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La fuga del Made in Italy

Fuga all'estero del Made in Italy

Piu’ di otto italiani su dieci (82%) cercano di riempire il carrello della spesa con prodotti italiani al cento per cento e di questi ben il 53% li preferisce anche se deve pagare qualche cosa di piu’. E’ quanto emerge da un sondaggio on line condotto sul sito www.coldiretti.it i cui risultati sono stati resi noti all’Assemblea nazionale dell’Organizzazione. La tendenza degli italiani a preferire prodotti Made in Italy si scontra tuttavia con la cessione di marchi storici nazionali a gruppi stranieri, ma anche con la mancanza di trasparenza dell’informazione che consente di spacciare come nazionali prodotti che non hanno nulla a che vedere con la realtà produttiva agricola della penisola. Secondo uno studio Coldiretti/Eurispes, oggi circa un terzo (33%) della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati deriva da materie prime agricole straniere, trasformate e vendute con il marchio Made in Italy, per un fatturato stimato in 51 miliardi. 

Sono passati in mani straniere marchi storici dell’agroalimentare italiano per un fatturato di almeno 10 miliardi di euro dall’inizio della crisi, che ha reso piu’ facili le operazioni di acquisizione nel nostro Paese, dall’Orzo bimbo agli spumanti Gancia, dai salumi Fiorucci alla Parmalat, dalla Star al leader italiano dei pomodori pelati finito alla giapponese Mitsubishi, ma nel 2013 è stato ceduto anche il 25 per cento del riso Scotti, mentre per la prima volta la produzione di vino Chianti nel cuore della Docg del Gallo Nero è divenuta di proprietà di un imprenditore cinese. E’ quanto ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio Marini sulla base di uno studio presentato all’Assemblea nazionale dove è stato allestito “Lo scaffale del Made in Italy che non c’è più” dal quale si evidenzia che nel mondo c’è fame d’Italia con una drammatica escalation nella perdita del patrimonio agroalimentare nazionale. “I grandi gruppi multinazionali che fuggono dall’Italia della chimica e della meccanica investono invece nell’agroalimentare nazionale perché, nonostante il crollo storico dei consumi interni, fa segnare il record nelle esportazioni grazie all’immagine conquistata con i primati nella sicurezza, nella tipicità e nella qualità” ha affermato il presidente della Coldiretti. “Il passaggio di proprietà – ha denunciato Marini – ha spesso significato svuotamento finanziario delle società acquisite, delocalizzazione della produzione, chiusura di stabilimenti e perdita di occupazione. Si è iniziato con l’importare materie prime dall’estero per produrre prodotti tricolori. Poi si è passati ad acquisire direttamente marchi storici e il prossimo passo è la chiusura degli stabilimenti italiani per trasferirli all’estero. Un processo – conclude il presidente di Coldiretti – di fronte al quale occorre accelerare nella costruzione di una filiera agricola tutta italiana che veda direttamente protagonisti gli agricoltori per garantire quel legame con il territorio che ha consentito ai grandi marchi di raggiungere traguardi prestigiosi”.

Se la settimana scorsa la multinazionale del lusso LVMH ha acquisito una partecipazione di maggioranza nel capitale sociale della Pasticceria Confetteria Cova proprietaria della societa’ Cova Montenapoleone Srl, che gestisce la nota pasticceria milanese, l’ultimo colpo nelle campagne toscane è stato messo a segno da un imprenditore cinese della farmaceutica di Hong Kong, che ha acquistato per la prima volta un’azienda vitivinicola agricola nel Chianti, terra simbolo della Toscana per la produzione di vino: l’azienda agricola Casanova – La Ripintura, a Greve in Chianti, nel cuore della Docg del Gallo Nero.

Nel 2013 si è verificato il passaggio di mano del 25 per cento della proprietà del riso Scotti ceduto dalla famiglia pavese al colosso industriale spagnolo Ebro Foods. Nel 2012 la Princes Limited (Princes), una controllata dalla Giapponese Mitsubishi, ha siglato un contratto con AR Industrie Alimentari SpA (ARIA), leader italiana nella produzione di pelati, per creare una nuova società denominata “Princes Industrie Alimentari SrL” (PIA), controllata al 51 per cento dalla Princes, mentre il marchio Star passa definitivamente in mano spagnola con il gruppo Agrolimen che ha aumentato la propria partecipazione in Gallina Blanca Star al 75 per cento. Infine, è volata in Inghilterra la Eskigel che produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione (Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop). Nel 2011 la società Gancia, casa storica per la produzione di spumante, è divenuta di proprietà per il 70 per cento dell’oligarca Rustam Tariko, proprietario della banca e della vokda Russki Standard; la francese Lactalis è stata, invece protagonista – sottolinea la Coldiretti – dell’operazione che ha portato la Parmalat a finire sotto controllo transalpino; il 49 per cento di Eridania Italia Spa operante nello zucchero è stato acquisito dalla francese Cristalalco Sas e la Fiorucci salumi è passata alla spagnola Campofrio Food Group, la quale ha ora in corso una ristrutturazione degli impianti di lavorazione a Pomezia che sta mettendo a rischio numerosi posti di lavoro. Nel 2010 il 27 per cento del gruppo lattiero caseario Ferrari Giovanni Industria Casearia S.p.A fondata nel 1823 che vende tra l’altro Parmigiano Reggiano e Grana Padano è stato acquisito dalla francese Bongrain Europe Sas e la Boschetti Alimentare Spa, che produce confetture dal 1981, è diventata di proprietà della francese Financière Lubersac che ne detiene il 95 per cento. L’anno precedente, nel 2009 – prosegue la Coldiretti -, è iniziata la cessione di quote della Del Verde industrie alimentari spa che è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl, la quale fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata. Nel 2008 la Bertolli era stata venduta all’Unilever per poi essere acquisita dal gruppo spagnolo SOS, è iniziata la cessione di Rigamonti salumificio spa, divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International, mentre la Orzo Bimbo è stata acquisita dalla francese Nutrition&Santè S.A. del gruppo Novartis. Lo stesso anno è stata ceduta anche Italpizza, l’azienda modenese che produce pizza e snack surgelati, all’inglese Bakkavor acquisitions limited. Con l’inizio della crisi – informa la Coldiretti – si è dunque verificata una accelerazione nel processo di cessione dei marchi storici del Made in Italy che nell’agroalimentare era già in fase avanzata. Nel 2006 la Galbani era entrata in orbita Lactalis, ma lo stesso anno gli spagnoli hanno messo le mani pure sulla Carapelli, dopo aver incamerato anche la Sasso appena dodici mesi prima. Nel 2005 – continua la Coldiretti – la francese Andros aveva acquisito le Fattorie Scaldasole, che in realtà parlavano straniero già dal 1985, con la vendita alla Heinz. Nel 2003 hanno cambiato bandiera anche la birra Peroni, passata all’azienda sudafricana SABMiller, e Invernizzi, di proprietà dal 1985 della Kraft e ora finita alla Lactalis. Negli anni Novanta erano state Locatelli e San Pellegrino ad entrare nel gruppo Nestlè, anche se poi la prima era stata “girata” alla solita Lactalis (1998). Nel 1995 la Stock, venduta alla tedesca Eckes A.G, è stata acquisita nel 2007 dagli americani della Oaktree Capital Management, che lo scorso anno hanno chiuso lo storico stabilimento di Trieste per trasferire la produzione in Repubblica Ceca. . La stessa Nestlè – conclude la Coldiretti – possedeva già dal 1993 il marchio Antica gelateria del Corso e addirittura dal 1988 la Buitoni e la Perugina.


Le imprese nel rilancio competitivo del made e service in Italy: settori a confronto.  L’espressione Made e Service in Italy aggrega le imprese che sono strettamente legate all’idea di Italian Style, espressione di gusto, arte, bellezza del territorio, cultura, creatività, senso estetico ed esclusività. Ai classici prodotti del Made in Italy si collegano quelli sempre più importanti del Service, che comprende sia il comparto della cultura e quindi anche i beni artistici-culturali ed il turismo, sia i servizi più legati all’insediamento territoriale che come tali non possono essere de localizzati.

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Prodi-Cirio e quella assoluzione con legge Ad personam

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Nel 1993, quando Romano Prodi è presidente dell’Iri, viene privatizzata la Sme, il vecchio colosso pubblico alimentare dell’Iri. Fallito l’accordo con la Cir di De Benedetti per la cessione dell’intera azienda, questa viene poi venduta pezzo per pezzo. Una parte, la finanziaria Cbd (il gruppo Cirio-De Rica-Bertolli), passa per 310 miliardi alla Fisvi, la società di un semisconosciuto imprenditore di nome Carlo Lamiranda, che lo rivende poi a prezzo maggiorato. Operazione sospetta, secondo la Procura di Roma: perché Lamiranda, più che di quattrini, era ricco di appoggi nella Dc del Sud e avrebbe ottenuto le aziende sottocosto, con un danno quindi per l’Iri. Inoltre, secondo l’accusa, fin dall’inizio sarebbe stato chiaro che Lamiranda avrebbe fatto soltanto da intermediario, per rivendere poi la Bertolli alla multinazionale anglo-olandese Unilever, di cui Prodi era stato consulente fino al giorno prima della sua nomina all’Iri. Dunque, secondo la Procura capitolina, Prodi va processato per avere procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale alla Fisvi e un ingiusto vantaggio patrimoniale e non patrimoniale alla Unilever.

Il 26 novembre 1996 il pm Giuseppa Geremia chiederà il rinvio a giudizio per Prodi, Lamiranda e gli altri cinque consiglieri d’amministrazione dell’Iri. Prodi, in particolare, fin dal 1990 aveva rivestito la carica di advisory director della Unilever Nv (Rotterdam) e della Unilever Pic (Londra), gruppo che secondo le indagini aveva gestito la trattativa attraverso la Fisvi. Stando all’accusa, Prodi aveva consentito alla Fisvi di acquistare la Cirio-Bertolli-De Rica (da qui in poi CDB, ndr) senza che la stessa avesse i mezzi per realizzare l’operazione. Lo scopo era quello di far avere alla Unilever il ramo olio (Bertolli) dell’azienda per 253 miliardi. Così facendo Prodi aveva permesso che venisse a conclusione un’operazione molto complicata: la Unilever, di cui lo stesso era advisory director, poteva accaparrarsi il ramo olio, settore strategico del gruppo, senza sopportare gli obblighi di natura finanziaria derivanti dalla stipula del contratto di acquisto direttamente dall’Iri. Lo stesso Prodi, in questo modo, evitava il conflitto di interessi. Inoltre l’Iri aveva venduto la CBD violando le direttive del Cipe che prescrivevano il conseguimento del miglior prezzo. Ma non è finita. L’Iri, così facendo, aveva ripetutamente consentito la modifica delle condizioni dello schema di contratto in modo del tutto favorevole all’acquirente senza alcun vantaggio, anzi con danno, per l’Iri. La cessione delle azioni della CBD era inoltre avvenuta sulla base della valutazione di una società, la Parifin, che non aveva valutato la reale consistenza patrimoniale della Fisvi e la sua capacità di reddito, fidandosi soltanto dei dati di bilancio. Come se non bastasse, Prodi e i suoi amministratori in seno all’Iri, anziché valutare la possibilità di vendere separatamente i comparti alimentari della CBD, li cedevano tutti alla Fisvi. E questo anche se la Fisvi non solo non aveva indicato i mezzi finanziari per far fronte al pagamento del pacchetto azionario, ma era riuscita ad ottenere perfino una modifica delle condizioni contrattuali.

Prodi, fin dal primo giorno d’inchiesta, respinge ogni accusa e sostiene che l’offerta della Fisvi era la più alta fra quelle arrivate all’Iri, come garantito dalla banca d’affari inglese Wasserstein Perella; e che lui nulla sapeva di intese tra la Fisvi e la Unilever. Ma comunque si appresta a fare la campagna elettorale come candidato premier nella scomoda posizione di indagato per abuso d’ufficio. Sarà prosciolto il 22 dicembre 1997. Con una motivazione, per certi versi, imbarazzante. Nella sentenza di 47 pagine il giudice Landi si sofferma a lungo sul capo di imputazione, il reato di abuso in atti d’ufficio, la cui formulazione è stata sostituita dal parlamento con una legge del 16 luglio 1997, una legge nuova, intervenuta proprio mentre l’udienza preliminare che vede sul banco degli imputati Romano Prodi è ancora in corso.

Landi osserva correttamente che la nuova ipotesi di abuso – voluta fortemente dall’allora capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro e varata con il pieno appoggio dell’allora Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, grande amico (inutile ricordarlo) dello stesso Prodi – è “più favorevole all’imputato”. E questo non solo “avuto riguardo al più mite trattamento sanzionatorio – pena da sei mesi a due anni in luogo della precedente da due a cinque anni – bensì per la trasformazione del delitto da reato di pura condotta o di pericolo, sorretto dal dolo specifico, in reato di evento, in cui il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto devono essere cagionati intenzionalmente”. Leggendo la sentenza di Landi si ha la sensazione che questa modifica della legge, votata da maggioranza e opposizione, abbia avuto un peso determinante nell’assoluzione di Prodi. Landi non si chiede – e non ne aveva l’obbligo – se Prodi e soci sarebbero stati condannati secondo la vecchia legge. Molti imputati di tangentopoli, giudicati tempestivamente, in base alla vecchia legge per fatti anche meno gravi di quelli attribuiti al prof. Prodi sono stati duramente condannati a pene severe e sono finiti in galera. Prodi con questa legge Ad personam si salvò.

Il risultato di questo moltiplicarsi d’indagini è comunque uno solo. In attesa della chiusura delle inchieste, nemmeno l’Ulivo può spingere troppo sull’acceleratore della questione morale. Le liste del Polo e, in misura minore, quelle del centrosinistra, diversamente dal 1994, sono piene di candidati inquisiti e, qualche volta, addirittura condannati. L’Ulivo schiera Prodi, D’Alema, Occhetto e De Mita (che saranno poi prosciolti), oltre a Giorgio La Malfa (condannato per Enimont, come pure Bossi, leader della Lega). Il centrodestra schiera un condannato, Vittorio Sgarbi (per truffa) e un plotone di indagati di tutto rispetto: Berlusconi, Previti, Grillo e due new entry. Marcello Dell’Utri (imputato a Torino e a Milano) e Massimo Maria Berruti (sotto processo per la Guardia di finanza). “Ho deciso di candidare Berruti per salvarlo dalla persecuzione dei giudici”, annuncia Berlusconi. A Milano la Lega affigge manifesti con i volti di Dell’Utri e Berruti, e la scritta: “Votatemi, se no mi arrestano”.

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