
I bambini iracheni, vittime di guerre e violenze che hanno sconvolto il paese nell’ultimo quarto di secolo, si trovano oggi intrappolati in una tragedia umanitaria. La guerra, iniziata a marzo del 2003, ha drammaticamente deteriorato le condizioni di vita. Oltre 4 milioni di iracheni, la metà dei quali bambini, sono sfollati, costretti a vivere in situazioni estremamente precarie, privi dell’accesso ad acqua, mezzi di sussistenza e servizi di base. Molte famiglie sfollate vivono in comunità d’accoglienza già impoverite e colpite dalle conseguenze della guerra. Ogni mese, in Iraq, oltre 25.000 bambini sono costretti ad abbandonare le loro case; 800.000 bambini si vedono negato il diritto alla scuola; solo 1 bambino su 3 ha accesso all’acqua potabile. Il popolo iracheno è in ginocchio, schiacciato da promesse non mantenute.
E’ passato poco più di un anno da quando Marie-Hélène Bricknell è arrivata in Iraq per inaugurare una presenza permanente della Banca Mondiale.
Quel giorno le sirene della famosa (ormai leggendaria) “Green Zone” di Baghdad avvertivano i gentili stranieri presenti nella bolla d’oro della capitale irachena dell’arrivo di possibili missili.
Era il 2011, solo dodici mesi fa. Nonostante il clima di guerra che continua a dettare i ritmi della vita quotidiana di milioni di persone, l’Iraq ha raggiunto “un certo numero di risultati importanti”, sottolinea – forse imbarazzata – l’inviata della Banca Mondiale.
Parla di costruzione e ricostruzione di scuole e ospedali, ma anche di “formazione di infermiere e medici”, e soprattutto di “acqua potabile per oltre 600.000 iracheni”.
Acqua potabile per 600 mila iracheni su 27 milioni di abitanti? Dopo dieci dalla sua “liberazione”? In un paese che galleggia sul petrolio e che nei prossimi decenni diventerà il secondo esportatore mondiale di oro nero?
Ma questo non è l’unico aspetto che rende l’Iraq del 2012 un paese in pieno ‘non sviluppo’: è la stessa Bricknell a ricordare come “il deterioramento della qualità di vita abbia avuto un’incidenza enorme sui bambini”, e su tutta la popolazione.
“Un recente rapporto dell’UNICEF evidenzia una tendenza preoccupante nella malnutrizione e nel ritardo nella crescita dei più piccoli, nonché un aumento dei tumori e della mortalità nella fascia d’età 0-12 mesi”.
Sebbene infatti il salario medio annuo di un iracheno superi i 3.000 dollari, questa cifra non è che il risultato della rendita petrolifera divisa per tutti gli abitanti.
“A dire il vero – ammette l’inviata speciale della Banca Mondiale -, penso che il petrolio potrebbe essere la maledizione dell’Iraq, in un certo senso”.
Perché una tale ricchezza non si traduce in posti di lavoro, con l’industria petrolifera che riesce ad assorbire a malapena l’un per cento della forza lavoro nazionale, anche a causa della mancanza di lavoratori qualificati, in quanto “il sistema educativo non sta generando il livello di competenze richieste dal settore”.
Problemi che sembrano minuzie se paragonate alla situazione generale del popolo iracheno, che da anni attende di poter contare su più di sei ore di elettricità per mangiare, dissetarsi (il 30% non ha accesso all’acqua potabile), lavorare, farsi curare. Sopravvivere insomma.
Problemi che potrebbero essere risolti se i profitti eccezionali generati dalle ricchezze del sottosuolo vengano finalmente spese per soddisfare i bisogni reali (e primari) di un popolo straziato da tre guerre, una dittatura, un embargo e dieci anni di faide intestine.
Nell’elencare le sfide principali, la rappresentante della Banca Mondiale punta quindi il dito sull’urgenza di efficaci “misure anticorruzione”, una delle piaghe principali insieme al clima di impunità che si respira dalla caduta della dittatura.
Ma cosa può fare la principale istituzione finanziaria del mondo per un paese così disastrato?
L’Iraq ha il petrolio. Ed è proprio questa la parola chiave che improvvisamente rende tutto possibile, persino qui.
Per la verità è dal lontano 2004 che la lunga mano della World Bank si aggira per Baghdad.
E’ proprio la Bricknell a svelare tutte le contraddizioni di quello che finora poteva sembrare un giudizio onesto e schietto sulla situazione del paese.
L’inviata speciale prosegue millantando l’enorme impegno assunto dall’organizzazione nella gestione del multimilionario intervento lanciato immediatamente dopo la ‘liberazione’.
Ora questo fondo è agli sgoccioli ed è destinato ad esaurirsi entro dicembre 2013. Ne serve un altro, perché il paese ha ancora bisogno di quella ricostruzione che doveva essere diventata già visibile.
E invece di domandarsi dove sia finita la valanga di soldi che ha investito l’Iraq negli ultimi 9 anni, la rappresentate della World Bank ribadisce la necessità di mettere a punto un altro piano, un’altra ricostruzione.
Perché occorre ancora “promuovere il buon governo attraverso il rafforzamento della gestione della finanza pubblica”, così come “la condivisione degli ingenti proventi del petrolio, la creazione di nuovi posti di lavoro”, ma anche la “diversificazione economica, la crescita sostenibile, le infrastrutture, lo sviluppo regionale e la riduzione della povertà attraverso il miglioramento del sistema di protezione sociale e di erogazione dei servizi”.
Ma non sono gli stessi obiettivi decantati all’ombra del nuovo Iraq sorto dalle ceneri della dittatura di Saddam?
Anche se lo fossero, a detta della Bricknell “la Banca può svolgere ancora un ruolo molto importante per aiutare il governo adottare politiche per soddisfare le esigenze” dei tanti Iraq (quello ricco, quello povero, quello più che povero, e poi quello sciita, sunnita e anche curdo).
“Possiamo aiutare l’Iraq a riconquistare la sua posizione di leader in Medio Oriente”, afferma testualmente l’inviata della World Bank, colta da un’evidente amnesia lunga dieci anni.
(Fonte osservatorioiraq – Francesca Manfroni)