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Vi spiego la giornata tipo di un insegnante

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“Dopo 34 anni di insegnamento, viaggiando in lungo e in largo nella provincia emiliana, ho una dubbio che mi tormenta e vorrei tanto che qualcuno, tra coloro che scrivono e parlano di scuola, potesse aiutami a risolverlo.

Desidero semplicemente sapere come un cittadino italiano immagina il pomeriggio di un insegnante medio. Quando il sottosegretario Reggi (un ingegnere e non un docente), quando un cittadino qualsiasi pensano che l’orario di un docente si limiti alle ore frontali in classe e al monte ore annuale di riunioni, consigli di classe, ricevimenti e quant’altro, significa che in questo paese non è storicamente possibile uscire da uno stereotipo secolare, da una sorta di prigione ideologica che non ci consente di vedere quello che sta sotto i nostri occhi. Se apro i quaderni di mio figlio vedo la mole di lavoro che viene svolta ogni mattina e che qualcuno ha preparato; se mi collego al sito della scuola leggo i voti dei compiti in classe che qualcuno ha pazientemente corretto; se mi informo sul Pof dell’Istituto mi inoltro in una rete complessa di progetti: tutte occasioni di formazione e apprendimento che qualcuno ha pensato, organizzato e gestito. Chi è quel “qualcuno”?

Fare una “semplice” lezione (non dico una lezione in una classe ad abilità differenziate, non dico una lezione che si avvale di nuove tecnologie didattiche, dico una normale e onesta lezione) presuppone sempre una preparazione da parte del docente. La preparazione è il prerequisito della riuscita dell’intervento in classe e della sua efficacia e si basa sul presupposto che al pomeriggio il docente studi e si prepari. Un esempio di giornata tipo?

Lunedì: otto meno dieci, classe terza di un Liceo. L’insegnante di Italiano spiega il canto 26 dell’Inferno di Dante, alla seconda ora interroga in storia sulle cause del passaggio dal Comune alla Signoria. Alla terza ora entra in classe quarta e legge, parafrasa e analizza un sonetto di Foscolo, alla quarta ora spiega la Rivoluzione francese, infine entra in un’altra classe terza e consegna dei compiti, correggendo alla lavagna gli errori di grammatica e sintassi, poi introduce le origini del poema cavalleresco. Questa è la routine di un insegnante medio, non è un genio, non sta sperimentando percorsi o moduli particolari, ma poiché non può ricordare tutti i contenuti a memoria, passa buona parte del suo tempo a preparare le lezioni, i compiti, le integrazioni al libro di testo.

Invece nel nostro paese in molti devono pensare che al mattino il professore, di fronte a 28 studenti di 16-17 anni, si metta a raccontare i suoi sogni, il film visto la sera prima, il suo primo amore (tanto per familiarizzare), oppure legga per ore il giornale, oppure … (ditelo voi come vi immaginate che passiamo il tempo fuori dalle fatidiche “18 ore”). E non è vero che il tempo di un insegnante non è contabilizzabile. Lo è nella maggior parte dei casi. E’ un calcolo facile e matematico. Basta contare il numero dei compiti in classe, moltiplicarlo per gli alunni e le classi e sommare il tutto a una pur vaga idea dell’insegnamento della materia. Abbiamo provato a dimostrarlo tante volte, ma l’ipocrisia di ritenere gli insegnanti dei lavoratori part time fa comodo per continuare a non pagarli come i loro colleghi europei. Da decenni ormai, un giorno sì e uno no si spara a zero sugli insegnanti.

Noi siamo i fannulloni brunettiani ma stiamo facendo gli esami di maturità e i corsi di recupero, siamo i fannulloni ma con preparazione e pragmatismo facciamo funzionare le scuole anche senza soldi. Invece è vero che non rinnoviamo il contratto da sette anni, che gli scatti di anzianità riconosciuti solo fino al 2012 hanno tolto risorse al Fondo d’Istituto, quindi a tutti gli altri docenti e soprattutto agli studenti, poiché quel fondo si traduceva in progetti di offerta formativa.

Gli altri paesi investono in istruzione e cultura, noi lasciamo andare i nostri laureati più brillanti all’estero, dove non li rimandano a casa, anzi li trovano molto preparati e gli offrono delle opportunità di lavoro. Ma chi li ha formati? Sempre quel qualcuno che lavora part time?” Cinzia Ruozzi – Insegnante di scuola secondaria di Reggio

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“Quante volte penso: mi tolgo il casco e mi unisco a loro”

Marco è un poliziotto del reparto Mobile quello che a ogni sciopero e manifestazione viene impiegato per tutelare l’ordine pubblico e si trova di fronte chi urla slogan per i suoi stessi diritti negati. 

Assieme al casco, al manganello, non ci danno mica in dotazione anche un cuore di…pietra. Il mio cuore è quello di un padre che quando torna a casa dopo una manifestazione pensa a come fare a pagare il mutuo e a sfamare i figli con quella miseria di stipendio che prende”. Marco è un poliziotto del reparto Mobile quello che a ogni sciopero e manifestazione viene impiegato per tutelare l’ordine pubblico e si trova di fronte chi urla slogan per i suoi stessi diritti negati. Accetta di parlare a patto che non scriviamo il suo cognome. Quarant’anni, sposato, padre di tre figli. La più grande ha 16 anni, la stessa età di quei ragazzi che il 14 novembre scorso hanno manifestato a Roma, assieme agli operai, per dire no alle politiche liberiste che negano il loro diritto al futuro. “La vuole sapere una cosa? C’era anche mia figlia alla manifestazione. I nostri sguardi si sono incrociati. Era la prima volta che accadeva e per un attimo mi sono sentito mancare il respiro” confessa Marco consegnando l’immagine di due facce di una stessa medaglia che si incontrano sul Lungotevere. “Purtroppo, anche se le loro ragioni sono giuste, noi delle forze dell’ordine dobbiamo, a malincuore, fare quello per cui siamo pagati, perché questo è il lavoro che ci permette di vivere, o meglio, di sopravvivere, campare con un solo stipendio in quattro non è una passeggiata. E per 1.200/1.300 euro al mese ci prendiamo di tutto: sputi, insulti, offese magari a nostra madre morta un mese prima o a nostra moglie e restiamo lì zitti e fermi come è giusto che sia, per carità, ma a volte si sbaglia e a chi non capita di sbagliare quando è sotto pressione? Forse sono un poliziotto troppo sensibile, ma è meglio così, almeno mi sento vivo”.

Vivo, certo, ma con quel nodo che lo attanaglia alla gola quando la sera “seduto sul divano con i miei figli accanto vediamo scorrere in tv le immagini di colleghi che usano il manganello come fosse un giocattolo e loro attori attori di un film violento.E invece sono poliziotti come me, miei colleghi che menano studenti che manifestano pacificamente con gli zainetti in spalle. Studenti come mia figlia. Mi vengono i brividi solo a pensarci. Mi metto nei panni di quei genitori e mi chiedo cosa farei io se qualcuno prendesse mia figlia a manganellate mentre è in piazza a manifestare”.

La voce di Marco si incrina. “Scusi, scusi mi sono commosso un po’ per la rabbia un po’ perché mi fa male pensare che le persone, invece di vederci come siamo, nient’altro che poveri cristi che cercano di tutelare l’ordine pubblico, ci odiano. Mia figlia mi ha detto che i suoi compagni di scuola le hanno chiesto se sono violento, se uso anch’io il manganello. Capisce com’è diventato difficile fare questo lavoro? Mi rendo conto che può non essere facile, a volte, mantenere la calma di fronte a chi ti si lancia contro con le spranghe di ferro, passamontagna e ti urla: sporco servo, ma tu sei un poliziotto e devi dare l’esempio, tu sei lo Stato e lo devi onorare”. Figli dello stesso popolo, avrebbe detto Pier Paolo Pasolini. “Siamo abituati a fare i conti con la povertà fin da piccoli” continua Marco, nato in un paesino della Basilicata da padre e madre operai in fabbrica, quinto di sei figli. Ricorda bene la risposta del padre quando, dopo le scuole medie, gli chiese di potersi iscrivere al liceo classico: “‘Vuoi che vado a rubare per farti studiare?’. Ci ripenso ogni volta che nelle piazze sento i giovani urlare: lo studio è un diritto e non si tocca. Per me non è stato così. E mi dico: ma che ordine vuoi tutelare, Marco, quando la democrazia ha perso le gambe e cammina con le stampelle? Sai quante volte ho pensato: adesso mi tolgo il casco e mi unisco a loro”.

A Francoforte è accaduto. “Non lo so. Però se lo fanno in pochi si chiama abbandono di posto e non obbedienza a un ordine e si finisce davanti al giudice e poi licenziati. Se lo fanno tutti si chiama colpo di Stato e io alla democrazia, seppure zoppa e malconcia, ci credo sempre. Però una cosa la vorrei: i caschi numerati, così si sa subito che non sei tu quel poliziotto che manganellava sul volto un ragazzo caduto a terra. Che brutta storia. Mi sono vergognato per la divisa che porto mentre, a tavola con la mia famiglia, vedevamo in tv quelle scene”.

Continua a raccontare, Marco: “Ai colleghi che si difendono dicendo che l’insulto fa andare il sangue al cervello, spiego sempre che niente giustifica l’eccesso e che gli strumenti che abbiamo sono di difesa, non di attacco. Oltretutto ci insegnano che il manganello non deve mai colpire la testa di una persona perché potrebbe anche provocare la morte. Però c’è anche chi sfoga in quel momento tutta la rabbia repressa che ha in corpo per uno stipendio da fame e pensa che quei ragazzi siano tutti figli di papà che protestano per vezzo. Più cresce l’ingiustizia sociale più aumenta la violenza. Ma noi siamo poliziotti e dobbiamo restare umani”.

(Fonte Il Fatto Quotidiano)

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