
1. Cosa è lo spread
Riproduco la prima definizione dello spread che mi capita a tiro su Google – dal sito di Pierferdinando Casini – «lo spread è la differenza tra il tasso di interesse pagato dallo stato italiano e quello pagato dallo stato tedesco (reputato uno degli investimenti più sicuri). Supponiamo che abbiamo un tasso pari a 6%, se quello tedesco è del 2%, allora lo spread è del 4% (6-2=4)».
Questa definizione è condivisibile e generalmente accettata.
La ragione per cui si prende come riferimento lo spread con i titoli del debito tedesco per valutare l’andamento dei titoli del nostro debito pubblico sarebbe, citando sempre dalla stessa fonte, la seguente: «Lo spread è il differenziale tra il nostro tasso di interesse (che lo stato paga sui Btp) e un tasso di interesse preso come “pietra di paragone” e che generalmente è pagato dagli investimenti ritenuti “sicuri”. In pratica, più rischioso è l’investimento, maggiore è l’interesse che vuole chi presta il denaro. Se la cosa vi sembra eticamente discutibile, provate a riflettere: voi prestereste denaro ad una persona inaffidabile con il rischio di non averlo restituito? E se prestate questo denaro, è chiaro che maggiore è il rischio, maggiore è il guadagno che chiedete per compensare il rischio corso. Allo stesso modo dobbiamo ragionare con lo spread e il nostro debito pubblico.».
La ricetta è dunque facilmente intuitiva sulla base di una semplice analogia – forse troppo semplice – tra lo Stato ed un qualsiasi privato debitore. Lo Stato italiano, se vuole pagare meno interessi sul debito deve divenire più affidabile – risanando i conti e dando stabilità al Governo del Paese come la Germania presa come “pietra di paragone”. Insomma se lo spread con la Germania scende è il segnale che l’Italia si sta comportando bene avvicinandosi alla pietra di paragone, se sale invece il segnale sarebbe negativo.
In questa accezione comunemente accolta, lo spread dunque è un monito, ci richiama l’esempio del rigore e del buon governo per uscire dalla crisi. In sintesi indebitarsi ai tedeschi costa meno di quanto costi a noi, perché il loro Stato è ritenuto più affidabile del nostro. Questa è la facile, quanto ovvia conclusione. Ma non è così o, per meglio dire, non è questo l’aspetto principale sul quale concentrare l’attenzione.
2. Perché lo spread è un parametro (utilizzato in modo) fuorviante
L’affermazione che il debito tedesco costi meno per l’affidabilità della Germania è al contempo vera e falsa. È vero che la maggiore solvibilità della Germania rende meno oneroso il debito tedesco, ma non è vero che sia lo spread tra il nostro debito e quello tedesco l’indicatore principale cui fare riferimento per valutare il costo del nostro debito pubblico che, invece, dipende essenzialmente da un altro fattore e cioè dal cambio tra dollaro e euro. Per capirci.
Quando ci occupiamo del costo del debito, ci dovrebbe interessare in realtà – e concretamente – non tanto il differenziale con il debito tedesco ma quali costi sosteniamo per prendere in prestito le risorse di cui abbiamo bisogno per finanziare il bilancio dello stato, cioè il costo effettivo del nostro debito pubblico. Tanto per esemplificare, se lo spread tra Bpt e Bund fosse bassissimo, poniamo al 2%, ma il tasso di interesse dei Btp fosse all’8% per noi non andrebbe certo bene, e sarebbe una ben magra consolazione il fatto che la Germania paghi sui Bund il 6%. Dunque lo spread come parametro è fuorviante per valutare l’andamento del debito, ci dà solo un differenziale, stabilisce una correlazione tra due variabili ma non ci spiega da cosa in definitiva entrambe le variabili sono influenzate.
Anzi, in questa prospettiva, l’andamento del tasso di interesse del debito, proprio per la prevalenza accordata allo spread, rimane velato dal quotidiano reiterato bombardamento mediatico che costringe e restringe la nostra comprensione alla contemplazione di quell’unico indice.
Allora è da chiederci perché, invece di occuparci e preoccuparci effettivamente delle cause che determinano le variazioni del tasso di interesse in quanto tale, e cioè del costo effettivo del nostro debito, si puntano sempre e solo i riflettori sullo spread. Il fatto è che dallo spread tra i due titoli si fa discendere un giudizio politico ed economico e, conseguentemente, una valutazione politica sull’azione del Governo nazionale.
Cito sempre dallo stesso sito su Google «Da queste considerazioni discende che se uno Stato, come ad esempio l’Italia, diventa sempre più inaffidabile a causa dell’andamento dell’economia o perché i governanti non fanno le riforme o si dimostrano incapaci, chiaramente il tasso di interesse che paga salirà e quindi salirà anche lo spread».
Si suppone, dunque, in uno stretto sillogismo: “chiaramente” che se ci si allontana dallo Stato tedesco quale “pietra di paragone” della virtù finanziaria, il nostro debito necessariamente peggiora. Le cause dell’aumento o della diminuzione dello spread con il tasso di interesse tedesco sarebbero quindi da ricondursi all’“andamento della economia italiana”, e anche questa, per unanime convinzione, dovrebbe essere verificata secondo tre ordini di fattori: la credibilità del Governo e la sua capacità di “fare le riforme”; il tasso di crescita del debito; il rapporto tra Pil e debito pubblico. In sintesi, sarebbe quindi l’azione del Governo italiano che può determinare, incidendo sui tre fattori critici, una riduzione dello spread e, quindi, un miglioramento del tasso di interesse che paghiamo sul debito pubblico.
In conclusione il costo del debito scende se il Paese è in grado di mandare segnali rassicuranti ai mercati finanziari su quei tre fronti. La risposta dei mercati ai questi segnali sarebbe invece data dalle oscillazioni dello spread.
3. Il tasso di interesse del debito pubblico dipende principalmente dal cambio dollaro/euro
Di conseguenza la convinzione che la riduzione o l’aumento dello spread sia dipeso e dipenda principalmente dall’azione del Governo italiano è fortemente radicata nell’opinione pubblica ed è sostenuta di un pensiero finanziario unico.
Afferma al riguardo lo stesso Presidente M. Monti – ma anche questa è solo una autorevole citazione tra le tante – : «Dal primo luglio (2011) la crisi dello spread è entrata nel vivo: 185 punti. La salita è stata inarrestata fino al massimo di 558 del 9 novembre (2011). Quel giorno Napolitano mi ha annunciato la nomina. Da lì è sceso a 410 del 6 dicembre, dopo il nostro decreto legge …». Il discorso, anche se il Presidente Monti non lo dice espressamente, sembra lasciare intendere che sia stato il decreto legge cd. “Salva Italia” ad invertire la tendenza, appunto, come dice il nome, innescando il processo di salvezza. Nella stessa prospettiva anche la Banca d’Italia allorché afferma – cito fonti giornalistiche – che il differenziale corretto dovrebbe essere intorno ai 200 punti.
Il ragionamento sembra muoversi nella stessa linea interpretativa: dati i fattori strutturali di base delle due economie, se viene eliminato il fattore anomalo del divario di credibilità politica, lo spread con la Germania dovrebbe attestarsi all’incirca di quell’ordine di riferimento.
Ancora ultimante sulla stampa quotidiana e sempre su internet è dato leggere «Il premier uscente (Monti) aveva indicato come obiettivo quota 287, ossia la metà di quei 574 punti ereditati dal governo Berlusconi a novembre 2011…». Insomma la correlazione tra l’azione politica del Governo e l’andamento dello spread appare così ovvia a tutti da non necessitare di particolari spiegazioni. È stata l’azione del Governo attuale che, divenendo maggiormente credibile rispetto a quello precedente, ha consentito di raggiungere l’obbiettivo dando il segnale di controtendenza per un allentamento della speculazione contro il nostro debito pubblico.
E quando nella giornata del 2 gennaio 2013 lo spread è sceso a 287 punti, raggiungendo per la prima volta la soglia obiettivo del Premier dimissionario, il Presidente Monti soddisfatto afferma su Twitter: «Finalmente…»
«Finalmente …». Va bene … “obiettivo” raggiunto.
Ma è veramente così ?
C’è da chiedersi: come è possibile che lo spread sia sceso e che stia continuando a scendere – siamo ora intorno a 260 punti – nonostante il Governo Monti sia dimissionario e mentre sulla sponda del Reno si affaccia una Merkel trionfante, un Governo in forte recupero di consensi con un debito pubblico in effettivo contenimento.
Lo spread starebbe dunque scendendo nonostante i tre fattori critici girino da noi – a differenza di quanto avviene in Germania – in senso negativo: l’affidabilità del Governo italiano vacilla in uno scontro politico-elettorale in cui la nostra classe politica da il “meglio di sé”; il debito pubblico è aumentato di circa 100 Mld di euro durante l’ultimo Governo (seppure con un tasso di crescita inferiore rispetto a quello del precedente esecutivo); ed anche il rapporto tra Pil e debito pubblico ha segnato un ulteriormente peggioramento.
Ciononostante lo spread è sceso, e sta ancora scendendo.
Si potrebbe gridare al miracolo?
Il fatto è che lo spread, tra Italia e Germania, a questo punto dovrebbe essere chiaro, ha – di per sé – poco a che vedere con l’andamento del tasso di interesse sul debito. Non è l’indicatore sintomatico delle cause di modifica del tasso di interesse ma semmai ne è una sua conseguenza. C’è un inversione dell’ordine della causalità sul quale è necessario riflettere. È sul tasso di interesse in quanto tale che, invece, si dovrebbe concentrare l’attenzione e posare lo sguardo purché si riesca a staccarlo dalle ossessive icone mediatiche e dai diagrammi dello spread. Se si considera il problema delle oscillazioni dei tassi in modo oggettivo è difficile non convenire sul fatto che il tasso di interesse dipende essenzialmente dalla domanda di titoli del debito pubblico. Se la richiesta dei titoli cresce il prezzo del collocamento di converso scende e, dunque, il tasso di interesse si abbassa. La domanda di titoli dipende, a sua volta, essenzialmente dalla quantità di moneta offerta a certe ipotesi di costo e rendimento dei titoli.
Se le cose stanno in questo modo, allora la domanda giusta da porsi è la seguente: cosa è che, in questo momento, spinge la liquidità monetaria verso (anche) i nostri Btp, facendo salire la domanda di titoli di stato italiani in modo tale da abbatterne il costo, in misura più che proporzionale rispetto alla riduzione del costo del debito tedesco, determinando di conseguenza anche la diminuzione dello spread tra Bund e i buoni del tesoro italiano, nonostante il peggioramento dei fattori “critici” cui in precedenza si è fatto cenno?
La risposta a tale quesito, prescinde completamente dalla forzata correlazione dei debiti tra Italia e Germania, ed è la seguente: La domanda dei titoli di debito pubblico espressi in euro (quindi di tutti gli Stati dell’Eurozona) dipende essenzialmente, in prima battuta, dal tasso di cambio tra il dollaro e l’euro.
Se il cambio del dollaro scende rispetto all’euro – come in questo periodo sta scendendo con una certa continuità – si innesca una aspettativa negativa sul dollaro che, a sua volta, riattiva il carry trade su quella moneta. In altri termini la speculazione finanziaria, con un dollaro che perde al cambio con l’euro, ha convenienza ad indebitarsi in dollari per investire in euro, dato il bassissimo tasso di interesse praticato dalla FED, lucrando così sul differenziale del cambio e sul tasso di interesse dei titoli di stato (anche più elevato dei titoli americani). Si ripete quello che è già avvenuto nel periodo tra il 2007 ed il 2010, con un deprezzamento del 10% del cambio del dollaro sull’euro e con la FED come acquirente di prima ed ultima istanza dei titoli del Tesoro americano. Il che, a sua volta, ha contribuito a deprezzare ulteriormente il cambio del dollaro. Il carry trade fermato con “l’attacco all’euro” e con “il colpo di coda dollaro-centrico” nel 2011, 12 Per capire la difficoltà da parte della FED di controllare il carry trade sul dollaro bisogna avere una idea della dimensione della massa monetaria espressa in dollari. Essa rappresenta circa i 2/3 della si sta manifestando nuovamente . liquidità monetaria mondiale e i suoi detentori – altro punto critico – sono più al di fuori che dentro 23 gli USA ed i global players del “meta mercato finanziario sono dei battitori liberi” .
4. La difesa del valore dell’euro
La percezione dello stabilizzarsi di un trend negativo sul cambio del dollaro fa perciò inclinare il piano di questa ondeggiante massa monetaria verso l’investimento in altre valute ed, in particolare, verso l’euro orientando ed alimentando le aspettative della speculazione “contro” la moneta americana.
Nella scelta dell’investimento, che si allontana da un dollaro percepito in indebolimento, gli investimenti in euro si rafforzano in generale (ed è così che anche le quotazioni del mercato azionario risalgono anche nell’Eurozona). In allontanamento dal dollaro i detentori globali di liquidità vedono occasioni di investimento anche sui titoli del debito pubblico in euro. L’investimento speculativo guarda ovviamente e principalmente al rendimento delle diverse emissioni in euro, cioè al tasso di interesse corrisposto e alla scadenza del titolo. Ovviamente anche la qualità dello stato emittente, cioè la percezione della solvibilità dei singoli stati nel medio lungo periodo, gioca un ruolo importante. Essa spiega appunto i differenziali tra i tassi interni all’Eurozona, ma non spiega invece la tendenza di fondo che influenza prioritariamente i tassi stessi, e che dipende invece dall’andamento del cambio tra dollaro e euro.
Gli afflussi monetari in entrata accrescono le riserve in dollari e creano un surplus monetario nell’Eurozona. La BCE è in grado intervenire con maggiore facilità e, a questo punto, dopo le dichiarazioni del suo Presidente M. Draghi – che sono state una specie di contro bluff vincente – sulla intenzione della Banca Centrale di fare «tutto il necessario per proteggere l’euro», scommettere al ribasso sull’euro diventa più rischioso per la speculazione, che non ama perdere e corre invece in soccorso al vincitore.
Se, dunque, non vengono percepiti rischi di insolvenza nei titoli dell’Eurozona e l’euro in rafforzamento ne allontana sempre di più la prospettiva, le emissioni di titoli di Stato in tale valuta, anche quelle degli stati con i rating più bassi (ed in barba alle stesse valutazioni delle agenzie specializzate) divengono “appetibili” in quanto corrispondono interessi più elevati.
In questo modo i tassi di interesse del debito pubblico dell’Eurozona diminuiscono in modo generalizzato sebbene differenziato. Così, in questo contesto pro-ciclico per l’euro, i rendimenti dei titoli del debito pubblico di Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia si riducono in misura proporzionalmente maggiore rispetto a quelli più sicuri. Conseguentemente anche il differenziale con i titoli tedeschi si riduce, perché questi ultimi, già in precedenza bassi, non possono scendere “ulteriormente” senza correre il rischio che un rendimento eccessivamente basso – se non addirittura negativo – ne ostacoli il collocamento.
Il miracolo si spiega dunque semplicemente con la legge della domanda e dell’offerta.
Per una verifica di questa correlazione tra andamento dei tassi di interesse e andamento del cambio euro/dollaro, basta ripercorrere i grafici del cambio tra dollaro ed euro negli ultimi cinque anni per accertarsi come, alla perdita di valore del dollaro nei confronti dell’euro (2007-2010) si accompagni una correlata riduzione del costo del debito pubblico comunque espresso in euro e viceversa come il costo del debito pubblico nell’Eurozona cresca progressivamente anche se non allo stesso modo, per tutti, se il cambio dell’euro sul dollaro si deprezza. Con l’inversione di quel rapporto di cambio che nel terzo trimestre del 2012 inclina a favore dell’euro, l’abbattimento del costo dei debiti pubblici espressi in euro riprende e si riduce anche lo spread tra Btp e Bund.
Quale ricetta allora ?
Se vogliamo tenere basso il tasso di interesse sul debito pubblico in euro è necessario, in primo luogo ed essenzialmente, difendere il valore dell’euro ed impedire che sia affossato rispetto al dollaro che si svaluta da emissioni monetarie inflattive come tutta l’anglosfera finanziaria invece auspica .
In questo senso, si può allora convenire con la Merkel nel ritenere essenziale e prioritario l’obiettivo della difesa del valore dell’euro. Quanto detto, ovviamente, non toglie che, per il nostro Paese, sia altrettanto essenziale riqualificare la spesa, eliminare gli sprechi e le malversazioni del settore pubblico riducendo le imposte spostando il peso fiscale sulle rendite monopolistiche delle attività riservate . Questo va fatto non per corrispondere alle aspettative di quella specie di idolo irato che è il mercato finanziario nella rappresentazioni dominanti, ma per risanare la nostra economia e liberarla dal peso dei sovrastanti parassitismi. Ma la prima cosa da fare per ridurre il debito pubblico rimane comunque quella di impedirne la crescita per effetto dell’aumento degli oneri del suo finanziamento e questa prima linea difensiva può essere assicurata solo dalla stabilità del cambio dell’euro. Piuttosto, ci sarebbe da indagare più approfonditamente le ragioni per cui si continua a prestare eccessiva (se non a tratti ossessiva) attenzione alla sceneggiata corale sullo spread, sceneggiata le cui dinamiche di funzionamento sembrano ripercorrere lo schema – altrove indicato e diffusamente analizzato – del “reality della globalizzazione finanziaria”.
(Tratto dal sito www.amministrazioneincammino.luiss.it”- Giuseppe Di Gaspare)