Fin da piccolo Frédéric Bourdin ha avuto un problema: trovare una famiglia che lo amasse. Per questo si è inventato vite non sue e negli anni ha rubato l’identità di 500 persone. Fino all’ultimo, fatale “capolavoro”: vestire i panni di un giovane scomparso in Texas.
Nicholas Barclay è un ragazzo americano di 13 anni scomparso nel 1994 non lontano da casa sua, nella città di San Antonio in Texas. Riapparso 3 anni e mezzo dopo a Linares, in Spagna, raccontò di essere stato sequestrato per strada, trasportato in Europa in aereo e sottoposto ad abusi sistematici da parte di un gruppo di pedofili francesi prima di riuscire a fuggire. La sorella di Nicholas, allora sedi- cenne, andò a prendere il ragazzo, rimasto traumatizzato da questa esperienza, e lo riportò in America, fra le braccia dei familiari. Il giovane, però, non era Nicholas. E non aveva 16 anni. In realtà era Frédéric Bourdin, un ventitreenne francese detto «il Camaleonte» con un lungo curriculum d’identità e nomi falsi. Bourdin era stato così convincente da ingannare le autorità spagnole, il consolato americano, ma perfino l’Fbi e la stessa famiglia di Nicholas Barclay. Alla fine di agosto la vicenda è stata raccontata, per ora soltanto negli Stati Uniti, da The Imposter (l’impostore): un docufilm che ripercorre la storia di Bourdin attraverso interviste rilasciate dai protagonisti ed efficacissime ricostruzioni della sua incredibile vita(guarda il trailer a fine post).
Frédéric Bourdin oggi ha 38 anni e vive in Francia, nei pressi di Le Mans. È un uomo basso, il fisico massiccio, radi capelli scuri e un’andatura veloce e decisa. Vive in una casetta a schiera con la moglie, Isabelle, e i loro tre figli. Bourdin si descrive come «un emarginato». È nato nel 1974 in un sobborgo di Parigi. La madre, Ghislaine, lavorava in fabbrica e aveva 18 anni quando rimase incinta. Bourdin non ha mai conosciuto il padre, un algerino. A 5 anni si è trasferito con i nonni nel villaggio di Mouchamps, vicino a Nantes. Il nonno, racconta, «era un razzista. Pensava che gli arabi fossero esseri inferiori. E sfogava tutta la sua rabbia sui figli e sulla moglie». La madre era spesso assente e violenta. Essendo per metà algerino, i genitori francesi degli altri bambini impedivano ai figli di giocare con lui. E a partire da 8 anni, ricorda, ha vissuto nel terrore delle molestie di un vicino. Non fu sporta alcuna denuncia, e solo perché la nonna non voleva uno scandalo, commenta. «Quando chi dovrebbe volerti bene ti fa provare vergogna per ciò che sei, quando ti fanno sentire una merda, allora provi a diventare qualcuno che sia fonte di orgoglio, qualcuno da amare» dice. «Sogni di essere qualcun altro». Costretto a vivere un’infanzia solitaria, il piccolo Frédéric a scuola si trasformò nel classico elemento di disturbo: a 12 anni fu mandato in un istituto correzionale vicino a Nantes e a 16 venne trasferito in un altro collegio, da dove decise di scappare per raggiungere Parigi in autostop. Qui, nel metrò, incontrò due sconosciuti: lo portarono in un bar, lo spinsero a ubriacarsi e gli rubarono la carta d’identità. Perso, senza soldi, Bourdin chiamò da una cabina telefonica la polizia: si finse un turista e segnalò di avere trovato un ragazzino straniero che si era perso. Quindi attese l’arrivo della volante e, fintosi il ragazzino, fu preso e portato in questura. Ma la sua storia fu rapidamente smontata, perché non sapeva l’inglese. Bourdin è un abile narratore ed è facile provare compassione mentre spiega come finì per ritrovarsi da solo per le strade di Parigi, vulnerabile e impaurito. Ed è evidente la capacità persuasiva con cui per tanto tempo ha inventato, a centinaia, storie di abusi, rapimenti, traumi e perdite di genitori.
Nei 7 anni successivi alla fuga attraversò mezza Europa, vivendo in quasi 140 diversi istituti e rifugi per l’infanzia e nascondendosi dietro 500 diverse identità fittizie. Imparò a sembrare più giovane, ad ammorbidire la voce, a modificare la postura. Usò addirittura creme depilatorie per alterare il suo aspetto. A volte si fingeva muto. «Il mio unico obiettivo» racconta «consisteva nel fare in modo che nel mondo qualcuno si prendesse cura di me». Frédéric però si era dato delle regole: non gli piaceva rubare, racconta, e giura di non avere mai ingannato nessuno per denaro, né frodato le ferrovie: si è sempre spostato in autostop. Aveva un solo obiettivo: trovare riparo, una famiglia, amore. «L’unico modo che conoscevo per raggiungere questo scopo era fingermi un quattordicenne» sostiene.
Nell’ottobre del 1997 trovò alloggio in una casa di accoglienza per giovani a Linares, in Spagna, fingendosi ancora una volta un ragazzino. Dubbioso, il giudice dei servizi per l’infanzia gli concesse due possibilità: dire la verità o ritrovarsi schedato. Fino ad allora Bourdin si era limitato a inventare delle identità. In quell’occasione, invece, scelse di rubarne una. Essendosi dichiarato americano, convinse il giudice a lasciargli usare un ufficio nella casa di accoglienza, col pretesto di chiamare la famiglia in patria. Dopo avere telefonato a diverse stazioni di polizia in America, riuscì a mettersi in contatto con il National centre for missing and exploited children (Ncmec) in Virginia, il centro che si occupa dei bambini scomparsi. Fingendosi il direttore dell’istituto di Linares, comunicò alla donna all’altro capo della linea che si era presentato in sede un giovane americano: poi fornì una descrizione approssimativa di se stesso. Al termine di una ricerca, la donna suggerì che poteva trattarsi di Nicholas Barclay, scomparso 3 anni prima a San Antonio, in Texas. Bourdin le chiese di inviare via fax ulteriori dettagli di Nicholas, che gli furono sufficienti a delineare una nuova identità. Poi richiamò il Ncmec. «Ho buone notizie» disse: «Nicholas Barclay è proprio qui di fianco a me». Il giorno dopo Bourdin intercettò un pacco del Ncmec contenente un dossier completo su Nicholas: era biondo, aveva gli occhi blu e il tatuaggio di una croce sulla mano. Bourdin si tinse i capelli e si fece fare un tatuaggio simile nello stesso punto da un amico della casa di accoglienza. Ora aveva bisogno di una storia. Raccontò quindi che, dopo essere stato rapito a San Antonio, era stato portato in Europa, dove era stato vittima di abusi da parte di un gruppo di pedofili, fino al momento in cui era riuscito a scappare. Raccontò che i suoi aguzzini gli avevano fatto iniezioni negli occhi, che da blu erano diventati marroni. E che per anni gli era stato proibito di parlare in inglese, da cui il marcato accento francese. Era una strategia disperata che rischiava di sfuggirgli di mano. «Mi creda, non era piacevole» ammette. «Così, quando il giudice venne a comunicarmi che mia sorella stava arrivando a prendermi, mi sentii male. Credevo di avere la situazione sotto controllo, ma non era così». Riflettendoci, oggi Bourdin è convinto che sia stato un gioco del destino. E analizza una notevole serie di sconvolgenti coincidenze: Nicholas Barclay aveva una sorellastra, esattamente come lui; era stato abbandonato dal padre da bambino, come lui; e infine era scomparso da casa un 13 giugno, proprio il giorno del compleanno di Bourdin. «Non riesco a considerare tutti questi elementi come semplici coincidenze» dice, come se questo sminuisse le sue responsabilità. Carey Gibson, la sorella maggiore di Nicholas, non aveva mai preso l’aereo. In un’intervista data al New Yorker nel 2008, sua madre, Beverly Dollarhide, la descrisse come una ragazza «dal cuore grande» e «facile da manipolare». «Io non mi aspettavo di riuscire a ingannarla» racconta Bourdin. Invece, quando finalmente si videro, Carey gli andò incontro, lo abbracciò e gli disse: «Oh, Nick, sapevo che eri tu». Lasciarono insieme la casa di accoglienza e presero alloggio in un albergo. Ci fu un solo momento di perplessità. Quella sera, sostiene Bourdin, entrando in un bar lei si girò e gli chiese: «Tu non sei Nick, vero? Chi sei?». «Le risposi con vigore: “Certo che sono Nicholas”. E questo le bastò». Il giorno seguente volarono insieme in Texas. Bourdin, però, ben presto si rese conto che anche la sua nuova famiglia era problematica, proprio come quella in cui era cresciuto. La madre di Nicholas, Beverly, era un’eroinomane che aveva cresciuto da sola Nicholas, Carey e un fratello più grande, Jason, anch’egli con problemi di droga. Il vero Nicholas, nella descrizione della madre, era «un adolescente fuori controllo; era già scappato di casa più volte e i vicini non permettevano ai propri figli di avvicinarlo». Quando Bourdin entrò a fare parte della famiglia, Beverly stava provando a uscire dalla dipendenza con il metadone e sbarcava il lunario lavorando di notte in un locale di San Antonio. Bourdin si stabilì da Carey, fuori San Antonio, nella casa dove la donna viveva con il marito e i figli. Si iscrisse alla scuola superiore del posto. Di sera faceva i compiti e guardava la tv con la famiglia. Diceva spesso a Carey che era bello essere a casa. Ma la domanda è inevitabile: come ha potuto la famiglia credere che Bourdin fosse veramente Nicholas? Soprattutto, come ha potuto Beverly credere che fosse suo figlio? Bourdin è fermamente convinto che non ci credesse per nulla. Tutto sembrava mostrare che l’intera famiglia avesse ben compreso che lui non era Nicholas, sostiene Bourdin. Ma la testimonianza filmata di Beverly Dollarhide in The Imposter contraddice queste affermazioni. «Nicholas effettivamente era cambiato in modo sbalorditivo» dichiara. «Ma doveva essere diverso per forza: ne aveva passate troppe». Solo Jason, il fratello maggiore, aveva mantenuto le distanze dal redivivo Nicholas. Oggi Frédéric Bourdin sa di avere inflitto un dolore tremendo alla famiglia. «Stavo facendo del male a quella gente» ammette. «Ciò che ho fatto è stato crudele, malvagio e merito ogni punizione che mi è stata data. Ma non l’ho calcolato: è successo». Avendo programmato un servizio sul ritorno di Nicholas in famiglia, una trasmissione televisiva di attualità dal titolo Hard Copy aveva incaricato un investigatore privato del posto, Charlie Parker, di rintracciare la famiglia e organizzare un’intervista con il ragazzo. Parker ha confidato che guardando una fotografia di Nicholas posata su un tavolo individuò una strana anomalia: le orecchie di Bourdin avevano una forma diversa. Parker ricordò di avere letto che la forma delle orecchie è unica e speciale per ogni persona, quasi come le impronte digitali. James Earl Ray, l’assassino di Martin Luther King, era stato incastrato proprio grazie a questa caratteristica. Dunque il giovane ricomparso non poteva essere Nicholas Barclay. Ma la sua intuizione fu ignorata. Ritenendo però che Bourdin potesse essere una spia o un terrorista, Parker iniziò a seguirlo. E dopo due mesi trascorsi a spacciarsi per Nicholas, Frédéric Bourdin cominciò a crollare. Fu sospeso da scuola. Tentò di ferirsi il volto con una lametta e venne ricoverato in ospedale sotto osservazione. «Mi resi conto di essermi infilato in un buco così profondo da non avere la più pallida idea di come uscirne» racconta. «Mi sentivo perduto». Anche l’Fbi, intanto, cominciava a nutrire i primi sospetti su di lui. Con la scusa di un esame psicologico di routine, l’agente Nancy Fisher portò Bourdin da un medico legale di Houston, che le spiegò come l’accento del ragazzo dimostrasse chiaramente che non poteva essere americano. Poi, quando l’agente Fisher chiese a Beverly e a Bourdin di fornire campioni di dna per confermare il riconoscimento, Beverly rifiutò. Qualche tempo dopo, però, l’investigatore privato Parker ricevette una telefonata della donna: Beverly gli raccontò che Nicholas, passando davanti alla vecchia scuola elementare, non l’aveva riconosciuta. «Piangeva, era sconvolta e sembrava davvero preoccupata» racconta Parker. La mattina seguente il detective incontrò Bourdin in un ristorante, dove il giovane, messo alle strette, finalmente confessò la sua vera identità. Parker telefonò all’Fbi e Bourdin fu arrestato il 6 marzo 1998.
Bourdin ammette di avere incontrato Parker, ma nega di avergli confessato alcunché. «Sarebbe stata l’ultima persona a cui avrei detto chi ero». Bourdin è stato condannato a 6 anni di carcere per spergiuro e per essersi procurato documenti falsi. Dopo 5 anni è stato rilasciato e rimandato in Francia, dove è tornato alle sue vecchie abitudini. Nel 2003 è stato arrestato per avere tentato di assumere l’identità di un ragazzo francese di 14 anni, scomparso 8 anni prima, ma un test del dna lo ha smascherato. Nel 2005 ha trovato rifugio in una casa di accoglienza a Pau, nel sud-ovest della Francia, dopo essersi fatto passare per il sedicenne Francisco Hernandez. Ma uno dei responsabili lo ha riconosciuto in un programma televisivo. Nel 2006, con i soldi guadagnati grazie alla partecipazione a un documentario giapponese, Bourdin si è trasferito in un paesino ai piedi dei Pirenei e ha aperto un blog. È stato allora che ha ricevuto un messaggio da una ragazza di nome Isabelle, che proveniva da una situazione familiare infelice. Ispirata dal blog di Bourdin, aveva lasciato la famiglia e si era trasferita a Parigi per studiare legge alla Sorbona. Gli scrisse ringraziandolo per averla ispirata a rifarsi una sua vita. Isabelle e Bourdin si sono incontrati e nel 2007 si sono sposati. «Non sapevo se fossi abbastanza forte da avere una relazione con una donna. Ma sapevo che se non l’avessi sposata, se non le avessi dato dei figli e non l’avessi amata, non sarebbe mai stata felice. Invece volevo che fosse felice. Sono l’unica persona che le ha fatto credere che l’amore è un sentimento positivo». Oggi Frédéric Bourdin è stato assunto dal circuito automobilistico di Le Mans come addetto alla sicurezza. Il lavoro non gli manca, spiega: si occupa dell’addestramento e dell’allevamento di cani. Un lavoro stabile, una casa, una famiglia. Protezione e amore. Sembra che finalmente abbia trovato ciò che cercava da sempre.
(Fonte Telegraph Magazine – Traduzione Studio Brindani per Panorama)
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