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Il business del succo d’arancia

succo arancia


Le arance utilizzate per produrre i succhi che si consumano in Europa provengono per l’80 per cento dal Brasile e dagli USA. Da lì il succo viene esportato in forma liofilizzata per essere poi allungato con l’acqua nel paese di destinazione. Dietro alla catena di produzione e fornitura c’è una manciata di multinazionali che ne detiene il controllo a livello globale e fa in modo di tenere il più possibile sotto silenzio le condizioni di lavoro, il massiccio uso di pesticidi e l’impatto ambientale che deriva dalla produzione. Una campagna europea ha condotto una ricerca in Europa e in Brasile per far luce su quel che i supermercati sono soliti occultare. Ecco i risultati.

I risultati della ricerca Exprimidos – Lo que hay detrás del negocio del zumo de naranja [Quel che c’è dietro l’affare del succo d’arancia], realizzata dalla campagna europea Supply Cha!nge della quale fa parte la rete di attivisti Col•lectiu RETS e che è stata condotta in Brasile e in Europa, fanno luce su qualcosa che i supermercati di generi alimentari sono soliti occultare: la dipendenza e lo sfruttamento dei lavoratori nelle aziende e nelle piantagioni, così come la distruzione dell’ambiente, in particolare attraverso il massiccio utilizzo di pesticidi.

Negli ultimi 30 anni si è avuto un enorme incremento della produttività del succo di arancia, anche a seguito dell’aumento della densità delle piantagioni. Dovendo sopravvivere in un mercato altamente competitivo, si è verificato un processo di concentrazione in tutti i settori della catena di produzione del succo di arancia.

Oggi, le imprese Sucocítrico Cutrale Ltda (Cutrale) [1], Citrosuco S/A (Citrosuco) [2] e Louis Dreyfus Commodities Agroindustrial S/A (LDC) controllano in Brasile tutta l’attività di produzione ed esportazione del succo d’arancia. Queste tre società controllano in maniera effettiva il mercato globale, fornendo alle più grandi aziende di imbottigliamento più del 50 per cento del succo prodotto. Continue Reading

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La carne Made in Italy è la più sana

carne-Made-in-Italy

Le carni Made in Italy sono più sane, perché magre, non trattate con ormoni e ottenute nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione “Doc” che assicurano il benessere e la qualità dell’alimentazione degli animali tanto da garantire agli italiani una longevità da primato con 84,6 anni per le donne e i 79,8 anni per gli uomini. Lo afferma la Coldiretti precisando che “il rapporto Oms è stato eseguito su scala globale su abitudini alimentari molto diverse, come quelle statunitensi che consumano il 60% di carne in più degli italiani”.

Non si tiene peraltro conto, spiega la Coldiretti, che gli animali allevati in Italia non sono uguali a quelli allevati in altri Paesi e che i cibi sotto accusa come hot dog, bacon e affumicati non fanno parte della tradizione italiana.

Il consumo di carne degli italiani con 78 chili a testa è ben al di sotto di quelli di Paesi come gli Stati Uniti con 125 chili a persona o degli australiani con 120 chili, ma anche dei cugini francesi con 87 chili a testa. Gli italiani mangiano in media 2 volte la settimana 100 grammi di carne rossa (e non tutti i giorni) e solo 25 grammi al giorno di carne trasformata.

E dal punto di vista qualitativo la carne italiana è meno grassa e la trasformazione in salumi avviene naturalmente solo con il sale senza l’uso dell’affumicatura messa sotto accusa dall’Oms.

Proprio quest’anno peraltro, secondo l’analisi della Coldiretti, la carne ed è diventata la seconda voce del budget alimentare delle famiglie italiane dopo l’ortofrutta con una rivoluzione epocale per le tavole nazionali che non era mai avvenuta in questo secolo. La spesa degli italiani per gli acquisti è scesa a 97 euro al mese per la carne che, con una incidenza del 22% sul totale, perde per la prima volta il primato.

Il settore agroalimentare in Italia contribuisce a circa il 10-15% del prodotto interno lordo annuo, con un valore complessivo pari a circa 180 miliardi di euro. Di questi, sottolinea l’Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi (Assica), circa 30 miliardi derivano dal settore delle carni e dei salumi, includendo sia la parte agricola che quella industriale. I settori considerati danno lavoro a circa 125.000 persone a cui va aggiunto l’indotto.

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Agricoltura vittima e causa del cambiamento climatico

cambiamento climatico

Entro il 2050 la popolazione mondiale si prevede possa aumentare di oltre 2 miliardi di esseri umani rispetto agli oltre 7,3 attualmente presenti (raggiungendo i 9,7 miliardi) (United Nations, 2015). Con ogni probabilità questo incremento potrebbe condurre a un raddoppio della domanda di cibo, come suggerito da diversi studi.

La domanda alimentare si prevede in incremento nei prossimi decenni, a causa di una popolazione mondiale in crescita e dei mutamenti che si verificheranno nella composizione della dieta e nei livelli di consumo associati all’incremento dell’urbanizzazione dei paesi di nuova industrializzazione (dalla Cina all’India, dal Brasile al Sud Africa, ecc.). Tutto questo potrebbe richiedere un aumento nella produzione agricola del 70%.

Ciò determinerà inevitabilmente ulteriore perdita di biodiversità e incremento delle emissioni di gas a effetto serra e inquinamenti di vario tipo. Inoltre l’espansione delle coltivazioni per ottenerne biocarburanti causerà un’ulteriore pressione sui sistemi naturali.

L’agricoltura ha già distrutto o trasformato radicalmente il 70% dei pascoli, il 50% delle savane, il 45% delle foreste decidue temperate e il 25% delle foreste tropicali. Dall’ultima era glaciale, nessun altro fattore sembra aver avuto un impatto tanto distruttivo sugli ecosistemi. L’area occupata dalle attività agricole è pari a 60 volte quella occupata globalmente da strade ed edifici.

Se escludiamo Groenlandia e Antartide, attualmente coltiviamo il 38% delle terre emerse. L’agricoltura è di gran lunga l’attività umana che usa più terreno in assoluto sul Pianeta e la maggior parte di questo 38% include i terreni migliori. Il resto è costituito principalmente da deserti, montagne, tundra, ghiaccio, città, parchi naturali e altre aree non adatte alla coltivazione. Le poche frontiere ancora disponibili si trovano nelle foreste tropicali e nelle savane, che però sono fondamentali per la stabilità degli equilibri dinamici del Pianeta, specialmente come sink di carbonio e riserve di biodiversità. Espandere le coltivazioni in queste aree costituirebbe un grave errore, tuttavia negli ultimi 20 anni sono stati creati tra i 5 e i 10 milioni di ettari di coltivazioni l’anno, di cui una parte significativa nelle zone tropicali. Questo incremento ha però portato a un aumento netto di terreno coltivato pari solo al 3%, a causa delle perdite dovute, per esempio, allo sviluppo delle aree urbane, in particolare nelle zone temperate.

Le attività umane, comprese quelle relative alla produzione, trasformazione, confezionamento, distribuzione, vendita al dettaglio e consumo di cibo, sono in parte responsabili dei cambiamenti climatici in atto a causa delle emissioni di gas serra delle attività agricole e zootecniche e cambiamenti d’uso del suolo. Queste attività stanno contribuendo a modificare anche altri aspetti del cambiamento ambientale globale (Global Environmental Change, GEC), comprese le alterazioni nell’approvvigionamento di acqua dolce, nella qualità dell’aria, nel ciclo dei nutrienti, nella biodiversità, nella copertura del suolo e dei terreni.

Il raggiungimento della sicurezza alimentare per tutta la popolazione mondiale è chiaramente una sfida più complicata del semplice incremento della produzione alimentare; il mondo, infatti, produce un quantitativo di cibo più che sufficiente per tutti, ma – ancora oggi – 795 milioni di persone (vale a dire una su nove) soffrono la fame (FAO, IFAD and WFP, 2015). Nonostante i progressi significativi, diverse regioni e sub-regioni continuano a restare indietro. In Africa sub-sahariana, più di una persona su quattro rimane cronicamente sottoalimentata, mentre l’Asia, la regione più popolosa del mondo, è anche la regione dove si concentra il maggior numero delle persone che soffrono la fame – 526 milioni (FAO, IFAD and WFP, 2015).

La questione fondamentale, però, come sottolineato dalle tre agenzie delle Nazion i Unite, riguarda l’accesso a cibo, piuttosto che la produzione alimentare. Il consumo di carne pro capite, infatti, è in continuo aumento, dal 1995 è incrementato globalmente del 15% come ricorda il Worldwatch Institute. E’ la Cina il paese leader nel consumo di carne a livello mondiale ( nel 2012 ha raggiunto un consumo annuale di 71 milioni di tonnellate, più del doppio di quello degli Stati Uniti) Anche la dieta europea è notevolmente cambiata nel corso degli ultimi 50 anni e molti di questi cambiamenti sono andati nella direzione di una maggiore assunzione di carne. Secondo la FAO, in Italia il consumo di carne è aumentato di oltre il 190% dal 1961 (31 kg pro capite l’anno) al 2011, con 90 kg pro capite l’anno. Numeri che fanno riflettere dato che oggi, nonostante si produca nel mondo un quantitativo di cibo più che sufficiente per tutti, soffrono ancora la fame ben 795 milioni di persone, quasi una su nove di cui oltre la meta’ in Asia.

La lotta contro la fame tornerà indietro di decenni a causa dei cambiamenti climatici se non si interviene urgentemente. Rispetto a un mondo senza cambiamenti climatici, nel 2050 potrebbero esserci 25 milioni in più di bambini malnutriti di età inferiore ai 5 anni, ovvero l’equivalente di tutti i bambini di quell’età di Stati Uniti e Canada (come indica Oxfam). Il Quinto e ultimo Rapporto dell’IPCC mostra che l’impatto del cambiamento su queste problematiche legate alla sicurezza alimentare, alla nutrizione, ai mezzi di sussistenza sarà peggiore di quanto precedentemente stimato e le conseguenze saranno avvertite molto prima, cioè già nei prossimi 20-30 anni. I cambiamenti climatici potrebbe far lievitare il prezzo di mais, frumento e riso del 120-180% come ricorda anche Oxfam. Ad avvalorare la tesi, negli ultimi anni ci sono stati tre picchi dei prezzi degli alimenti a livello globale: nel 2008, nel 2010 e nel 2012. Si ritiene che milioni di persone migreranno da zone sempre più aride a zone più fertili.

mangiare sostenibileLe soluzioni? Passare dai sistemi di produzione alimentare dominanti al livello planetario, ad alto consumo di risorse naturali (come, ad esempio, il terreno fertile), all’agroecologia (con minimo utilizzo di fertilizzanti e pesticidi e input – come il letame e i concimi organici – prodotti localmente) e alla pesca sostenibile. L’85% degli stock ittici mondiali è pienamente sfruttato o sovrasfruttato o esaurito. 160 milioni di tonnellate di pescato, di cui il 44% da acquacoltura, sono volumi non più sostenibili. Occorre incoraggiare i pescatori, i fornitori, i compratori e i venditori a impegnarsi per la certificazione sostenibile del pescato e la tracciabilità della filiera. “L’impatto del cambiamento climatico sulla produzione alimentare e gli effetti di pratiche agricole dannose per il clima sono già una realtà”, ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia, “l’obiettivo è quello di creare sistemi alimentari fortemente integrati con la vitalità dei sistemi naturali e della biodiversità (il nostro capitale naturale costituito da suolo, acqua, foreste e specie ecc. ), che producano con il minor danno per l’ambiente e il clima”.

* Report WWF “IL CLIMA NEL PIATTO” diffuso alla vigilia della Giornata Mondiale dell’Alimentazione che si celebrerà in tutto il mondo venerdì 16 ottobre

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Tempi duri per il formaggio simbolo del Made in Italy

parmigiano reggiano

“Non permetteremo che in Europa entri un solo grammo di parmigiano falso”, assicurava Cecilia Malmstroem, commissario Ue al Commercio. Ma intanto, secondo i dati forniti dalla Coldiretti, il falso Parmigiano vende di più di quello vero. 

Nel 2014 la produzione delle imitazioni del Parmigiano e del Grana ha superato i 300 milioni di chili, contro i 295 Made in Italy, realizzati per poco meno della metà negli Stati Uniti, dal falso parmigiano vegano a quello prodotto dalla Comunità Amish, dal parmesan vincitore addirittura del titolo di miglior formaggio negli Usa al kit che promette di ottenerlo in casa in appena 2 mesi, ma anche quello in cirillico che si è iniziato a produrre in Russia dopo l’embargo, il parmesao brasiliano, il reggianito argentino e il parmesan perfect italiano ma prodotto in Australia.

Questo sorpasso ha provocato addirittura il calo del valore delle esportazioni, in controtendenza al record fatto segnare all’estero dall’agroalimentare Made in Italy e ai positivi risultati registrati da altri formaggi, dal pecorino al Gorgonzola, mentre è scomparsa quasi una stalla su quattro. Un danno per l’economia italiana da 60 miliardi, che significa meno posti di lavoro, meno economia, meno garanzie di salubrità sulle nostre tavole.

Sotto accusa la moltiplicazione selvaggia delle imitazioni in tutti i continenti che sono state smascherate e messe alla gogna con la prima operazione verità realizzata a tre anni dal sisma che ha colpito duramente il sistema produttivo del formaggio italiano più noto al mondo. A supporto dell’iniziativa è stato lanciato su twitter l’hashtag #ParmigiAmo.

Se gli Stati Uniti sono i “leader” della falsificazione con le produzioni in Wisconsin, California e New York, le imitazioni sono molte diffuse dall’Australia al Sud America ma anche nei Paesi emergenti, mentre sul mercato europeo ed in Italia sono arrivati i cosiddetti similgrana di bassa qualità spesso venduti con nomi di fantasia che ingannano i consumatori sulla reale origine che è prevalentemente di Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Estonia e Lettonia.

Una concorrenza sleale nei confronti degli autentici Parmigiano Reggiano e Grana Padano che devono essere ottenuti nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione.

A rischio, ha denunciato la Coldiretti, c’è un sistema produttivo con 363 piccoli caseifici artigianali della zona tipica alimentati dal latte prodotto nelle appena 3348 stalle rimaste nel 2014, dove si allevano 245mila vacche. Il tutto vale complessivamente quasi 4 miliardi di fatturato con il Grana Padano che si colloca al vertice delle produzioni italiane tutelate dall’Unione Europea con un volume di affari che vale 1,5 miliardi al consumo nazionale e 530 milioni mentre il Parmigiano Reggiano si colloca al secondo posto con 1,5 miliardi al consumo nazionale e 460 milioni all’export.

“I compensi riconosciuti ai caseifici e agli allevatori sono precipitati al di sotto dei costi di produzione e ora il mondo produttivo”, conclude la Coldiretti, “si trova a fronteggiare una situazione di crisi più grave del terremoto che tre anni fa aveva fatto crollare a terra migliaia di forme e distrutto stalle e magazzini. Nell’ultimo anno il prezzo pagato ai produttori è diminuito del 20% nel giro di dodici mesi, passando dai 9,12 euro del gennaio 2014 ai 7,31 euro di fine dicembre 2014”.

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Le 10 verità sul Made in Italy agroalimentare

Made in Italy-agroalimentare

L’Italia è certamente in crisi, vive, più di altri Paesi, un momento di grande incertezza appesantito dai suoi problemi antichi: il debito pubblico, le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia spesso persecutoria e inefficace. Ma non è un paese senza futuro. A patto che riparta da ciò che nel mondo ci rende eccellenza: la bellezza, il genio, la creatività ancorati ai territori. E la qualità, che da quella bellezza e creatività trae ispirazione e forza: qualità che nel mondo è uno dei sinonimi di Italia, e trova riconoscimento nella forza del Made in Italy.

“Nelle 10 verità”, sottolinea Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola e promotore del dossier sulla competitività italiana realizzato in collaborazione con Unioncamere e Fondazione Edison per Coldiretti, “c’è ben più che una replica a tanti falsi luoghi comuni. C’è un’idea di futuro per la nostra agricoltura che vale per tutta la nostra economia. La nostra agricoltura è infatti un settore che è cresciuto nel segno della qualità, che da un contributo importante all’attrattività del Made in Italy nel mondo e che continua a svilupparsi scegliendo la via dell’eccellenza. Una ricetta valida per tutto il Paese. Una scelta strategica che va salvaguardata anche negli accordi internazionali e che, ad esempio, deve essere la bussola anche del Ttip. L’Italia che può battere la crisi è infatti il Paese che asseconda la propria vocazione a produrre bellezza e qualità, che riconosce i propri talenti e li accompagna con l’innovazione, la conoscenza e le nuove tecnologie. Non è affatto una sfida facile né scontata: per farcela, l’Italia deve fare l’Italia”. 

I dieci primati italiani nel settore agroalimentare:

  1. L’Italia è tra i paesi che, nella globalizzazione, hanno conservato maggiori quote di mercato mondiale. Mantenendo, dopo l’irruzione della Cina e degli altri Brics, il 72,6% delle quote di export rispetto al 1999. Performance migliore di quelle di Usa (70,2%), Francia (59,8%), Giappone (57,3%), Regno Unito (53,4%) (elaborazione su dati Wto);
  2. Il modello produttivo italiano è tra i più innovativi in campo ambientale. Per ogni milione di euro prodotto dalla nostra economia, emettiamo in atmosfera 104 tonnellate di CO2, la Spagna 110, il Regno Unito 130, la Germania 143. Siamo più efficienti anche nel campo dei rifiuti: con 41 tonnellate ogni milione di euro prodotto, distanziamo di parecchio anche la Germania (65 t). Non solo, siamo campioni europei nell’industria del riciclo: a fronte di un avvio a recupero industriale di 163 milioni di tonnellate di rifiuti su scala europea, nel nostro Paese, ne sono state recuperate 24,1 milioni di tonnellate, il valore assoluto più elevato tra tutti i paesi europei (in Germania ne sono state recuperate 22,4 milioni). Nulla da stupirsi dunque, se il sistema produttivo italiano è anche quello che guida la riconversione verde dell’occupazione europea: secondo l’Eurobarometro della Commissione UE, entro la fine del 2014 il 51% delle PMI italiane avrà almeno un green job, una quota superiore a quella media europea (39%) e ben al di sopra di quella del Regno Unito (37%), della Francia (32%) e della Germania (29%); (fonte: dati GreenItaly 2013);
  3. L’Italia è, nell’eurozona, la meta preferita dei turisti extraeuropei. Siamo il primo paese per pernottamenti di turisti extra Ue, con 56 milioni di notti. Siamo la meta preferita di paesi come la Cina, il Brasile, il Giappone, l’Australia, gli Usa e il Canada (dati Eurostat elaborati da Coldiretti con la Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison con);
  4. Considerando il debito aggregato (stato, famiglie, imprese) l’Italia è uno dei paesi meno indebitati al mondo. Se invece del pesante debito pubblico guardiamo la situazione debitoria complessiva del Paese, l’Italia è più virtuosa (col 261% del PIL) di Stati Uniti (264%), Regno Unito (284%), Spagna (305%), Giappone (412%). (Elaborazione su dati Banca d’Italia);
  5. L’Italia vanta 120 prodotti agroalimentari in cui è leader mondiale per qualità. In 120 prodotti, sui 704 in cui viene disaggregato il commercio agroalimentare mondiale, l’Italia si piazza prima, seconda o terza al mondo per valore medio unitario nell’export (elaborazione su dati Istat, Eurostat e Un Comtrade 2013);
  6. I prodotti agroalimentari italiani dominano sui mercati mondiali. Tra i prodotti dell’agroalimentare italiano ben 23 non hanno rivali sui mercati internazionali e vantano le maggiori quote di mercato mondiale. E ce ne sono altri 54 per i quali siamo secondi o terzi. Nonostante la contraffazione e la concorrenza sleale dell’Italian sounding, siamo sul podio nel commercio mondiale per ben 77 prodotti (elaborazione su dati Istat, Eurostat e Un Comtrade 2013);
  7. Il modello produttivo dell’agricoltura italiana è campione nella produzione di valore aggiunto. Il valore aggiunto per ettaro realizzato dal settore è più del doppio della media UE-27, il triplo del Regno Unito, il doppio di Spagna e Germania, e il 70% in più dei cugini francesi. Non solo: siamo i primi anche in termini di occupazione, con 7,3 addetti per ettaro a fronte di una media Ue di 6,6 (elaborazione su dati Commissione Europea);
  8. L’agricoltura italiana è tra le più sostenibili. Con 814 tonnellate per ogni milione di euro prodotto dal settore, non solo l’agricoltura italiana emette il 35% di gas serra in meno della media Ue, ma fa decisamente meglio di Spagna (il 12% in meno), Francia (35%), Germania (39%) e Regno Unito (il 58% di gas serra in meno) (elaborazione su dati Eurostat realizzata da Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison con Coldiretti) ;
  9. L’Italia è al vertice della sicurezza alimentare mondiale. Siamo il paese con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici (0,2%, un terzo in meno rispetto all’anno prima), quota inferiore di quasi 10 volte rispetto alla media europea (1,9%, aumentati di circa un terzo rispetto all’anno prima) e di oltre 30 volte quella dei prodotti extracomunitari (6,3%) (elaborazione su dati Efsa 2014);
  10. L’Italia è il primo paese europeo per numero di agricoltori biologici. Con 43.852 imprese biologiche (il 17% di quelli europei) siamo i campioni europei del settore, seguiti dalla Spagna (30.462 imprese, 12% dell’Ue) e Polonia (25.944, 10% di quello europeo) (elaborazione su dati Fibl-Ifoam).
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