La posta in palio e’ alta: il futuro del mercato mondiale del tabacco. All’orizzonte si profila un altro pesante giro di vite per le aziende produttrici di sigarette e, a cascata, per il loro enorme indotto. La scacchiera sulla quale si sta disputando e’ globale: Unione europea, Stati Uniti e Australia per cominciare. Le parole chiave sono inglesi: il “plain packaging”, innanzitutto, una sorta di pacchetto generico, indifferenziato. Dalle confezioni, cioè, potrebbero sparire brand, marchi e loghi accattivanti, per finire avvolte in una rigida uniformità cromatica, mentre in bella evidenza impressionanti “pictorials warning” a colori avvertirebbero i fumatori delle future inevitabili conseguenze. Un esempio di quanto potrebbe concretizzarsi arriva dall’agenzia federale americana Food and Drug Administration: sotto l’immagine che ritrae un corpo senza vita disteso sul tavolo di un obitorio c’è una scritta bianca in campo nero che avverte “Smoking can kill you”, oppure c’è quella che mostra una dentatura tutt’altro che hollywoodiana con il classico “Cigarettes cause cancer”, e poi quella in cui compare un viso attaccato a una maschera d’ossigeno o quell’altra in cui un uomo sputa fumo da una gola fresca di tracheotomia. Insomma, una guerra giocata sull’onda dell’emotività. Ma non solo, perché la Commissione Ue sta studiando, oltre a una forma di “plain packaging”, anche una serie di divieti: il cosiddetto “ingrediente ban”, lo stop all’utilizzo degli additivi che abitualmente le aziende mischiano al tabacco per addolcirne il sapore, arricchirne l’appel e, in qualche modo, incentivare la fedeltà (o la dipendenza) dei consumatori: dal mentolo al cacao, dalla vaniglia allo sciroppo di ciliegia o di acero. Ma anche mercurio e ammoniaca. “Sono oltre 600 le sostanze che le industrie usano per personalizzare il loro prodotto”, sottolinea Biagio Tinghino, presidente della Società italiana di tabaccologia. Sostanze, in alcuni casi, apparentemente innocue, ma che per effetto della combustione possono non esserlo più. “In particolare, c’è il sospetto che alcuni ingredienti siano in grado di facilitare il metabolismo e l’assorbimento della nicotina da parte del cervello”, spiega Tinghino.
Allo studio della Commissione europea c’è, infine, il “display ban”: le sigarette, praticamente, sparirebbero dagli scaffali dei rivenditori. “Sono misure che determinerebbero uno svilimento del prodotto, quindi del suo valore”, attaccano dalla British American Tobacco. Così, le grandi multinazionali che si spartiscono la torta, dalla Philip Morris alla British American Tobacco, dalla Japan Tobacco alla Imperial Tobacco (che da sole controllano il 90% del mercato europeo), alla Reynolds American, si stanno giocando il tutto per tutto per fermare l’ultima offensiva anti smoking.
I numeri in ballo sono enormi. Il business delle bionde, soltanto in Italia, muove ogni anno qualche cosa come una ventina di miliardi di euro, con oltre 200 mila occupati nell’intera filiera, dalla coltivazione ai punti vendita. Un giro di affari che in Europa arriva a superare i 136 miliardi, contro un costo sociale annuo che, secondo la Commissione europea, sfiora i 550 miliardi. E’ abbastanza, dicono a Bruxelles, per intervenire. E con la mano pesante, se il 35% dei giovani tra i 15 e i 24 anni vive ancora la schiavitù della dipendenza da nicotina e l’80% di chi comincia a fumare lo fa prima dei 18 anni.
Dopo l’Australia, anche il Regno Unito si e’ mosso. Il ministro della Sanità britannico, Andrew Lansley, ha annunciato che Londra vuole andare verso il plain packaging e i toni non sembrano affatto concilianti: “Non cerchiamo la collaborazione delle compagnie del tabacco. Vogliamo che in questo Paese non facciano più affari”.
(Fonte IL MONDO)