L’eccesso di burocrazia in Italia rappresenta uno dei maggiori freni per lo sviluppo economico e per la qualità della vita dei cittadini. Senza i freni rappresentati dagli eccessi di burocrazia, dall’illegalità, dai difetti di accessibilità e capitale umano, l’Italia riceverebbe benefici per 230 miliardi di euro, con un balzo del 16% del Pil. La fotografia di Confcommercio nel “Rapporto, sulle economie territoriali” è di un Paese frenato e spaccato a metà. “Gli imprenditori hanno un disperato bisogno”, ha dichiarato il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli, “di abolire la cattiva burocrazia, quella che genera complicazioni, tempi biblici, costi impropri che appesantiscono lo svolgimento della loro attività e nella quale, molto spesso, si annidano corruzione, illegalità, criminalità”. Serve, invece, “buona burocrazia, quella che facilita la vita delle imprese e dei cittadini, tenendo in piedi solo gli adempimenti e le procedure necessarie. Quella che consente a un imprenditore di poter lavorare con poche regole, chiare e certe, senza subire sperequazioni, senza dover rincorrere disposizioni sempre nuove o nuove interpretazioni delle stesse disposizioni”.
Liberare il tessuto imprenditoriale e civile dal peso della burocrazia inefficiente è una necessità avvertita in molti paesi. La lotta alla complessità normativa, per la riduzione del costo di fare impresa e interagire con facilità e rapidità con le amministrazioni pubbliche sia per i cittadini che per le imprese, è diventata una necessità improrogabile.
L’idea di fondo è che senza istituzioni di qualità, regole orientate all’efficienza e alla sostenibilità e norme semplici da interpretare e applicare non può esistere ripresa economica, né competitività. Ciò è vero in particolare nei paesi caratterizzati da un tessuto imprenditoriale costituito da piccole imprese come l’Italia: sono proprio le imprese di più piccole dimensioni ad essere maggiormente colpite dalla cattiva qualità delle norme e dall’inefficienza delle amministrazioni chiamate ad applicarle.
Non a caso, il rapporto “Doing Business” della Banca Mondiale, che dal 2003 misura le condizioni per fare impresa in oltre 180 Paesi, colloca, per il 2016, il nostro Paese al 45° posto nella classifica internazionale del ranking globale, recuperando 11 posizioni rispetto al 2015. Questa accelerazione non cancella ancora la distanza che ci separa dagli altri grandi Paesi industrializzati. Tra i G7 l’Italia resta il Paese in coda: tra i migliori il Regno Unito (6° posto), seguito dagli Usa (7°), dal Canada (14°), dalla Germania (15°) dalla Francia (27°) e dalla Spagna (33°).
Rimane, dunque, ancora molto da fare per colmare il gap con la top ten della classifica, soprattutto per quanto riguarda fisco e efficacia dei contratti, due voci nelle quali l’Italia figura ancora saldamente in fondo al ranking internazionale (rispettivamente 137° e 111°posto).
Delle nove regioni che registrano un carico burocratico superiore alla media nazionale, ben sette appartengono al Mezzogiorno oltre a Lazio e Umbria. Il Lazio, in particolare, si colloca al 4° posto della graduatoria dopo Calabria, Basilicata e Sicilia. Le regioni meno gravate dal peso della burocrazia risultano Valle d’Aosta, Friuli e Veneto.
Tra il 2010 ed il 2014, nonostante le riforme introdotte volte a semplificare i rapporti con la pubblica amministrazione e snellire le procedure amministrative, l’indice nazionale mostra un peggioramento passando da 0,49 a 0,56, imputabile soprattutto alle regioni del Mezzogiorno, mentre il Nord-est, soprattutto Veneto e Friuli, hanno registrato un miglioramento dell’indice di carico burocratico.
Questi dati confermano il gap ancora esistente nelle regioni del Sud, che continua a influenzare lo sviluppo economico delle imprese esistenti e l’attrattività per l’insediamento di imprese nazionali e internazionali, nonché la qualità della vita dei cittadini residenti nelle regioni meridionali.