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In nome del consumismo

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Abbiamo iniziato a capire in molti, nelle società industriali, che il consumismo porta spesso all’insoddisfazione. Perché anche nel momento in cui compro (per assurdo) un’auto all’anno, un televisore nuovo ogni due mesi, un telefonino ogni settimana o scarpe e vestiti ogni giorno, primo non potrò mai utilizzarli tutti appieno, secondo avrò sempre (o sarò portato ad avere, dalla pubblicità piuttosto che dalla patriottica e perenne necessità di rilanciare l’economia) la sensazione che tutto ciò che ho non sia abbastanza.

È vero, per molti l’abbastanza non è mai abbastanza, ma penso che fisicamente non sia solo il nostro pianeta a risentire degli attuali ritmi di produzione e di consumo. È lo stesso essere umano (parlo del mondo Occidentale, ovviamente) a non reggerli. Il piacere del consumo, come lo chiamano alcuni, svanisce quando si è indotti a desiderare qualcosa che, in “dosi” eccessive, non può che portarci all’eccesso e all’insoddisfazione.

Pensiamo al piacere che possiamo provare mangiando (o consumando?) un bel piatto di tortellini, o di qualunque altra cosa siamo ghiotti. Immaginiamo ora di subire una martellante campagna pubblicitaria che ci porti a desiderare (e a consumare) dieci pasti al giorno con dieci tipi di tortellini diversi. Ne saremmo letteralmente stomacati. Quindi perché non dovrebbe essere lo stesso con tutti gli altri “beni di consumo”?

Siamo già in un’economia che sta in piedi perlopiù grazie a sprechi e “rilanci dei consumi” che possano portare ad altri sprechi; siamo già portati a consumare per potere continuare a produrre, ma è a mio avviso assurdo continuare ad accettare così passivamente tutte queste morbide imposizioni senza renderci conto che sono l’origine di tutti i nostri problemi (finanziari, economici, esistenziali, sociali, emotivi, ambientali). Magari per poi stupirsi o scandalizzarsi quando si sente parlare dei danni provocati dall’inquinamento o dai cambiamenti climatici.

Anche l’ansia di non sentirsi accettati, o di non sentirsi all’altezza, di essere ritenuti “fuori moda” è una piaga da estirpare dalla nostra società, a maggior ragione se si pensa all’effetto devastante che riesce ad avere su molti soggetti, soprattutto di giovane età.

Certo per gli esperti del marketing tradizionale quest’ansia invincibile e sempre rinnovata è fonte inesauribile di profitti, ma il conto che ci si sta presentando inizia ad essere eccessivamente salato. Il piacere del consumo non può generare nessun tipo di felicità o di soddisfazione, perché a volte esso svanisce anche solo nel momento in cui si ottiene l’oggetto desiderato, a maggior ragione se non si è atteso abbastanza prima di possederlo (grazie alla cultura del “tutto e subito”), o quando se ne dispone anche più del necessario (pseudo-benessere da società dei consumi). Ma ancora più spesso perché la sensazione di avere, diciamo, soddisfatto un desiderio, è una pura illusione. O meglio, viene sempre fatta percepire come tale.

Zygmunt Bauman, nel suo celebre libro “Vita liquida” (2005, “Liquid Life”, Polity Press, Cambridge) afferma: “Affinché la società dei consumi non si trovi mai a corto di consumatori, l’ansia [di non essere accettati, appagati ecc], in contrasto stridente con le promesse esplicite e sbandierate del mercato, deve essere sostenuta costantemente, ravvivata regolarmente, montata o comunque stimolata. I mercati dei consumi si alimentano dell’ansia che essi stessi evocano, e che fanno il possibile per accrescere nei consumatori potenziali. Come già segnalato, il consumismo, in contrasto con la promessa dichiarata (e ampiamente accreditata) degli spot, non riguarda il soddisfacimento dei desideri, ma l’evocazione di un numero sempre maggiore di desideri: di preferenza proprio quei generi di desideri che, in linea di principio, non possono essere esauditi. Per il consumatore un desiderio esaudito non sarebbe più piacevole o eccitante di un fiore appassito o di una bottiglia di plastica vuota, e per il mercato dei consumi esso sarebbe anche il presagio di un imminente catastrofe”.

Questo è il sistema in cui politici, economisti e cervelloni vari ci vogliono continuare a far vivere. Il migliore possibile, secondo loro.

(Fonte @AndreaBertaglio – GreenMe)

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Disposti a tutto in nome del denaro

Bravi, bravi, bravi.
La vostra campagna pubblicitaria è geniale. Vi vediamo davanti ai computer con gli occhi sgranati e stupefatti e le pupille a forma di euro, guardare i numeri delle visite, dei commenti, degli articoli che si moltiplicano. In un colpo solo avete decuplicato il numero di persone che conoscono la vostra azienda.
D’altra parte è bastato seguire una regoletta facile facile. Prendi l’argomento di cui si parla di più, a cui la gente in quel momento è più sensibile e tutti ne parleranno. Se poi lo fai andando contro il senso comune ancora meglio. Si alza il polverone e niente è più virale di un polverone.
Questa è la parte semplice, queste cose le sa anche un bambino.
Ma voi siete stati ancora più bravi.
Avete capito i limiti di quella che è diventata l’accezione comune del termine femminicidio e avete fatto la pubblicità anche nell’altro senso: la donna che fa fuori l’uomo. E, infatti, tante donne commentano sulla vostra pagina dicendosi stufe di ‘sta storia del femminicidio “ma che c’entra : non lo vedete che l’hanno fatta pure al contrario?”
E ancora più bravi siete stati a capire che la vostra azienda poteva permettersi questa campagna. Siete (eravate, sorry) piccoli e sconosciuti e con questa pubblicità date l’immagine di una piccola realtà che cerca di crescere in un mondo difficilissimo. Siete tipo i piccoli pesci che nonostante tutto se la cavano in un oceano di squali. Fate simpatia e suscitate empatia : oggi se non mangi vieni mangiato, questo lo sanno tutti. Una grande azienda, un marchio famoso no, non se lo sarebbe potuto permettere, sarebbe risultato solo volgare e fuori luogo.
Detto questo sarete anche dei geni si, ma del male.
Lavorate e guadagnate per vivere sfruttando e incrementando i prodotti peggiori della nostra società. Non vivete che per il ritorno economico, le soddisfazioni professionali, i beni materiali, non avete la benché minima idea del valore etico del vostro lavoro.
Noi lavoriamo per campare, che vivere, francamente, è un’altra storia. Cerchiamo di costruire un mondo migliore per noi e per i nostri figli. Noi lo sappiamo bene che il problema va molto aldilà del femminicidio, il problema è la relazione violenta e di potere che s’instaura tra i generi (qualunque siano) e che informa tutta la società.
Noi lavoriamo per modificare questo e lo facciamo a partire dal piano culturale. Voi siete uno dei nostri peggiori nemici e vi combatteremo sempre.
Statene certi, vinceremo noi. Non lo facciamo per soldi e non ci servono ritorni immediati, vi logorerete molto prima.

Con disistima profonda
Collettivo FuoriGenere

P.s come avrete notato il nome della vostra azienda non compare… Siamo intelligenti almeno quanto voi…

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