Da quando l’accaparramento di terre si è palesato nella forma più virulenta e contagiosa, la Banca Mondiale e i suoi alleati, in tandem con il settore privato ed i suoi sponsor pubblici, hanno cominciato a darsi un gran da fare per elaborare articolate architetture semantiche che permettano di confondere le carte in tavola e di evitare di chiamare le cose con il loro nome.
Gli obiettivi per cui la terra viene “presa” sono infatti i più svariati: per coltivarla con cibo o agro-combustibili, per far spazio all’industria mineraria, per piantare foreste, per costruire dighe o altre infrastrutture, per sviluppare turisticamente una zona, per delimitare parchi naturali, per espandere città, per occuparla militarmente con scopi geopolitici o semplicemente per possederla a garanzia di altri rischi. Le conseguenze negative su chi vive sulle (o grazie alle) terre arraffate sono spesso le stesse, a prescindere dalle motivazioni reali, e i danni risultano incalcolabili. Le comunità a cui è impedito l’accesso alla terra vengono sconvolte, le economie locali distrutte, il loro tessuto socio-culturale e la loro stessa identità sono messi a repentaglio, così come l’agricoltura di piccola scala e la relativa produzione per la sussistenza. Le comunità rurali sono private dei loro mezzi di sostentamento, oltre che del diritto di gestire le risorse da cui dipendono.
Accanto a questo si va sviluppando un fenomeno sempre più preoccupante e diffuso, che, attraverso una convergenza tra interessi politici, economici, polizia locale e forze di sicurezza private, criminalizza i movimenti sociali e in generale chiunque si mobiliti per difendere i propri diritti. Questo non è un processo che ha appartenenza geografica, perché avviene sia nel Sud che nel Nord del mondo. Ovunque i beni comuni siano sotto scacco e le comunità locali scelgano di non arrendersi.
L’Italia è, tra i Paesi Europei, uno dei più attivi negli investimenti su terra all’estero, seconda solamente all’Inghilterra, con Germania, Francia, Paesi Scandinavi, Olanda e Belgio a seguire.
Ma quale Italia? Sicuramente l’Italia delle banche, delle imprese assicurative, delle grandi utilities energetiche e dei giganti dell’abbigliamento. Ma anche l’Italia delle piccole e medie imprese che si affrettano a diversificare la produzione se c’è aria di incentivi e facilitazioni. Nomi più o meno conosciuti, da Eni a Maccaferri, da Benetton a Generali fino ai tre big del credito (Unicredit,Intesa e Monte dei Paschi di Siena). Gli “Arraffa Terre” è anche il titolo di una mappatura di dati sul ruolo che l’Italia svolge nell’accaparramento dei terreni agricoli su scala globale, pubblicato da recommon.org.
Sono quasi una trentina le compagnie attive in questo business, dalla Patagonia (dov’è presente Benetton) a tante imprese in Africa, in particolare in Mozambico, Etiopia e Senegal.
Il land grabbing non è sinonimo di investimento, ed è la stessa Banca Mondiale a confermarcelo. Circa l’80 per cento delle acquisizioni globali di terra annunciate negli ultimi anni non sono al momento produttive e molte di esse potrebbero non esserlo mai. In molti casi è sufficiente detenere il controllo sui territori per ricavarne profitto, direttamente o indirettamente. Si capisce il perché le compagnia italiani siano così interessate.
In questo Mondo alla Rovescia la terra non e’ più un bene comune, ma l’ennesimo violenza dei ricchi-potenti sulle comunità locali.
Scarica il rapporto Gli Arraffa Terre: http://www.recommon.org/gli-arraffa-terre/
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