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Il futuro dei media e di internet è in Africa

Internet-Africa

L’Africa è una delle realtà più promettenti nel campo dei media grazie a un mercato ricco di opportunità e foriero di innovazioni. Questo argomento è stato un temi dei temi in discussione alll’ottava edizione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia

Un miliardo di abitanti e 800 milioni di sim in circolazione. Con il 50% dei cittadini connessi a internet attraverso la rete mobile, usata anche per i pagamenti e trasferimenti di denaro, e una prospettiva di crescita degli investimenti nelle infrastrutture che raggiungeranno i 1,5 miliardi di dollari entro il 2015. Senza dimenticare la radio, ancora primo strumento di informazione in Africa, “tanto che rimane l’applicazione più scaricata sugli smartphone”, secondo Amadou Mahtar Ba (Senegal), fondatore della piattaforma AllAfrica e dell’Africa Media Initiative.

In Kenya, durante le elezioni presidenziali del febbraio 2013, la campagna elettorale si è animata su internet come mai prima di allora. Il primo dibattito in tv tra i candidati è stato un successo anche in rete, dove i cittadini hanno potuto seguirlo in diretta su YouTube e ha affrontato temi che erano stati scelti tra più di cinquemila domande proposte online.

È sicuramente difficile fare un discorso generale su un continente che comprende 54 Stati dalle storie diversissime e con una superficie totale di 30 milioni di chilometri quadrati. Possiamo però individuare alcuni trend comuni nei paesi subsahariani, ieri in coda in ogni classifica sullo sviluppo e oggi tra le economie più vitali al mondo.

La prima parola d’ordine è dunque crescita: l’Africa è un continente sempre più popoloso e per questo sempre più giovane. La popolazione, inoltre, sta diventando sempre più ricca grazie alla maggiore accessibilità delle risorse e alla straordinaria crescita economica di alcuni paesi chiave come il Kenya: nel suo intervento Mark Kaigwa, fondatore di Nendo, sottolinea come la classe media in Africa sia addirittura più ampia che in Cina.

Secondo Justin Arenstein, ex giornalista e ora imprenditore nel campo dei media in Sudafrica, la forza del giornalismo africano sta nella sua vicinanza al pubblico. I media africani, infatti, cercano costantemente un contatto diretto e provano davvero a capire quali siano le paure dei cittadini: l’aspirazione è quella di migliorare concretamente le loro vite fornendo strumenti che aumentino la democrazia e l’accesso alle risorse. Arenstein aggiunge che è “lontano dalla pornografia dei dati che si sviluppano strumenti nuovi”: a fonti inaccessibili e limiti tecnologici, il Ghana risponde con reportage realizzati a partire dalle segnalazioni via sms dei lettori e il team AfricanSkyCAM in Kenya investe in progetti all’avanguardia come l’utilizzo di droni per raccogliere più notizie. Niente di più diverso dal giornalismo tradizionale occidentale, oggi sommerso da un ammasso ingestibile di dati, e in cui il mercato è saturo. In Africa invece, anche se solo il 20% della popolazione è attualmente consumatrice di notizie, i numeri non potranno che aumentare data la continua espansione dell’accesso a Internet nelle case e lo sviluppo tecnologico più in generale.

Protagonista di questo sviluppo tecnologico sono i cellulari: l’Africa ospita un mercato telefonico in grande crescita con circa 800 milioni di sim in circolazione per un miliardo di abitanti. La diffusione di Whatsapp in Africa è, secondo Mark Kaigwa, uno degli aspetti più promettenti nel campo dell’informazione: senza la necessità di iscrizioni o login, come su Facebook e Twitter, quest’app è uno straordinario strumento di comunicazione tra pubblico e redazioni. Uno show televisivo keniano, ad esempio, invita il pubblico a inviare foto di automobilisti che commettono crimini stradali per sbeffeggiarli in onda. Nel 2013, inoltre, le elezioni presidenziali e l’attacco al Westgate hanno dimostrato che il legame tra i media e il loro pubblico è sempre più solido. In entrambi i casi, infatti, il coinvolgimento dei kenioti, che hanno inviato foto, aggiornamenti live o opinioni ha dimostrato che è possibile informare in modo diverso.

La sfida per i media africani, secondo Amadou Ba, CEO dell’African Media Initiative, “è ora quella di puntare non solo sullo sviluppo tecnologico ma anche su una rinnovata etica giornalistica per avere maggiore impatto sul pubblico e garantire qualità”.

Qui il video integrale della discussione.

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I politici e l’isteria modaiola di Twitter

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“È tempo di liberarsi dell’isteria Twitter. Ossia, di quel fenomeno per cui o la politica è ridotta alla sua grammatica in 140 caratteri o non è 2.0, cioè digitale, e dunque nuova. Perché non è questo il miglior contributo che Internet può dare al rinnovamento della partecipazione politica e in particolare al tentativo di riannodare il filo spezzato tra cittadini e istituzioni. A che servono concretamente, per esempio, hashtag come #lavoltabuona (Renzi), #unastonanuova (Passera) e #lastradagiusta (Vendola e, con gaffe, Alfano)? Quale fantastica innovazione starebbe in un presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che di domenica mattina annuncia, rispondendo via Twitter imprecisate sorprese sull’economia digitale? Un annuncio spot resta un annuncio spot, fuori e dentro la Rete. E non si era detto che era ora di smetterla? Ma Twitter è ovunque, nella narrazione mediatico-politica del Paese, come fosse la cifra di una nuova era e di un nuovo governo il cui mantra è la velocità a ogni costo, anche a discapito dei contenuti. Ecco, se la politica da Internet ha imparato solo questo senso deteriore del procedere spediti, l’annegare nel flusso continuo di promesse, smentite e analisi sommane, ha imparato male: il Web offre strumenti di dialogo col cittadino ben più strutturati e utili per i decison, e troppo spesso vengono accantonati, o usati a loro volta in modo incostante e opportunista per assecondare l’isteria modaiola di essere su Twitter, e di esserlo sempre. Ma quella non è contemporaneità: ne è la caricatura.” Fabio Chiusi

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Quanto vale un utente di un Social network?

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E’ una domanda che si fanno in molti e alla quale in molti hanno provato a dare risposta. L’argomento è recentemente tornato di moda col caso Snapchat, l’ultimo tra i servizi social che ha attirato l’attenzione degli analisti di mezzo mondo per aver rifiutato un offerta di 3 miliardi di dollari cash (a fronte di un profitto vicino allo zero). Si tratta di un’ offerta sensata o esagerata, come hanno detto in molti? Nessuno conosce i numeri dell’utenza di Snapchat, tenuti segreti dai fondatori e non ancora misurati dalle altre compagnie di ricerca. Avendo la fortuna di lavorare per una compagnia di ricerca che agisce molto rapidamente ai cambiamenti del mercato, ho già a disposizione stime sulle dimensioni della sua utenza e sulle quali mi baserò per analizzarne il valore e di cui nessun altro dispone.

La mancanza di dati consistenti riguardo alla base attiva di ogni servizio ha prodotto risultati discrepanti e non attendibili. Cercherò qui di dare risposta alla domanda utilizzando i dati di GlobalWebIndex che consentono di avere una base quantomeno consistente su cui fare delle ipotesi. La metodologia di GlobalWebIndex indica come “attivi” gli utenti che hanno utilizzato un determinato servizio in maniera attiva nell’ultimo mese. Login accidentali non vengono considerati. Account doppi o inesistenti vengono tenuti anch’essi fuori dalla conta e per questo le stime potrebbero sembrare più bassi del dovuto. La ricerca, inoltre, viene svolta tra gli utenti 16-64 di 32 paesi al mondo.

Per il calcolo del valore del singolo utente mi sono invece affidato ad un semplice calcolo matematico basato sul valore di mercato della compagnia divisa per la base di utenti attiva. Il valore è dato dalla capitalizzazione di mercato, quando la compagnia è quotata in borsa, o da stime degli analisti quando invece la compagnia è fuori dai listini. Tutte le valutazioni vengono fatte in base al valore della compagnia al 22/11/2013.

Iniziamo da Facebook la cui valutazione di mercato a Wall Street secondo il sito del NASDAQ è di circa $114mld. Questo diviso per una base utenti attiva stimata secondo i parametri sopra indicati di 637mln , porta a un valore utente di poco meno di 179 dollari.

Twitter è anch’esso quotato a Wall Street ed ha una capitalizzazione di mercato pari a 22,741mld  di dollari che, divisi per una base attiva di 321,5mln di utenti nei 32 paesi della ricerca, porta a un valore utenti pari a 70.73 dollari.

Linkedin, il social network professionale più di successo nel mondo, ha il valore utente più alto del mercato data la alta qualità dei dati contenuti al suo interno. Con una capitalizzazione di poco meno di 26,5mld di dollari e una base utenti attiva di poco più di 132mln, il valore per utente è appena superiore ai 200 dollari. Certo è che il valore dell’utente di Linkedin non si basa tanto sulla sua attività quanto sulla mera presenza stessa sul Social, visto che la maggior parte degli introiti li guadagna vendendo servizi di recruiting. Se prendiamo, quindi, in analisi il numero di account creati (265mln) raggiungiamo un valore di quasi 100 dollari per utente.

Con Pinterest, non ancora quotato in borsa, entriamo nell’area delle stime. In seguito all’ultimo round di finanziamenti di 200mln di dollari il valore della compagnia è ora stimato sui 3,8mld di dollari che divisi per una base utenti attiva di 81,3mln, da un valore utenti di 46.69 dollari.

LinkedIn è quindi la compagnia col più alto valore per utente ed in effetti è anche quella che raccoglie i maggiori profitti in scala. Facebook invece appare essere piuttosto sopravvalutato sulla base dei dati raccolti da GlobalWebIndex. E’ vero che diventato uno dei leader mondiali per la vendita di spazi pubblicitari, ma le stime sul suo valore vengono fatti su numeri inesatti. Twitter ha un valore di mercato che è addirittura 22 volte i guadagni previsti per il 2014, quasi il doppio rispetto a Facebook, nonostante la maggior difficoltà a vendere spazi pubblicitari e a farli accettare ai propri utenti. Ma il suo valore per utente sembra essere più in linea con la realtà delle altre piattaforme.

Prima di arrivare a Snapchat occorre dare un’occhiata al valore utente di altre piattaforme di social su mobile, tanto per aver le giuste misure.

WhatsApp, ad esempio, ha un valore stimato, secondo alcun rumors di acquisizione da parte di Google, di circa 1mld di dollari e conta una base utenti di poco meno di 170mln. Ancora una volta, con un semplice calcolo arriviamo a 5.89 dollari a utente. Non male considerando che l’app ne costa 1 a utente.

Per quanto riguarda Instagram, dobbiamo rifarci alla quotazione di un anno fa quando fu acquistata da Facebook. All’epoca gli analisti stimavano un valore di 500,000 dollari ma noi ci baseremo sul valore di acquisizione di 1mld di dollari  su una base utenti attiva di 40mln. Nel 2012, quindi, un utente valeva 25 dollari e se volessimo, per gioco, fare una proiezione sulla base utenti attuale di 109mln, otterremmo che oggi Instagram vale 2,731mld di dollari. Meno di quanto offerto per Snapchat. Arriviamo quindi al punto. Sono 3 miliardi di dollari giustificati per l’acquisto di Snapchat? Quanti utenti attivi conta?

Secondo le stime di GlobalWebIndex, Snapchat conta ora 25,5mln di utenti attivi nel mondo, che, basandosi sul valore di mercato di 3mld di dollari, portano a un valore utente stellare di 117,6 dollari. Quasi 20 volte quello di Whatsapp e quasi 5 volte quello di Instagram.

Se da un lato può essere vero che Snapchat ridefinisce il concetto di comunicazione online e di messaggistica istantanea e non ha ancora raggiunto interamente il suo pubblico di riferimento, dall’altro lato avrebbe giovato enormemente dall’acquisizione da parte di Facebook e non è detto che se tra qualche tempo avra’ il doppio degli utenti il valore di mercato rispecchierà tale crescita. Inoltre Snapchat dovrà affrontare il problema di ogni altra piattaforma, e cioè la monetizzazione degli utenti.

Che Evan Spiegel, fondatore di Snapchat, abbia nascosto nella manica un business model in grado di tradurre i propri utenti in denaro sonante, che nessun altro ancora ha esplorato, ho i miei dubbi.

In poche parole se fossi stato in lui, io, come molti altri avrei preso i soldi senza nessuna esitazione.

(Fonte techeconomy)

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Topsy la memoria storica di Twitter

Topsy

Dal 2006 Twitter è il social network più famoso e usato per la comunicazione real time. In questi otto anni sono stati creati ben 300 miliardi di tweet. Ma come cercare i vecchi tweet? Topsy, la startup Californiana, ha creato un enorme archivio che ci consente di trovare tramite filtri tweet d’annata o informazioni che ci eravamo persi nell’immenso mondo di Twitter. Il sito raccoglie e cataloga tutti i cinguettii dal 2006 ad oggi. Finora, era praticamente impossibile barcamenarsi in una mole di informazioni così grande, sia navigando su Twitter che cercandolo su Google, in quanto il motore di ricerca non indicizza i contenuti in arrivo dal social. Invece con Topsy si può risalire ad ogni tweet in 140 caratteri pescandoli per data di inserimento, contenuti, rilevanza, lingua e, ovviamente, tramite nome utente. Tra le nuove funzioni, anche la possibilità di vedere in sintesi i risultati attraverso grafici e quella di tastare il polso dell’opinione pubblica tramite i “sentiment indicator”. Da oggi ogni cinguettio sarà immortale.

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Il clamoroso successo di Xiaomi, la Apple cinese

Xiaomi

Folgorato da una biografia di Steve Jobs, Lei Jun ha creato Xiaomi. E nel 2012 ha venduto sette milioni di smartphone (con 2 miliardi di dollari di revenue). Le caratteristiche, la storia e le sfide dell’aziende cinese che punta a sfidare la Apple. Da ottobre con l’aiuto di Barra, ex manager di Google.

Ne sentirete parlare, sempre che quel vizio tutto italiano di percepire la Cina venga per un attimo meno. Anzi provate a ragionare in questo modo. Immaginate se quando fosse uscito Twitter, qualcuno avesse detto: «no, non ci interessa, è una cosa troppo americana». Con la Cina succede così: ci sono fenomeni che travalicano le frontiere della Grande Muraglia, ma da un certo tipo di informazione nazionale sono considerati «troppo cinesi», come se ormai il mondo non fosse ancora sufficientemente globalizzato, nel senso – se si può trovare – positivo del termine. Prendiamo Xiaomi, ad esempio. Lo conoscete? Qualche tempo fa nel giro di dieci secondi ha venduto 50mila smartphone on line. E nel 2013-2014 è previsto venda circa 20 milioni di telefoni.

E se lo considerate troppo cinese, segnatevi questo nome: Hugo Barra. Chi è? E’ un ex manager, di quelli con la M maiuscola di Google; si occupava dello sviluppo delle applicazioni Android. Ora è stato assunto proprio da Xiaomi («piccolo riso»), azienda cinese sempre più convinta di lanciarsi anche sul mercato internazionale. Lei Jun (4 milioni di followers su Weibo, il Twitter cinese) e fondatore di Xiaomi ha postato sul suo microblog: «Hugo Barra comincerà a lavorare con noi da ottobre e ci aiuterà a sviluppare il nostro brand nel mondo». Apple, Samsung e compagnia, sono avvisati.

Intanto, la Cina è sicuramente uno dei primi mercati al mondo per gli smartphone; solo nel 2012 Xiaomi ne ha venduto 7 milioni (con 2 miliardi di dollari di revenue). E’ una questione, per altro, visiva: in Cina non c’è luogo dove i cinesi non siano intenti a smanettare con uno smartphone. In auto, in metropolitana, nei locali: merito del wi fi presente ovunque, di contratti per internet non troppo costosi e della vita sociale che ormai scorre sull’asse smartphone – applicazioni. Il caso di Wechat, applicazione che ora è giunta anche in Italia con la pubblicità (con Messi testimonial), è un altro caso di successo clamoroso, scaricata da oltre 200 milioni di cinesi e già presente sugli smartphone di almeno 50 milioni di «stranieri».

Xiaomi è uno dei telefoni di maggior successo in questo momento, tanto da guadagnarsi l’appellativo di «Apple cinese», anche perché il suo fondatore, Lei Jun, è considerato lo «Steve Jobs d’Oriente», dato che nelle sue presentazioni utilizza lo stesso stile dell’ex leader di Apple. Ma tutte queste somiglianze sono molto riduttive, quando si deve andare a comprendere su cosa basi il suo successo Xiaomi: quello che ha schiantato la concorrenza è stato il modello di business. Si tratta di cellulari intanto molto economici, dai 150 ai 250 euro, che pur utilizzando Android sono molto simili agli Iphone e soprattutto si vendono solo on line, dove hanno sfruttato la capacità di creare una community che ha costituito un esempio di «modello di marketing» di cui si discuterà a lungo.

Xiaomi ha utilizzato il boom dell’ecommerce cinese e ha dato molto peso al parere dei fans: per il lancio del modello MI2, ad esempio, Xiaomi ha invitato oltre 1200 appassionati a proporre i loro feedback per il miglioramento del prodotto; «la maggior parte dei fans, ha raccontato Lei Jun, ha idee molto chiare su quale debba essere il loro smartphone perfetto. Ma molti di loro non possono farlo perché la costruzione di un telefono non è proprio la cosa più semplice del mondo da mettere in piedi. Così ci lasciano dei feedback sulle funzionalità che pensano dovrebbe essere incluse nel prossimo modello. E se noi, come facciamo, le incorporiamo nei nostri nuovi modelli, diventeranno loro stessi i principali diffusori del nostro brand».

Queste sono caratteristiche che fanno impazzire i cinesi, desiderosi di dire la propria, di sentirsi parte di un brand che finalmente è cinese ma sembra unire le capacità tecnologiche e di marketing occidentali, alle caratteristiche del mercato locale, sempre più elaborato e complicato. Secondo il fondatore di Xiaomi, «ci sono tre pilastri nel nostro modello di business: la partecipazione dei fan nel design del prodotto, la vendita dello smartphone alla nostra base dei fans, il contenimento dei costi di distribuzione attraverso l’innovazione del modello di business, ovvero la vendita solo ed esclusivamente on line».

Per chi cerca idee di investimento in Cina, Xiaomi rappresenta un esempio clamoroso. Come hanno riportato alcuni magazine economici, «l’impennata della valutazione di Xiaomi ha sorpreso molti nell’estate del 2010, quando l’azienda si è assicurata un investimento di 41 milioni di dollari da Morningside Ventures, Qiming Venture Partners e IDG Capital Partners. La valutazione della società allora è stata di 250 milioni di dollari. Nell’ottobre 2011 Xiaomi attratto altri tre investitori con 90 milioni di dollari, e la valutazione della società a quel tempo è diventata di 1miliardo».

Sono poi arrivati i finanziamenti di un fondo sovrano singaporeano, di un gruppo di russi e due amici di Lei. Oggi Xiaomi varrebbe 10 miliardi di dollari.

Infine, nel successo di Xiaomi, c’è tutta la capacità e inventiva del creatore del marchio, Lei Jun. Di lui, Kaifu Lee, ex Microsoft e Google Cina, considerato uno degli osservatori più importanti del mondo tecnologico cinese e a capo di un’azienda che finanzia start up cinesi, ha detto che «è un imprenditore fenomenale, sa capire come nessuna altro le esigenze degli utenti e del mercato e ha questo incredibile desiderio di creare un marchio noto nel mondo tecnologico mondiale».

Di Lei Jun si sa poco, benché ormai sia considerato una celebrità: nato a Wuhan, dove ha frequentato l’università di ingegneria, sarebbe stato folgorato da una biografia di Steve Jobs, letta nel 1987. «Sono stato fortemente influenzato da quel libro, e ho voluto creare una società di prima classe», ha detto Lei Jun, che sul parallelo tra la sua creatura e Apple, ha le idee piuttosto chiare: «i media cinesi mi dipingono spesso come lo Steve Jobs cinese? Lo prenderò come un complimento, anche perché questo tipo di confronto porta una pressione enorme. Xiaomi e Apple però sono due aziende completamente diverse. Xiaomi è basata su Internet, non facciamo la stessa cosa di Apple». Così disse l’uomo tecnologico del momento Cina, e chissà a breve, del mondo.

(Fonte china-files)

Xiaomi M2S MI2S Quad Core

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