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La Banca Mondiale nell’ultimo decennio ha sfrattato e abbandonato i poveri

World Bank-Banca Mondiale

Negli ultimi dieci anni, la Banca Mondiale ha regolarmente mancato di far rispettare le sue regole, con conseguenze devastanti per alcune delle persone più povere e vulnerabili del pianeta.

Secondo il reportage, dell’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), network di giornalismo investigativo con sede a Washington, sarebbero circa 3,4 milioni le persone che nell’ultimo decennio hanno pagato fisicamente ed economicamente il prezzo dei progetti della World Bank o dei suoi clienti più facoltosi che per mitigare la povertà alla fine hanno danneggiato milioni di coloro che dovevano aiutare: i più svantaggiati. In molti casi, inoltre, si è continuato a fare affari con i governi che hanno abusato dei loro cittadini.

“C’era spesso nessun intento da parte sia dei governi sia del management della banca a far rispettare le regole”, ha detto Navin Rai, un ex funzionario della Banca Mondiale che ha curato le protezioni della banca per le popolazioni indigene da 2000 al 2012. “Fu così che il gioco è stato giocato”. Tra il 2004 e il 2013, la Banca Mondiale e la International Finance Corporation, si sono impegnati a prestare 455 miliardi dollari per finanziare circa 7.200 progetti nei paesi in via di sviluppo.

Secondo gli stessi dati della Banca Mondiale, nel 1985 gli esiliati dello sviluppo erano 750.000, nel 1993 sono saliti a 2,5 milioni mentre per il 2014 i numeri sono ancora incerti perché solo 204 dei 707 progetti attivi hanno fornito i dati richiesti. In circa la metà dei casi studiati, sostengono le Ong, non sarebbe stato messo in opera nessun meccanismo per tener conto delle proteste, osservazioni e denunce delle persone colpite, una delle esigenze di base della politica di reinsediamento. L’accusa, dunque, è pesantissima: negli ultimi dieci anni, la banca ha regolarmente mancato di far rispettare le sue regole, e soprattutto non ha mantenuto le sue promesse, con conseguenze devastanti per alcune delle persone più povere e vulnerabili del pianeta. In tutto il mondo, le comunità vengono messe da parte da progetti che la banca ha finanziato.

Il team di oltre 50 giornalisti provenienti da 21 paesi ha documentato per quasi un anno il fallimento della banca nel proteggere intere comunità, analizzando migliaia di documenti e intervistando centinaia di persone in Albania, Brasile, Etiopia, Honduras, Ghana, Guatemala, India, Kenya, Kosovo, Nigeria, Perù, Serbia, Sud Sudan e Uganda.

L’inchiesta dell’Icij arriva alla vigilia delle riunioni fissate in questi giorni a Washington fra la stessa banca e i ministri delle finanze e dello sviluppo di tutto il mondo. Il tema? Povertà estrema e prosperità condivisa…

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Buonanotte Italia, siamo i figli di Troika

Italia-troika-Europa

Chi sono i “Figli di Troika”? L’economista Bruno Amoroso, in un suo recente libro, lo spiega assai bene. Sono i sicari del potere: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Banca Centrale Europea. La nomenclatura finanziaria della globalizzazione si è consolidata nel corso degli ultimi dieci anni con il passaggio dal pensiero unico al potere unico. Sono gli “incappucciati della finanza” responsabili del disastro economico europeo, persone alle quali è stato affidato il ruolo d’infiltrarsi nella società, di manipolare l’informazione e la ricerca, e che con il metodo della governance hanno minato le nostre società. I Signori della finanza globale reclutano adepti nei singoli Stati.

Le loro strategie sono: la “marginalizzazione economica” per destabilizzare le istituzioni, l’allarmismo e la tensione praticate nell’anonimato dei mercati finanziari. Hanno volti, nomi, cognomi e, come direbbe Federico Caffè, anche soprannomi. E tra poco avremo modo di conoscerli anche in Italia, questi figli di Troika. Funziona così, scrive Marco Palombi sul Fatto.

Il paese X, per qualche motivo, comincia ad avere difficoltà a finanziarsi sul mercato: gli investitori chiedono interessi troppo alti. È qui, quando il paese X teme di non poter pagare stipendi e pensioni, che arriva la Troika proponendo un bel prestito di 100, 200, 300 miliardi, e sostenendo che il problema è il debito pubblico. Per avere i soldi, però, bisogna firmare un bel “Memorandum”, una lista assai nutrita di cose da fare.

La ricetta è sempre la stessa per tutti i paesi: tagli di spesa pubblica, stipendi e pensioni; licenziamenti nel settore statale; aumenti di tasse; privatizzazioni e liberalizzazioni selvagge (servizi pubblici in primis); riforme del mercato del lavoro (libertà di licenziare). Al termine della “cura”, aiutata da cospicue pressioni sull’opinione pubblica, il paziente è più malato di prima, il welfare e i beni pubblici un ricordo. In sostanza, e per paradosso, l’arrivo della Troika europea coincide con la distruzione del modello sociale europeo.

Non solo: i debiti pubblici, causa di ogni male, aumentano in maniera esponenziale. Non c’è da sorprendersi: il fine non è comprimere il debito dello Stato, ma quello estero, bloccando le importazioni attraverso un taglio dei redditi disponibili. È in questo modo che i creditori (spesso banche del Nord) rientrano dei soldi prestati negli anni di vacche grasse.

Se questo è quello che ci aspetta, chiudete le porte, non facciamo entrare sti gran figli di Troika.

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Banca mondiale: I vaccini vengono usati per il controllo demografico

Il 2 ottobre scorso un analista demografico in pensione della Banca Mondiale ha ammesso che le campagne di diffusione dei vaccini sono parte integrante delle politiche demografiche dalla Banca Mondiale. John F. May, il maggior specialista demografico della Banca dal 1992 al 2012, ha detto al giornale web francese Sens Public (poi trascritto dal think-tank per cui lavora May) che le campagne di vaccinazioni condotte soprattutto nei cosiddetti “paesi altamente fertili”, sono strumenti utilizzati per la riduzione della popolazione in quei paesi.

May: “Gli strumenti utilizzati per attuare le politiche demografiche sono “leve politiche” o azioni mirate come le campagne per i vaccini o la pianificazione familiare, allo scopo di cambiare alcune variabili fondamentali..”

Si definiscono “politiche demografiche” come “l’insieme d’interventi attuati dai governi per meglio gestire le variabili legate alla popolazione e per tentare di armonizzare i cambiamenti demografici (numero, struttura per età e classificazione) alle aspettative di sviluppo del paese”. May continua spiegando che la Banca Mondiale sta assumendo un ruolo chiave nel raggiungimento della riduzione demografica.

Non è la prima volta che dirigenti della Banca Mondiale parlino apertamente di queste azioni mirate al controllo demografico nei paesi del terzo mondo. Nel suo rapporto 1984 World Development Reportc, la Banca Mondiale suggerisce di utilizzare “furgoni” e “campi” di sterilizzazione per facilitare tali politiche nel terzo mondo. Il rapporto inoltre minaccia quei paesi che si mostrano lenti nell’attuare le politiche della Banca di “misure drastiche, meno compatibili con le scelte e la libertà individuale”.

“La politica demografica ha lunghi tempi di esecuzione; le altre politiche di sviluppo devono adeguarsi di conseguenza. L’inerzia di oggi pregiudica le opzioni di domani nel quadro generale delle strategie di sviluppo e delle future politiche demografiche. Inoltre, l’inerzia di oggi potrebbe significare che domani, per rallentare la crescita demografica, si rendano necessarie misure più drastiche, meno compatibili con la scelta e la libertà individuale”. 

Alcune di queste misure vengono già adottate.

Uno studio pubblicato in Human and Experimental Toxicology del Maggio 2011 concludeva che “le nazioni che richiedono più dosi di vaccini tendono ad avere una più alta percentuale di mortalità infantile”(pag. 8).

Dopo studi approfonditi sugli effetti dei vaccini in rapporto ai tassi di mortalità tra i bambini, gli autori Neil Z. Miller e Gary S. Goldman sono arrivati a questa inquietante conclusione e hanno sottolineato l’urgenza di un’analisi più attenta delle correlazioni tra vaccini, tossicità biochimica o sinergica e mortalità infantile ”- ma hanno anche concluso ingenuamente che “Tutte le nazioni – ricche o povere – sviluppate e arretrate – hanno l’obbligo di verificare se i loro programmi d’immunizzazione stiano raggiungendo gli obiettivi prefissati.”

Non ci si può aspettare che gli autori siano a conoscenza del fatto che, in realtà, si stanno raggiungendo proprio gli obiettivi prefissati.

A questo riguardo è indicativo il loro punto finale, e cioè che non intendevano dire che i vaccini fossero pericolosi, e che avevano tratto le loro conclusioni basandosi sulla convinzione che l’aumento della mortalità infantile non fosse un fatto intenzionale.

E invece è proprio il contrario. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la Banca Mondiale, il Dipartimento per l’Ambiente dell’ONU, il Fondo per le Popolazioni dell’ONU, la Fondazione Bill e Melinda Gates e tutte le altre “braccia” della creatura che chiamiamo “dittatura scientifica” stanno accerchiando l’umanità con campagne massicce di programmi di vaccinazioni e cibo geneticamente modificato.

Prima il mantra era “per combattere il riscaldamento globale, abbiamo bisogno di un unico grande governo mondiale”; ora suona così: “Se vogliamo combattere la povertà, dobbiamo avere un unico governo mondiale e anche…ma sì, ridurre il numero degli umani.” Continue Reading

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Presentato il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale 2013 dedicato all’occupazione


La Banca Mondiale ha pubblicato l’edizione 2013 di quello che è il suo “fiore all’occhiello”, cioè la pubblicazione annuale di indagine sulle politiche economiche, il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale, che quest’anno verte sull’occupazione.
Per la Banca, scrivere un rapporto su questo tema rappresenta un segno di progresso, considerando che si tratta di un’istituzione nella quale, per un lungo periodo, il pensiero dominante è stato quello che alle politiche di sostegno alla crescita economica sarebbe automaticamente seguita la creazione di posti di lavoro (non che, comunque, la Banca avesse una formula vincente per la crescita).

Il fatto che la Banca abbia deciso di focalizzare la sua attenzione sulla crisi occupazionale – anche se è arrivata molto tempo dopo che altre istituzioni internazionali hanno cominciato a prestare almeno un’attenzione retorica al problema – riflette l’impatto della dimostrazione globale di interesse verso il persistente deficit di posti di lavoro e la crescente disuguaglianza.

Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale 2013 contiene numerosi aspetti positivi, ma anche alcuni negativi.

Forse il maggiore contributo è l’utile revisione della letteratura economica (Capitolo 8), che corregge un mito diffuso, attraverso gli anni, dalle numerose pubblicazioni della Banca Mondiale, ed esattamente quello che le economie con un mercato del lavoro completamente deregolamentato avrebbero una crescita occupazionale maggiore di quelle che regolano i salari minimi, l’orario di lavoro, l’uso contratti a breve termine, ecc.

Quella pubblicazione, Doing Business, nel 2009 ha sospeso il suo “indicatore sull’occupazione” (in precedenza chiamato “indicatore delle assunzioni e dei licenziamenti”) su pressione dell’OIL, della Confederazione Internazionale dei Sindacati (CSI-ITUC) e di alcuni governi, ma continua a raccogliere i dati per calcolare l’indicatore e la squadra di Doing Business non nasconde il desiderio di reintrodurlo. Si spera che la scoperta del Rapporto sullo Sviluppo Mondiale, che la pretesa forte correlazione tra il livello di regolamentazione e il tasso di occupazione è infondata, metta la parola fine, una volta per tutte, alla campagna della Banca per una generalizzata deregolamentazione del mercato del lavoro. (Bisogna aggiungere, tuttavia, che l’equilibrata revisione della letteratura economica nel Capitolo 8 viene temperata da una visione unilaterale della regolamentazione del lavoro, centrata soprattutto sull’India, in un annesso al Capitolo 9 su “Come accelerare la ridistribuzione del lavoro”).

Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale presenta materiale utile sulla crisi occupazionale e le sue differenti manifestazioni, sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli industrializzati, e sottolinea i punti deboli di alcune delle mode di sviluppo preferite dalla Banca Mondiale, evidenziando che il loro impatto sull’occupazione è marginale o peggio (che esse possono, cioè, ostacolare la creazione di posti di lavoro in altri settori). Queste includono il sostegno alla micro-finanza e ai progetti ad alta intensità di capitali dell’industria estrattiva nei paesi in via di sviluppo.

D’altra parte, il rapporto conviene sul fatto che il sostegno all’assistenza sanitaria, all’istruzione, alle infrastrutture e allo stato di diritto sono tutti ingredienti importanti per la creazione di posti di lavoro stabili di alta qualità.

Sulla questione dello stato di diritto, il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale 2013 fornisce una sostanziale difesa, per la prima volta in una pubblicazione ad alto profilo della Banca, della necessità di sostenere la conformità con le Norme Fondamentali del Lavoro (CLS – Core Labour Standards) dell’OIL (Capitolo 5). Inoltre, minimizza il contributo che le iniziative volontarie di responsabilità sociale d’impresa – che la Banca ha giocato un certo ruolo nel sostenere – può avere nel garantire la protezione dei diritti dei lavoratori: “Le iniziative volontarie non possono sostituire gli sforzi nazionali di istituire adeguate protezioni giuridiche e di creare istituzioni per sostenere la conformità e fornire vie di ricorso” (p. 306-307).

Sul versante negativo, uno degli elementi più problematici è rappresentato dalla decisione del Rapporto sullo Sviluppo Mondiale di mettere da parte il concetto di Lavoro Dignitoso dell’OIL e di sostituirlo con uno proprio, denominato “posti di lavoro buoni per lo sviluppo”. Il rapporto ne offre la seguente definizione sommaria: “Posti di lavoro buoni per lo sviluppo sono quelli che danno il più alto contributo alla società, tenendo conto del valore che essi hanno per la persona che li occupa, ma anche delle loro potenziali ricadute sugli altri” (p. 154).

Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale non rende certo facile capire che cosa voglia dire, in pratica, questo vago concetto, soprattutto quando aggiunge che “i programmi occupazionali sono intrinsecamente specifici di un paese” (pag. 153). Specifica che i posti di lavoro che non rispettano le Norme Fondamentali del Lavoro (CLS – Core Labour Standards) “sono, senza equivoci, cattivi e non dovrebbero essere considerati posti di lavoro” (pag. 153). Ma quando afferma che i buoni posti di lavoro possono includere quelli dell’economia informale, dove tali diritti non vengono rispettati, viene spontaneo chiedersi quanto profondo sia tale impegno nei confronti delle norme fondamentali del lavoro. Quanto ai lavori che non sono buoni per lo sviluppo, il rapporto chiarisce abbondantemente che essi comprendono l’occupazione nei “gonfiati” organismi del settore pubblico, ripetendo il termine per ben tre volte (pg. 17, 154, 163).

Questa ingiustificata denigrazione dell’occupazione del settore pubblico non è l’unico esempio nel Rapporto sullo Sviluppo Mondiale 2013 dal quale traspaiono i pregiudizi profondamente radicati della Banca Mondiale. Un altro si trova nella sezione che ripete un credo della Banca, vecchio di anni, a sostegno di un’ulteriore liberalizzazione incondizionata del commercio, compresi i servizi, tema al quale dedica ben tre pagine (Capitolo 9). Per contrasto, il rapporto non esprime alcun sostegno alle misure per prevenire il ricorrente ritorno dell’auto-tracollo del settore finanziario, che ha portato al più grande collasso dell’occupazione degli ultimi 80 anni, salvo menzionare che “la crisi finanziaria del 2008 ha riaperto l’acceso dibattito su di un appropriato livello di regolamentazione del settore finanziario” (pag. 294).

Un altro approccio problematico è quello che riguarda la “assicurazione sociale”. Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale sembra aver deciso che il più comune termine di “protezione sociale” sia una brutta parola, solo per evitare di menzionare il concetto e l’obiettivo, ora ampiamente supportati, del Social Protection Floor (Zoccolo di Protezione Sociale). Sviluppato per la prima volta dall’OIL, l’intero sistema della Nazioni Unite nel 2011 ha approvato il Social Protection Floor, così come il G20 durante il Summit di Cannes lo scorso novembre. Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI) sostiene il concetto fino al punto di collaborare con l’OIL nel designarne gli specifici meccanismi di finanziamento per ogni paese.

Il concetto di “assicurazione sociale” è più limitato rispetto a quello di protezione sociale; in molti paesi i servizi sociali e i programmi di sostegno del reddito non sono tutti fondati su una base assicurativa, che è una nozione, basata sul mercato, di acquisizione della protezione in caso di emergenza e che comporta la condivisione del rischio. L’insistenza del Rapporto sullo Sviluppo Mondiale sul fatto che la protezione sociale sia un’assicurazione porta ad occasionali affermazioni prive di senso come la seguente: “Le preoccupazioni circa disincentivi alla ricerca del lavoro e ridistribuzione nascosta hanno portato ad un certo interesse per i conti di risparmio assicurativi contro la disoccupazione [che infatti non sono un’assicurazione]…. Alcuni paesi hanno adottato questi conti di risparmio quale approccio alternativo ai programmi basati sull’assicurazione” (pag. 273).

Per essere un rapporto sull’occupazione, il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale non contiene molte informazioni sul movimento sindacale, benché ciò che è presente sia per la maggior parte positivo, per esempio quando sottolinea il ruolo del sindacato nella riduzione delle ineguaglianze di reddito tramite la contrattazione collettiva e il raggiungimento di obiettivi sociali più ampi. Stranamente, però, un passaggio sul miglioramento delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo menziona il ruolo delle multinazionali e della società civile, ma non i sindacati (pag. 241).

Schede dettagliate focalizzate su specifici ruoli dei sindacati si trovano sui temi seguenti: SEWA (Self Employed Women’s Association of India); le iniziative dei sindacati dei lavoratori domestici per ottenere una convenzione OIL; il programma “Cambodia’s Better Factories”; i consigli per la contrattazione collettiva del Sud Africa; nuove forme di contrattazione collettiva in Cina; e il programma tedesco di riduzione dell’orario di lavoro.

(Fonte worldbank Traduzione a cura di Alida Di Marzio)

La lotta di classe dopo la lotta di classe. La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra epoca è questa: la classe di quelli che possiamo definire genericamente i vincitori sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. Dagli anni Ottanta, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente.

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Land grabbing, gli Arraffa Terre


Da quando l’accaparramento di terre si è palesato nella forma più virulenta e contagiosa, la Banca Mondiale e i suoi alleati, in tandem con il settore privato ed i suoi sponsor pubblici, hanno cominciato a darsi un gran da fare per elaborare articolate architetture semantiche che permettano di confondere le carte in tavola e di evitare di chiamare le cose con il loro nome.

Gli obiettivi per cui la terra viene “presa” sono infatti i più svariati: per coltivarla con cibo o agro-combustibili, per far spazio all’industria mineraria, per piantare foreste, per costruire dighe o altre infrastrutture, per sviluppare turisticamente una zona, per delimitare parchi naturali, per espandere città, per occuparla militarmente con scopi geopolitici o semplicemente per possederla a garanzia di altri rischi. Le conseguenze negative su chi vive sulle (o grazie alle) terre arraffate sono spesso le stesse, a prescindere dalle motivazioni reali, e i danni risultano incalcolabili. Le comunità a cui è impedito l’accesso alla terra vengono sconvolte, le economie locali distrutte, il loro tessuto socio-culturale e la loro stessa identità sono messi a repentaglio, così come l’agricoltura di piccola scala e la relativa produzione per la sussistenza. Le comunità rurali sono private dei loro mezzi di sostentamento, oltre che del diritto di gestire le risorse da cui dipendono.

Accanto a questo si va sviluppando un fenomeno sempre più preoccupante e diffuso, che, attraverso una convergenza tra interessi politici, economici, polizia locale e forze di sicurezza private, criminalizza i movimenti sociali e in generale chiunque si mobiliti per difendere i propri diritti. Questo non è un processo che ha appartenenza geografica, perché avviene sia nel Sud che nel Nord del mondo. Ovunque i beni comuni siano sotto scacco e le comunità locali scelgano di non arrendersi.

L’Italia è, tra i Paesi Europei, uno dei più attivi negli investimenti su terra all’estero, seconda solamente all’Inghilterra, con Germania, Francia, Paesi Scandinavi, Olanda e Belgio a seguire.

Ma quale Italia? Sicuramente l’Italia delle banche, delle imprese assicurative, delle grandi utilities energetiche e dei giganti dell’abbigliamento. Ma anche l’Italia delle piccole e medie imprese che si affrettano a diversificare la produzione se c’è aria di incentivi e facilitazioni. Nomi più o meno conosciuti, da Eni a Maccaferri, da Benetton a Generali fino ai tre big del credito (Unicredit,Intesa e Monte dei Paschi di Siena). Gli “Arraffa Terre” è anche il titolo di una mappatura di dati sul ruolo che l’Italia svolge nell’accaparramento dei terreni agricoli su scala globale, pubblicato da recommon.org.

Sono quasi una trentina le compagnie attive in questo business, dalla Patagonia (dov’è presente Benetton) a tante imprese in Africa, in particolare in Mozambico, Etiopia e Senegal.

Il land grabbing non è sinonimo di investimento, ed è la stessa Banca Mondiale a confermarcelo. Circa l’80 per cento delle acquisizioni globali di terra annunciate negli ultimi anni non sono al momento produttive e molte di esse potrebbero non esserlo mai. In molti casi è sufficiente detenere il controllo sui territori per ricavarne profitto, direttamente o indirettamente. Si capisce il perché le compagnia italiani siano così interessate.

In questo Mondo alla Rovescia la terra non e’ più un bene comune, ma l’ennesimo violenza dei ricchi-potenti sulle comunità locali.

Scarica il rapporto Gli Arraffa Terrehttp://www.recommon.org/gli-arraffa-terre/

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