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Il grande bluff di Expo 2015

Gate-expo

Expo è un grande teatro dove la realtà, drammatica, è camuffata con la fantasia. Richard Burdett, Chief adviser delle Olimpiadi di Londra 2012 e professore di Architettura e Urbanistica alla London School of Economics, è l’archistar che ha firmato, insieme ad altri personaggi importanti ovvero Jacques Herzog, Joan Busquets, Stefano Boeri e Carlin Petrini, il Concept Plan di Expo, ovvero il primo progetto per l’esposizione universale che sovvertiva l’idea tradizionale dell’esposizione. Intervistato da Il Fatto Quotidiano stronca senza mezzi termini il progetto Expo 2015 di Milano:

“Avevamo ideato fin dall’inizio non un modello Disneyland, ma un modello urbano, costruito su due grandi strade. La nostra prima preoccupazione era stata: come evitare di fare un Expo come Expo. Evitare le tipologie delle esposizioni degli ultimi venti-trent’anni, con interventi molto muscolari in cui alcuni padiglioni dovevano vincere rispetto agli altri. Volevamo invece un modello che, finiti i sei mesi dell’evento, restasse per almeno duecento anni, come un pezzo di città. Avevamo ipotizzato che almeno il 50 per cento dello spazio assegnato a ogni Paese restasse aperto, a verde, anzi, fosse coltivato e produttivo. Ogni nazione poteva mostrare i suoi prodotti, a destra un campo di riso, a sinistra una piantagione di caffè e così via. Questa idea è stata completamente stravolta. Noi volevamo evitare che Expo si trasformasse nelle olimpiadi dell’architettura, con ogni nazione che facesse a gara per proporre le forme più strane. Volevamo proporre di fare di più con il meno. Perché gli edifici non sono più importanti dei contenuti. Expo è un grande lunapark! Il lunapark è un modello che ha un ruolo importante nella vita urbana, è una forma di divertimento molto democratica. Andare a Expo non è come entrare agli Uffizi o al Moma di New York. E il problema non sono neanche i costi in sé, ma il dopo. Noi a Londra abbiamo fatto le Olimpiadi che sono costate 12 miliardi. Il vero problema non è il costo, è che cosa resta degli investimenti fatti, una volta finite le Olimpiadi o l’Expo. Se noi torniamo qui il maggio dell’anno prossimo e troviamo un’area desolata, senza ruspe e senza idee, allora è uno spreco di soldi. Se invece, com’è successo a Londra e a Barcellona, questi eventi sono l’inizio di qualche cosa, ne sarà valsa la pena. Come la situazione che conosco bene, quella di Londra, dove gli investimenti per le Olimpiadi sono stati l’avvio di un lavoro che durerà venti trent’anni per costruire un nuovo pezzo di città”.

Ancora più duro Carlin Petrini, l’ideatore di Slow Food:

“I Paesi hanno investito grandi somme nell’architettura dei loro padiglioni, ma hanno dimenticato i contenuti. E, soprattutto, hanno dimenticato i contadini che con il loro lavoro sfamano il mondo. Dovevano essere la vera anima dell’esposizione. Invece vedo che qui fanno un figurone nazioni che nei loro territori non rispettano i contadini. Per questo abbiamo deciso con i ragazzi di Slow Food di fare un’edizione speciale di Terra Madre giovani. A ottobre porteremo a Milano migliaia di contadini sotto i 40 anni da tutto il mondo. Stiamo raccogliendo i fondi per pagare i viaggi. Perché Expo è riuscito così? Colpa dell’insipienza della politica italiana. L’Italia ha avuto l’occasione e il privilegio di essere il Paese che poteva prendere in mano questi temi e diventare un’agorà internazionale. Invece non ha avuto leader politici all’altezza. L’Expo andava bene nell’Ottocento quando le novità non si vedevano direttamente sul telefono!”.

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Farinetti il capitalista “buono”

Oscar Farinetti

“Godo quando assumo un giovane” Oscar Farinetti, settembre 2013.

Un discorso che merita particolare attenzione è quello che lega Eataly e occupazione. Al di là della retorica green e della difesa del made in Italy, la ricerca di consenso passa sempre attraverso la promessa di nuovi posti di lavoro, diretti o indiretti, o attraverso quella della loro salvaguardia. E’ accaduto agli albori dell’Italia industriale, è accaduto con il boom e accade tantopiù oggi, stagione di crisi e povertà economica crescente. Posti che, realmente creati o solo vagheggiati, sono una leva da muovere all’interno dei rapporti tra istituzioni pubbliche, sindacati, banche e soggetti privati.

Farinetti & Co. fanno gran uso di questo strumento come tassello interno alla loro retorica e come elemento base in un processo alchemico continuamente attivo: per la ricerca di consenso più spiccio, di pancia, preferiscono usarlo replicato e ampliato dai canali dei media nazionali, che rilanciano uscite spesso smargiasse in modo acritico. Sono tanti e tali gli interventi di questo tipo effettuati in questi ultimi anni che non si contano; basterà una semplice ricerca in rete per farsi una discreta enciclopedia.

Da un lato sono occasioni in cui si denota il profilo dell’attore scafato e dell’imprenditore cui sembra che tutto sia possibile e legittimo; dall’altro sono discorsi che sovente scivolano verso il paternalismo, se non nella pura elemosina sociale, sia verso i dipendenti che verso i sindacati. Casi nei quali Farinetti si dimostra degno rappresentante della morale capitalista incentrata sulla benevolenza del padrone che “dona” il lavoro al subordinato, come quando si vanta di assumere in luoghi depressi, oppure quando definisce i suoi assunti “tutti giovani e belli”.

Frasi, in realtà, che nascondono come il comportamento dell’imprenditore capitalista sia utilizzare le persone e il loro lavoro come mere risorse da spremere per la massima resa, dopo averne acquisito le capacità e il tempo di vita al prezzo più concorrenziale concesso dal mercato e dai paletti che a questo vengono posti.

Alla prova dei fatti, cioé dei salari, le cose sono più nitide: quasi tutti i dipendenti/collaboratori sono assunti tramite agenzia interinale e con contratti a progetto o a tempo determinato. Molti ricevono circa 8 euro lordi all’ora, che equivalgono a 800 euro netti al mese nel caso di 40 ore settimanali, 500 per il parttime. Un salario, come ammettono i lavoratori stessi, che non permette né il sostentamento di una famiglia né l’acquisto/affitto di una prima casa. Questo capitalista “buono”, che si vanta di assumere e far lavorare tanti giovani, dimentica che con questi soldi è impossibile farsi un futuro nemmeno se si lavora per gente come lui, che non perde occasione di pronunciare questa parola come valore e impegno personale. L’invito di rivedersi qualche spot girato con Guerra ai tempi di Unieuro fa solo sorridere amaro.

Al di là della retorica imprenditoriale e occupazionale, considerato che il fatturato annuo di Eataly si aggira sui 400 milioni di euro, alla certezza che qualcuno si stia arricchendo sulle spalle di tanti altri segue una domanda: ma non era Farinetti che nel marzo 2014, poco prima di aprire Eataly Smeraldo, disse “Se un imprenditore ha i conti in ordine e non assume in modo stabile è un bastardo”? E dunque: Eataly ha i conti in ordine? Che si può anche porre così: e se Eataly avesse i conti in ordine grazie ai bassi salari (e alla tassazione agganciata) che elargisce alla maggioranza dei suoi assunti? D’altro canto non esiste solo il lavoro dei dipendenti o collaboratori, ma anche quello dei fornitori. Una questione che chi fa discorsi imprenditoriali venati di etica – come Farinetti e Co. fannodovrebbe tenere ben presente.

Ci riferiamo alla ristrutturazione dell’ex teatro Smeraldo a Milano per l’apertura di un nuovo punto vendita (apertura avvenuta il 18 marzo 2014). Alla faccia del bollino made in Italy di cui si fregia Eataly parlando del proprio lavoro e dell’indotto, i lavori sono stati affidati a una impresa di Perugia, che con una mera operazione speculativa e agendo da semplice passacarte li ha subappaltati a un ditta rumena, tale Cobetra Power di Suceava (vicino al confine con la Moldova e l’Ucraina), che paga i propri operai 3 euro lordi all’ora, da un lato allargando l’area di sfruttamento lavorativo da dentro il perimetro del negozio fino alle imprese dei fornitori di servizi e lavoro, dall’altra contravvenendo a regole della Comunità Europea che impediscono di pagare gli operai in trasferta meno dei minimi sindacali del paese in cui si opera (note burocratiche o giuridiche che citiamo per completezza).

Per il dio profitto non esistono regole, né marchi made in Italy che tengano; Farinetti guadagna milioni di euro, l’impresa di Perugia incassa senza muovere un dito e gli operai rumeni ci mettono il lavoro vivo. Riassunta ai minimi termini, all’interno di un supermercato con le caratteristiche che Eataly brama, la questione della gestione delle risorse diventa anche gestione della merce, dei corpi e dello sguardo che su loro si posa: vale per i fornitori, costretti ad accettare accordi al ribasso pur di lavorare per Eataly, che – anche se per “luce riflessa”- garantisce visibilità; vale per dipendenti e collaboratori che, a contatto con la clientela, sono tenuti vivamente a sorridere nonostante contratti discutibili e quotidiani dispositivi di controllo; vale per i corpi, o alcune loro parti, degli animali esposti nelle teche, venduti sugli scaffali o appesi ai soffitti, da presentare come rappresentazione di un cibo che si definisce “buono, pulito e giusto” e simbolo di messaggio che promette esperienza, salubrità e benessere. Una esposizione della fisicità forzata e distorta, in realtà, che coinvolge tanto le gambe appese dei maiali quanto le labbra dei baristi o delle cassiere che devono sorridere. Più delicato invece è il lavoro da svolgere per ottenere aperture di credito da soggetti istituzionali o partner di mercato. I fatti sembrano però dare ragione alla strategia utilizzata finora.

Molte delle aperture di Eataly in Italia riempiono spazi comunali in disuso o sottoutilizzati; così facendo riescono a garantirsi una doppia vittoria: prezzi vantaggiosi per la gestione della struttura affidata da Amministrazioni Comunali in apnea di liquidità e un ritorno di immagine come “benefattori” che “salvano” tessuti sociali, portando lavoro e riempiendo luoghi percepiti come abbandonati e di nessuno. Sarà forse a causa di questo sodalizio ormai radicato con soggetti istituzionali di varia grandezza che, nella alla loro azione, Farinetti e soci ormai arrivano a discettare di politica economica e sviluppo del paese. E’ qui che il cerchio si chiude, con un metaforico passaggio di testimone da Letizia Moratti a Oscar Farinetti. Turismo e produzione agricola, manovalanza e bracciantato, infrastrutture e logistica. Abbiamo il palesarsi di una piattaforma programmatica che vede in questi settori i binari su cui incanalare l’economia italiana nei prossimi anni e che avrà in EXPO 2015 il suo palcoscenico e nei suoi partner i primi protagonisti interessati, che vogliono essere la faccia “buona pulita e giusta” dell’economia del nostro paese e del grande evento, ma che sono solo una copertura per chi preferisce fare affari lontano dalle telecamere.

(Tratto da Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015)

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L’Expo 2015 si sgonfia. Solo 4 mila i posti di lavoro creati

Expo 2015-lavoro

Il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina a luglio aveva annunciato: “L’Expo 2015 sarà sicuramente un’occasione per creare nuovi posti di lavoro, perché per sei mesi avremo il mondo intero a discutere in Italia di agroalimentare”. Sì, ma tutto questo discutere quanti occupati in più produrrà? Adesso la Camera del lavoro milanese della Cgil ha elaborato i dati dell’osservatorio provinciale sull’occupazione ed è arrivata a una cifra che fa impallidire tutte quelle sparate finora: sono solo 4.185 e poco qualificati i posti di lavoro prodotti da Expo.

“Un contributo deludente” taglia corto il segretario della Camera del lavoro di Milano, Graziano Gorla “Noi avevamo presentato un pamphlet in cui sostenevamo che l’evento non avrebbe portato grandi numeri, ma siamo lontani anche dai novemila avviamenti al lavoro che calcolavamo“. Per la Cgil ci si fermerà a settemila assunzioni. A fine ottobre le aziende che hanno avviato assunzioni finalizzate espressamente all’Expo, sono 1.733, per un totale di 4.185 lavoratori. Solo 700 in più rispetto al maggio scorso, quando erano 3.400. Di questo passo, non arriveremo neanche alle assunzioni stimate da noi della Cgil. Lavori per lo più provvisori e a termine.

Ma chi assume per attività legate all’evento, che figure cerca? Un quarto dei contratti sono nell’edilizia. Poi vengono gli addetti al turismo e quelli della ristorazione: camerieri, cuochi e baristi. E ancora: centralinisti per i call center, addetti alle pulizie, magazzinieri, cameraman. Dei 4.185 avviamenti al lavoro attribuibili all’esposizione, il 24 per cento sono nel settore edile: mille contratti che per definizione termineranno con la fine dei lavori, dunque entro il maggio 2015 quando Expo aprirà i cancelli. Il 42 per cento degli avviamenti sono con contratti a tempo determinato, il 17 sono collaborazioni, il 4,8 contratti di apprendistato, il 4,6 sono lavoro intermittente e il 3,2 tirocini. Solo il 28,8 sono contratti a tempo indeterminato. Ma attenzione, segnala Gorla, “è un tempo indeterminato che indeterminato non è: Questa tipologia di contratto è normalmente usata in edilizia, ma accompagna la realizzazione del cantiere e dunque si conclude al termine dei lavori”. Tra cinque-sei mesi, a costruzioni finite, i mille addetti dell’edilizia saranno disoccupati.

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