altre procedure non fallimentari (in calo del 26%) si contano più di 1.500 insolvenze diverse dai fallimenti nei primi sei mesi dell’anno, il 31,1% in più rispetto alla prima metà del 2012. Le procedure non fallimentari sono aumentate in tutti i settori con tassi a due cifre e a ritmi particolarmente elevati nell’industria (+60,7%), che ha evidenziato un tasso di crescita quasi doppio rispetto a quello delle costruzioni (+32%) e quasi triplo rispetto a quello osservato nel terziario (+22%). Dal punto di vista geografico, il fenomeno è esploso nel Nord Est (+64%), è aumentato di oltre un quarto nel Nord Ovest (+25,7%) e nel Mezzogiorno (+27,5%), mentre l’incremento è risultato più contenuto nel Centro Italia (+15,8%).
*Osservatorio Cerved Group su fallimenti, procedure e chiusure di imprese

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Dal 2008 fallite 11.200 imprese edili

imprese edili

“Le imprese sono ridotte allo stremo: dal 2008 abbiamo perso 690mila posti di lavoro considerando tutta la filiera delle costruzioni e si stima che 50.000-80.000 persone, oggi in Cassa integrazione guadagni, potrebbero non essere reintegrate. 11.200 imprese edili sono fallite”. E’ quanto ha dichiarato il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, nel suo intervento all’assemblea dell’associazione.

Convinti di fare bene, i nostri Governi hanno seguito la linea più rigorosa di tutti i paesi avanzati: il più attento rispetto dell’austerità. Tutto il contrario di quello che nel frattempo avveniva non soltanto Oltreoceano, ma anche nelle altre grandi potenze europee. Per esempio gli Stati Uniti, che nel momento in cui bisognava ripartire lo hanno fatto dall’edilizia, prevedendo un grande piano di investimenti a sostegno dei mutui per le famiglie che vogliono comprare casa e grandi investimenti in opere pubbliche. Così ha fatto il Giappone, che con la Abeconomics è uscito dalla stagnazione ventennale nel quale era caduto puntando su grandissimi interventi infrastrutturali. Così la Gran Bretagna, che ha investito 100miliardi di sterline. Ma provvedimenti a sostegno dell’industria delle costruzioni sono stati messi in campo con decisione anche dalla Francia e dalla Germania. Noi siamo gli unici ad aver attuato una politica di rigore assoluto senza alcun sostegno al mercato interno. Le imprese sono ridotte allo stremo: abbiamo perso 690mila posti di lavoro considerando tutta la filiera delle costruzioni e si stima che 50.000‐80.000 persone, oggi in Cassa integrazione guadagni, potrebbero non essere reintegrate. 11.200 imprese edili sono fallite, il 28‐30% delle aziende non sono in condizioni di reggere un altro anno per mancanza di liquidità. Rispetto al 2007 il credito a sostegno delle imprese del settore è diminuito di 77 miliardi. Il mercato della casa è praticamente fermo: l’acquisto di nuove abitazioni da parte delle famiglie ha subito un crollo di 74 miliardi rispetto a 6 anni fa. L’Imu ha contribuito in modo determinante a questa caduta. I lavori pubblici si sono dimezzati. Siamo l’unica nazione che ha fatto il contrario di ciò che si dovrebbe fare: abbiamo immesso risorse nella fase di espansione degli anni 2000 e nel momento della crisi, anziché usare il settore in maniera anticiclica, abbiamo diminuito i fondi di 20 miliardi all’anno. Serve un Piano Marshall per la ripresa, pagare tutte le imprese subito. È necessaria la garanzia che le imprese vengano pagate anche nel 2014. Mancano ancora all’appello 12 miliardi per il settore. Inoltre, con la nuova Direttiva Europea che sancisce l’obbligo di pagare a 60 giorni, si sta attestando una progressiva ma lenta riduzione dei tempi di pagamento sui nuovi contratti. Tuttavia il rischio riscontrato è che le amministrazioni, a corto di fondi, comincino a ridurre le gare pur di non avere l’obbligo del pagamento.

Emergenza Casa. E’ necessario ridare credito a imprese e famiglie. Le banche non credono più nel mercato immobiliare: ci sono tassi di interesse di due punti superiori a quelli degli altri paesi, nonostante una domanda ancora elevata e una percentuale di insolvenza delle famiglie tra le più basse d’Europa. L’Ance ha studiato assieme all’Abi una proposta di obbligazioni garantite per finanziare i mutui alle famiglie per l’acquisto di abitazioni ad alta efficienza energetica. Altrettanto urgente è rivedere in modo sostanziale l’Imu, che ha comportato un aumento del prelievo patrimoniale del 367% e contribuito a bloccare il mercato dell’affitto. E poi far ripartire il grande Piano dell’housing sociale e delle case popolari, come fu il Piano Fanfani, che potrebbe creare migliaia di posti di lavoro e soddisfare le esigenze delle fasce più deboli della popolazione. L’Europa lo comincia a fare con la golden rule, perché non lo facciamo anche a casa nostra?

Le cose da fare non mancano per risanare e ammodernare il Paese: ci sono 30mila scuole a rischio, migliaia di edifici pubblici, a partire dagli ospedali, da mettere in sicurezza. C’è il più grande patrimonio storico‐artistico del mondo da tutelare e valorizzare: un esempio per tutti Pompei, che versa in condizioni disastrose.

Liberare il mercato dalla tassa occulta della burocrazia. Secondo la recente indagine Doing Business 2013 della Banca Mondiale, l’Italia è al 73° posto su 185 paesi analizzati. In Europa siamo addirittura gli ultimi (solo la Grecia è sotto di noi). Abbiamo contato tutte le sigle degli strumenti urbanistici esistenti a livello territoriale: sono ben 62! Al Paese serve una grande manovra di rilancio delle infrastrutture, dell’ordine di 70 miliardi, capace di sostenere la ripresa dell’economia e far aumentare l’occupazione senza sforare il limite del 3% di deficit fissato dalla Ue.

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