
“Godo quando assumo un giovane” Oscar Farinetti, settembre 2013.
Un discorso che merita particolare attenzione è quello che lega Eataly e occupazione. Al di là della retorica green e della difesa del made in Italy, la ricerca di consenso passa sempre attraverso la promessa di nuovi posti di lavoro, diretti o indiretti, o attraverso quella della loro salvaguardia. E’ accaduto agli albori dell’Italia industriale, è accaduto con il boom e accade tantopiù oggi, stagione di crisi e povertà economica crescente. Posti che, realmente creati o solo vagheggiati, sono una leva da muovere all’interno dei rapporti tra istituzioni pubbliche, sindacati, banche e soggetti privati.
Farinetti & Co. fanno gran uso di questo strumento come tassello interno alla loro retorica e come elemento base in un processo alchemico continuamente attivo: per la ricerca di consenso più spiccio, di pancia, preferiscono usarlo replicato e ampliato dai canali dei media nazionali, che rilanciano uscite spesso smargiasse in modo acritico. Sono tanti e tali gli interventi di questo tipo effettuati in questi ultimi anni che non si contano; basterà una semplice ricerca in rete per farsi una discreta enciclopedia.
Da un lato sono occasioni in cui si denota il profilo dell’attore scafato e dell’imprenditore cui sembra che tutto sia possibile e legittimo; dall’altro sono discorsi che sovente scivolano verso il paternalismo, se non nella pura elemosina sociale, sia verso i dipendenti che verso i sindacati. Casi nei quali Farinetti si dimostra degno rappresentante della morale capitalista incentrata sulla benevolenza del padrone che “dona” il lavoro al subordinato, come quando si vanta di assumere in luoghi depressi, oppure quando definisce i suoi assunti “tutti giovani e belli”.
Frasi, in realtà, che nascondono come il comportamento dell’imprenditore capitalista sia utilizzare le persone e il loro lavoro come mere risorse da spremere per la massima resa, dopo averne acquisito le capacità e il tempo di vita al prezzo più concorrenziale concesso dal mercato e dai paletti che a questo vengono posti.
Alla prova dei fatti, cioé dei salari, le cose sono più nitide: quasi tutti i dipendenti/collaboratori sono assunti tramite agenzia interinale e con contratti a progetto o a tempo determinato. Molti ricevono circa 8 euro lordi all’ora, che equivalgono a 800 euro netti al mese nel caso di 40 ore settimanali, 500 per il parttime. Un salario, come ammettono i lavoratori stessi, che non permette né il sostentamento di una famiglia né l’acquisto/affitto di una prima casa. Questo capitalista “buono”, che si vanta di assumere e far lavorare tanti giovani, dimentica che con questi soldi è impossibile farsi un futuro nemmeno se si lavora per gente come lui, che non perde occasione di pronunciare questa parola come valore e impegno personale. L’invito di rivedersi qualche spot girato con Guerra ai tempi di Unieuro fa solo sorridere amaro.
Al di là della retorica imprenditoriale e occupazionale, considerato che il fatturato annuo di Eataly si aggira sui 400 milioni di euro, alla certezza che qualcuno si stia arricchendo sulle spalle di tanti altri segue una domanda: ma non era Farinetti che nel marzo 2014, poco prima di aprire Eataly Smeraldo, disse “Se un imprenditore ha i conti in ordine e non assume in modo stabile è un bastardo”? E dunque: Eataly ha i conti in ordine? Che si può anche porre così: e se Eataly avesse i conti in ordine grazie ai bassi salari (e alla tassazione agganciata) che elargisce alla maggioranza dei suoi assunti? D’altro canto non esiste solo il lavoro dei dipendenti o collaboratori, ma anche quello dei fornitori. Una questione che chi fa discorsi imprenditoriali venati di etica – come Farinetti e Co. fannodovrebbe tenere ben presente.
Ci riferiamo alla ristrutturazione dell’ex teatro Smeraldo a Milano per l’apertura di un nuovo punto vendita (apertura avvenuta il 18 marzo 2014). Alla faccia del bollino made in Italy di cui si fregia Eataly parlando del proprio lavoro e dell’indotto, i lavori sono stati affidati a una impresa di Perugia, che con una mera operazione speculativa e agendo da semplice passacarte li ha subappaltati a un ditta rumena, tale Cobetra Power di Suceava (vicino al confine con la Moldova e l’Ucraina), che paga i propri operai 3 euro lordi all’ora, da un lato allargando l’area di sfruttamento lavorativo da dentro il perimetro del negozio fino alle imprese dei fornitori di servizi e lavoro, dall’altra contravvenendo a regole della Comunità Europea che impediscono di pagare gli operai in trasferta meno dei minimi sindacali del paese in cui si opera (note burocratiche o giuridiche che citiamo per completezza).
Per il dio profitto non esistono regole, né marchi made in Italy che tengano; Farinetti guadagna milioni di euro, l’impresa di Perugia incassa senza muovere un dito e gli operai rumeni ci mettono il lavoro vivo. Riassunta ai minimi termini, all’interno di un supermercato con le caratteristiche che Eataly brama, la questione della gestione delle risorse diventa anche gestione della merce, dei corpi e dello sguardo che su loro si posa: vale per i fornitori, costretti ad accettare accordi al ribasso pur di lavorare per Eataly, che – anche se per “luce riflessa”- garantisce visibilità; vale per dipendenti e collaboratori che, a contatto con la clientela, sono tenuti vivamente a sorridere nonostante contratti discutibili e quotidiani dispositivi di controllo; vale per i corpi, o alcune loro parti, degli animali esposti nelle teche, venduti sugli scaffali o appesi ai soffitti, da presentare come rappresentazione di un cibo che si definisce “buono, pulito e giusto” e simbolo di messaggio che promette esperienza, salubrità e benessere. Una esposizione della fisicità forzata e distorta, in realtà, che coinvolge tanto le gambe appese dei maiali quanto le labbra dei baristi o delle cassiere che devono sorridere. Più delicato invece è il lavoro da svolgere per ottenere aperture di credito da soggetti istituzionali o partner di mercato. I fatti sembrano però dare ragione alla strategia utilizzata finora.
Molte delle aperture di Eataly in Italia riempiono spazi comunali in disuso o sottoutilizzati; così facendo riescono a garantirsi una doppia vittoria: prezzi vantaggiosi per la gestione della struttura affidata da Amministrazioni Comunali in apnea di liquidità e un ritorno di immagine come “benefattori” che “salvano” tessuti sociali, portando lavoro e riempiendo luoghi percepiti come abbandonati e di nessuno. Sarà forse a causa di questo sodalizio ormai radicato con soggetti istituzionali di varia grandezza che, nella alla loro azione, Farinetti e soci ormai arrivano a discettare di politica economica e sviluppo del paese. E’ qui che il cerchio si chiude, con un metaforico passaggio di testimone da Letizia Moratti a Oscar Farinetti. Turismo e produzione agricola, manovalanza e bracciantato, infrastrutture e logistica. Abbiamo il palesarsi di una piattaforma programmatica che vede in questi settori i binari su cui incanalare l’economia italiana nei prossimi anni e che avrà in EXPO 2015 il suo palcoscenico e nei suoi partner i primi protagonisti interessati, che vogliono essere la faccia “buona pulita e giusta” dell’economia del nostro paese e del grande evento, ma che sono solo una copertura per chi preferisce fare affari lontano dalle telecamere.
(Tratto da Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015)