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Manager italiani: La classifica dei liquidati d’oro

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Mega liquidazioni da pascià per i nostri manager, elargite a prescindere dai risultati ottenuti. L’ultima da 27 milioni che la Fiat ha sganciato per le dimissioni di Luca Cordero (o CordEuro) di Montezemolo. Ma il record non è il suo, come sostengono Adusbef e Federconsumatori che hanno elaborato la classifica delle liquidazioni percepite da 26 manager pubblici e privati. Nella loro classifica al primo posto c’è Cesare Romiti (Fiat) che nel 1998 ottenne 101,5 milioni di euro; al secondo posto Andrea Guerra di Luxottica, liquidato con 45 milioni di euro; al terzo Profumo con 40,59 milioni da Unicredit; al quarto Matteo Arpe, che per uscire da Capitalia nel 2007 ebbe 37,4 milioni di euro; al quinto Cesare Geronzi, con 36,65 milioni tra Capitalia e Generali; Luca Cordero, al sesto posto con 27 milioni; settimo posto per Roberto Colaninno congedato da Telecom con 25,8 milioni; ottava Paolo Cantarella che incassato da Fiat 20 milioni; al nono posto c’è Riccardo Ruggiero con 17,28 milioni da Telecom; decimo Maurizio Romiti a cui sono andati 15 milioni da RCS.

Liquidazioni e buone uscite, aggiungono i leader delle due associazioni Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, spesso non dovute, per aver portato le loro aziende al disastro (come il caso di Fondiaria Sai).

Il totale di questi regali, ben 502, 580 milioni di euro, potrebbero finanziare 84 milioni di cassa integrazione (media 6 euro/ora) e 531.000 paga/mese dei cassaintegrati.

C’è da dire che questa “moda” non riguarda solo l’Italia. Anche all’estero i top manager godono di “paracaduti d’oro” una volta lasciate le aziende. Qualche esempio? Jack Welch ottenne da General Electric 417 milioni di dollari, tra i benefit 80mila dollari al mese per l’affitto di un appartamento a New York, ristoranti, abbonamento ai palchi di Wimbledon e Us Open, e prima fila per i New York Knicks. Lee Raymond ha salutato la Exxon con 320 milioni di dollari e Bill McGuire si è portato a casa 285 milioni di dollari da UnitedHealth. A Pierce Barnevik andò male, ottenne infatti 100 milioni di dollari da Abb ma dovette restituirli poco dopo a seguito di un’indagine aperta dalle autorità svedesi. Henrique De Castro, ex Cfo di Google, ha portato a casa un assegno da 96 milioni di dollari. Il record dei record spetta però a Robert Marcus che ha incassato 80 milioni di dollari in appena 44 giorni alla guida di Time Warner Cable, giusto il tempo di venderla alla Comcast.

 

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Prodi il finto buono

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Prodi ha la responsabilità delle disastrose privatizzazioni che hanno impoverito il Paese negli anni Novanta. Calca la scena politica italiana da quasi trent’anni, si propone alla Seconda – e alla Terza – Repubblica, quando è figlio prediletto della degenerazione della Prima.

Il suo cursus honorum è costellato di incarichi prestigiosi assolti mediocremente: pessima la sua prima gestione del carrozzone Iri, disastrosa (seppur breve) la seconda, come inquilino di Palazzo Chigi è stato cacciato dalla stessa parte politica che là lo aveva mandato, da presidente della Commissione Ue si è attirato critiche unanimi della stampa internazionale… Eppure – sarà per quell’aria apparentemente inoffensiva e bonaria, da curato di campagna, che spinge i suoi avversari a sottovalutarlo (Massimo Giannini ha recentemente ironizzato: «I suoi artigli grondano bontà») – è sempre riuscito a risorgere dai propri fallimenti. Meglio: è riuscito spesso a far passare l’idea che venisse “epurato” per la propria ostinazione a difendere gli interessi generali invece che quelli dei soliti noti, proprio lui che ha sempre flirtato coi poteri forti e con le aree politiche legate a questi ultimi. Così, da ogni flop ha preso nuovo slancio, potendo contare sulle amicizie giuste, su un “ombrello” di potentati che l’hanno protetto, essendone lui fedele reggicoda. All’inizio fu la compatta falange della sinistra Dc, che poi risulterà non a caso l’unica componente dell’ex Balena Bianca a salvare le penne nella bufera giudiziaria di Tangentopoli. Poi, subito dopo, certi poteri italiani legati agli ambienti cattolici (Nanni Bazoli) e laici (Carlo De Benedetti ma anche Gianni Agnelli) del centrosinistra, con i conseguenti addentellati nel mondo dei mass media. Infine, l’ombra lunga di Goldman Sachs. È, questo, un capitolo piuttosto oscuro della nostra storia. Attraverso le privatizzazioni furono smantellati settori trainanti dell’economia italiana: quello agro-alimentare già dell’Iri (acquisito da gruppi inglesi, olandesi ed americani), il Nuovo Pignone dell’Eni, la siderurgia di Stato, l’Italtel, l’Imi.

Sono state inoltre privatizzate Telecom e in parte anche Enel ed Eni, già enti di Stato che potrebbero presto finire nelle mani delle solite multinazionali estere. Prodi, iniziatore e protagonista di questo processo, prima come presidente dell’Iri, specie durante il suo secondo mandato (1993-94), poi come presidente del Consiglio (1996-99). Ovviamente, appoggiato da forti gruppi di potere: Bilderberg, Rothschild, Goldman Sachs… Prendiamo allora quest’ultimo, una cosiddetta merchant bank (banca d’affari) già presente al famoso summit del Britannia, dove si decise lo smantellamento dello Stato-imprenditore italiano; ha poi ricoperto un ruolo essenziale nel processo di privatizzazione delle partecipazioni statali, favorendo l’intervento delle grandi multinazionali e di importanti uomini di potere nostrani, come Mario Draghi, ex vicepresidente Goldman per l’Europa, e poi proprio il Romano Prodi, a più riprese consulente di livello della banca e per questo assai ben remunerato (3,1 miliardi di lire di compensi, come scrissero il Daily Telegraph e l’Economist).

Draghi, oltre che direttore generale del Tesoro tra il ’96 e il 2003, presiedette nel ’93 il Comitato per le privatizzazioni; nello stesso periodo Goldman Sachs, tramite il fondo Whitehall, acquisì nel 2000 l’ingente patrimonio immobiliare dell’Eni di San Donato Milanese, oltre agli immobili della Fondazione Carialo e, assieme alla Morgan Stanley, quelli della Unim, Ras e Toro. Prodi era presidente dell’Iri quando decise la privatizzazione della Credito Italiano proprio tramite la Goldman Sachs, che fissò il valore delle azioni a 2.075 lire, meno di quello di Borsa (che era a quota 2.230). Ma dobbiamo all’attuale premier anche la perdita di molti dei marchi storici del nostro comparto agroalimentare, ovviamente finiti (male) in mano straniera. Prodi concluse la cessione dell’Italgel (900 miliardi di fatturato) alla Nestlé per 703, così come l’assai discussa vendita della Cirio-Bertolli-De Rica (fatturato 110 miliardi, valutata 1.350), ad una fantomatica finanziaria lucana (Fisvi) al prezzo di 310 miliardi, che ne garantì il pagamento con la futura alienazione di parte del gruppo stesso alla multinazionale Unilever.

Ma proseguiamo: quello della Sme a De Benedetti non è l’unica cessione sballata che Prodi avrebbe voluto effettuare, a prezzi poi rivelatisi impropri. Pensiamo alla Stet, ricca e potente finanziaria delle telecomunicazioni, che controllava Sip, ma anche Italtel e Sirti: nell’ottobre 1988 Iri vendette a Stet il 26% del pacchetto azionario Italtel per 440 miliardi, quando in base a un piano elaborato due anni prima da Prodi e Fiat ne avrebbe ricavati solo 210. O ancora, alla vicenda del Banco di Santo Spirito, acquistata dalla Cassa di risparmio di Roma diretta dal demitiano Pellegrino Capaldo: il progetto iniziale – appoggiato dall’attuale premier – prevedeva introiti per l’Iri tra i 350 e i 500 miliardi, mentre quello finale, profondamente trasformato, toccò quota 794 miliardi. Abbiamo già accennato alle cifre improprie della privatizzazione Credit, durante il “Prodi II” all’Iri.

E forse varrebbe anche la pena di rievocare altre storiacce, come quella della sciagurata gestione del buco Finsider o dei fondi neri Italstat. Riguardo alla vendita Alfa Romeo alla Fiat, Prodi, allora presidente Iri cui apparteneva il marchio del Biscione attraverso Finmeccanica, in tempi recenti ha sostenuto: «Volevo vendere l’Alfa alla Ford, fecero di tutto per impedirmelo e ci riuscirono». È stato subito smentito da Fabiano Fabiani, ex ad di Finmeccanica e all’epoca dei fatti a capo della delegazione che trattava per conto dell’azionista pubblico la cessione della casa automobilistica di Arese: «Non ho percepito un’opposizione di Prodi all’acquisizione dell’Alfa Romeo da parte della Fiat». Le cose andarono così. L’Alfa perdeva centinaia di miliardi l’anno eppure la Ford, probabilmente ritenendo che si potesse usare un nome di grande tradizione e una casa con clienti affezionatissimi per sbarcare in Europa, avanzò un’offerta assai generosa: ben 3.300 miliardi (secondo alcune fonti 4.000) per acquisire gradualmente il pieno controllo entro otto anni, piano di investimento di 4.000 miliardi per il quadriennio successivo all’acquisto, ottime garanzie per coloro che risultavano impiegati nel carrozzone. L’offerta venne formalizzata il 30 settembre del 1986 e restava valida fino al 7 novembre dello stesso anno. Tutti d’accordo? Non proprio. Prodi informò subito Cesare Romiti: nulla di male, poteva essere un tentativo per ottenere un rilancio Fiat, che puntualmente arrivò il 24 ottobre. Ma era assai deludente: prevedeva un prezzo di acquisto di 1.050 miliardi, in cinque rate senza interessi, prima rata nel 1993 (alla fine Fiat sborsò in realtà tra i 300 e i 400 miliardi), poi 4.000 miliardi di investimenti entro il 1995 e molti posti di lavoro da tagliare per recuperare competitività. Bene : il 6 novembre l’Iri di Prodi cedette l’Alfa alla famiglia Agnelli, quella che dieci anni più tardi, con Mortadella al governo, sarebbe stata tenuta artificialmente a galla con gli ecoincentivi per l’auto.

Lorenzo E. 

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