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Video censurato: La Terza Guerra Mondiale silenziosa



“Quando si tratta di controllare gli esseri umani non c’è miglior strumento della menzogna. Perché, vedete, gli esseri umani vivono di credenze. E le credenze possono essere manipolate. Il potere di manipolare le credenze è l’unica cosa che conta” disse Michael Ende. Diffondere la verità da molto fastidio ai potenti della Terra. Loro sanno che io so e, adesso lo sapete anche voi. Condividete il video anche attraverso i social network. 

“Per chi non lo avesse ancora capito, siamo in guerra! E’ la terza guerra mondiale silenziosa, devastante, “come una nube tossica” che avvolge l’intera umanità. Lo scopo è sempre lo stesso, distruggere e conquistare. Solo che le armi non si chiamano più fucili, bombe o missili.

Si chiamano spread, derivati, BCE, SWAP, austerity, fiscal compact, MES, rating e altre ancora. Ma sono tutte armi di distruzione di massa, sono le milizie armate della finanza speculativa, quelle che strozzano l’economia, che insidia le democrazie, che ci rende timorosi e schiavi, che ci impone una vita che non vorremmo!

Sembra l’alba di una nuova era, un periodo in cui le scoperte nei vari settori della scienza e della medicina, avrebbero reso più facile la vita a tutti, debellato le malattie e la fame nel mondo. Tutti avremmo avuto più tempo libero perché le macchine avrebbero lavorato al posto nostro … ma non è andata così.

Il mondo contemporaneo indubbiamente ha bisogno di qualche modifica. Le morti per cancro aumentano, come le epidemie, le pandemie, le allergie, così come aumentano gli utili delle case farmaceutiche. La fame nel mondo non è stata sconfitta, la violenza continua a devastare intere regioni della Terra, la situazione di povertà spinge interi popoli ad emigrare sia negli Stati Uniti che nella vecchia Europa, le differenze sociali si ampliano, i ricchi sono sempre più ricchi, mentre la classe media è spinta verso la povertà e quella meno abbiente verso la miseria.

L’America risente ancora dei mutui subprime che ha minato definitivamente le certezze del popolo americano e generato una reazione negativa oltreoceano, sull’altro versante, quello europeo, gli stati europei sono strozzati dal debito di bilancio, tanto che grossa parte della spesa statale è destinata al pagamento dei soli interessi, senza nessuna possibilità di ridurre il debito stesso.

L’America e l’Europa che devono trainare il mondo, sono state travolte dalla più imponente crisi finanziaria della storia con risvolti sociali e culturali ancora da decifrare. Siamo sicuri che la situazione americana ed europea siano così di natura diversa da come vogliono far credere i media? Oppure sono solo facce della stessa medaglia? Forse è l’attacco definitivo per il dominio del mondo da parte di un organismo che non ha bandiere né stato di appartenenza.

Il Nuovo Ordine Mondiale, quello della finanza, che ha preso lentamente il potere, sottraendolo alla politica, che è diventata sua serva. Nessuno osa alzare la voce, nessuno del popolo sovrano. Ma io lo farò. Dobbiamo riprenderci il potere, strapparlo alla finanza, quella che si permette di creare Denaro dal Nulla, e restituirlo ai cittadini e all’economia, in nome della prosperità, del benessere e della libertà. Nessun polito dice che il denaro è stampato dalle istituzioni private: la Banca Centrale Europea è privata, la Federal Reserve è privata, e le banche aleggiano nel nulla.

Sapete che se domani tutti i titolari di conti correnti e depositi di vario tipo si presentano in banca a ritirare il contante, solamente il primo 3% potrebbe essere soddisfatto prima di esaurire la liquidità? Non ci credete? Date un’occhiata a ciò che sta affrontando adesso Cipro! E altri paesi sono destinati alla stessa sorte.

Maurice Allais, Premio Nobel per l’economia scrisse nel 1999 che l’attuale creazione di denaro dal nulla operata dal sistema bancario è identica alla creazione di moneta da parte di falsari. In concreto i risultati sono gli stessi, la sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto. Più di ottant’anni fa Bertold Brecht, scrisse in Santa Giovanna dei Macelli che era più criminale fondare una banca che rapinarne una. Ah che profeta! E non erano ancora state impiegate le armi di distruzione di massa create dalla grande finanza.

Quali? Tra menzogne e inganni, tutte al servizio della finanza, c’è una vasta scelta, il MES, a esempio, il Meccanismo Europeo di Stabilità, il nuovo Fondo Salva Stati, ma che in realtà è già diventato ufficialmente un fondo salva banche, o gli aiuti. Basta guardare la Grecia. Di questi aiuti il 52% va alle banche internazionali e commerciali, per premiarle, aiutarle, salvarle”, il 23% della Banca Centrale Europea, il 20% è destinato alle banche greche e, solo il 5% allo stato greco e ai suoi cittadini.

Sapete, l’usuraio teme solo una cosa, che l’usurato muoia, lo deve tenere per il collo, lo può schiavizzare, ma non deve morire. Tenete a mente la frase ormai quasi sacra, quando ci chiedono di stringere la cinghia: ce lo chiede l’Europa, cazzate, ce lo chiede a volte un signore, un certo Van Rampuy, presidente del Consiglio Europeo, eletto dai governi, non dalla gente. Uno che un deputato inglese nel 2010 ha chiamato pubblicamente “competente, capace e pericoloso, assassino silenzioso della democrazia europea e degli stati nazionali europei.”

No, nooooo si sbaglia è solo un servo della Finanza e dei grandi banchieri, dei Goldman Sachs, uno per tutti, dei gruppi Bilderberg, Aspen, Trilaterale. E questi da perfetti manipolatori, vi vogliono far credere che siano tutte fandonie, complottismi, come li chiamano, invece è tutto vero. Ne sa qualcosa anche uno dei grandi potenti del mondo: cinquant’anni fa, nel 1963 il presidente Kennedy, firmò l’atto 1110, nel quale toglieva l’esclusiva alla Federal Reserve e dava al ministro del tesoro la facoltà di stampare denaro. Un colpo decisivo allo strapotere della FED, (che è una banca privata), e al sistema bancario. Era il 4 giugno del 1963, meno di sei mesi dopo il presidente Kennedy venne ucciso, coincidenze, naturalmente.

Sapete, non basta e sopratutto non serve cambiare i politici, anche i vecchi tromboni di età e di presenza parlamentare, la vera rivoluzione è sopratutto un fatto interiore, è nelle nostre coscienze e consiste nel mutamento dei nostri schemi mentali, nel superamento dell’egoismo e nella consapevolezza di quale sia lo scopo della nostra società. No il guadagno di pochi ma il benessere di tutti.

Tu, dimmi, sei felice? E allora da questo momento, visto che è stata la finanza a iniziare la guerra, io la dichiaro a gran voce, … ai suoi uomini di potere così grandi … così pochi … così schivi, con quali armi? Con l’informazione, con la comunicazione, attraverso la condivisione del mio sapere con tutta la gente del mondo. Loro sanno che io so e, adesso lo sapete anche voi … Amici miei, la felicità è libertà, la libertà è ancora lontana, ma la scelta è fatta”.

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L’euro è un morto che cammina

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LA CRISI DELLA LIRA 1964

Per capire perché l’euro non è ancora morto, è utile guardare alla storia dei regimi monetari. Vi sono differenze notevoli tra questi: il vecchio gold standard non era uguale al regime di Bretton Woods, né questo allo SME, né lo SME all’Euro. A noi però interessa guardare ad una caratteristica particolare che sarà chiara in seguito.

Fino al 1971 l’Italia faceva parte dell’accordo di cambio noto come regime di Bretton Woods. Le monete dei paesi occidentali mantenevano un tasso di cambio fisso – ma eventualmente aggiustabile – con il dollaro americano, e questo a sua volta aveva un valore in oro.

Nel 1963-64 la lira italiana fu vittima di un attacco speculativo. L’Italia del boom economico aveva raggiunto la piena occupazione (il tasso di disoccupazione era sceso al di sotto del 4%), i sindacati erano particolarmente forti e riuscivano ad ottenere forti aumenti salariali, superiori alla produttività. Questo produsse un deficit di partite correnti notevole e i mercati si aspettavano per questo una svalutazione della lira.

Fonte: Report FMI 1963-64

Ma la svalutazione non avvenne. Già da maggio 1963 governo e Banca d’Italia avevano incominciato ad attuare politiche monetarie e fiscali restrittive, che causarono una caduta della produzione industriale e dell’occupazione a partire dagli inizi del 1964. Eppure la fase più acuta della crisi valutaria si ha proprio mentre l’Italia inizia l’ “aggiustamento”.

A questo punto interviene un fatto nuovo. Il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, si reca a Washington. L’incontro doveva rimanere segreto, ma così non fu. I giorni dal 1° al 13 marzo furono i più drammatici per la moneta italiana e la Banca d’Italia bruciò duecento milioni di dollari per mantenere il cambio. Ma Carli, contrario alla svalutazione, ottiene dal Tesoro americano e da altri enti prestiti per complessivi 800 milioni di dollari. A questi si aggiungono prestiti più piccoli della Bundesbank, della Banca d’Inghilterra e del FMI, coinvolti dallo stesso Tesoro americano, per un totale di 1275 milioni di dollari. Un’enormità. Che – è bene sottolinearlo – non fu utilizzata. Bastò infatti l’annuncio della concessione del prestito a calmare i mercati.

Pochi giorni dopo l’annuncio, la crisi valutaria era solo un ricordo. La lira non si svalutò e l’aggiustamento fu più che sufficiente a riportare in avanzo la bilancia commerciale. Già nell’ultimo trimestre 1964 iniziò la ripresa.

LA CRISI DEL 1992

Nel 1992 si produsse una situazione simile a quella del 1964. Anche in questo caso eravamo di fronte ad una crisi di bilancia dei pagamenti, dopo aver prodotto dal 1987 crescenti disavanzi delle partite correnti, in un sistema di cambi fissi (il Sistema Monetario Europeo, SME), sebbene con qualche margine possibile di aggiustamento. Come nel 1964, la lira (insieme alla sterlina britannica, al franco francese e alla peseta spagnola) fu attaccata dalla speculazione. L’occasione fu la bocciatura del Trattato di Maastricht da parte degli elettori danesi e il rischio, poi non concretizzatosi per pochi voti, di un eguale giudizio negativo dei francesi, chiamati alle urne nel settembre del 1992. Protagonista della vicenda, come è noto, fu George Soros. Questa volta però tanto la lira quanto la sterlina, dopo tentativi simili a quelli del 1964, furono costrette ad abbandonare lo SME, bruciando peraltro le riserve valutarie della Banca d’Italia. Eppure non sarebbe dovuto accadere. Il Sistema Monetario Europeo, infatti, prevedeva il sostegno delle banche centrali degli altri paesi in caso di attacco ad una valuta. La responsabilità maggiore ricadeva sulla Bundesbank, la banca centrale tedesca, poiché il marco era di fatto la valuta di riferimento del sistema. Ma questa collaborazione non vi fu né attraverso il sostegno alle valute attaccate né con una la rivalutazione pilotata del marco (come avvenuto in passato), anche perché all’epoca la Germania era in deficit di partite correnti e non voleva aggravarlo. L’aggiustamento doveva essere interamente a carico dei paesi “deboli”. Dopo un’iniziale svalutazione il 13 settembre 1992, il governo Amato decide l’uscita dallo SME il 17 settembre, all’indomani dell’uscita della sterlina. Anche la Francia subì l’attacco speculativo, ma alla fine la Bundebank si mosse in soccorso del Franco. Pochi mesi dopo l’Italia ratificherà il Trattato di Maastricht. Una coincidenza storica notevole fece in modo che una delle firme italiane sul Trattato fosse proprio quella di Guido Carli, ministro del Tesoro nel governo precedente (Andreotti VII).

E INFINE L’EURO

Come è noto l’idea dell’euro non è tedesca, ma francese. Con la creazione della moneta unica la Francia sperava di sottrarre alla Germania la propria egemonia monetaria. A distanza di 22 anni dal Trattato di Maastricht si può dire che l’esperimento è riuscito solo in parte. Del sostanziale fallimento dell’euro abbiamo parlato diffusamente, ma qui ci interessa invece capire perché esso è sopravvissuto finora.

Nell’eurozona non esistono più le monete nazionali, ma i tassi di interesse sui titoli di stato ci danno una misura del rischio di cambio  percepito dai mercati finanziari. Dopo il fallimento di Lehman Brothers, i tassi di interesse incominciano a divergere e si manifesta il famoso “spread“. Ma è dal 2010, con la crisi greca, che i differenziali finiscono fuori controllo.

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Verso la fine dell’estate del 2011, poi, l‘interbancario si blocca definitivamente. Il sistema delle banche centrali dell’eurozona, tramite il sistema Target2, interviene in automatico a finanziare i deficit esteri dei paesi in disavanzo di partite correnti, con grande disappunto dei tedeschi (Hans-Werner Sinn in testa, che oggi pretende di pareggiare in oro!), mentre i capitali vengono rimpatriati. Questo contribuisce ad evitare un crollo disordinato dell’eurozona e rappresenta una novità rispetto alle consuete crisi di bilancia dei pagamenti.

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Ma il motivo fondamentale per il quale l’Euro sopravvive è l’intervento discrezionale della Banca centrale europea che, il 2 agosto 2012, annuncia il programma OMT, dopo il famoso discorso londinese di Mario Draghi (26 luglio 2012).

Quando si parla di fragilità dell’euro, di fragilità crescente dell’euro, e forse di crisi dell’euro, molto spesso gli stati o i leader che non fanno parte dell’eurozona sottovalutano l’entità del capitale politico che viene investito nell’euro. E invece noi lo vediamo, e non credo che siamo osservatori parziali, e pensiamo che l’euro è irreversibile. E non è una parola vuota, perché ho appena detto esattamente quali azioni sono state fatte, e vengono fatte per renderlo irreversibile. Ma c’è un altra cosa che voglio dirvi. All’interno del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto quanto è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza.(Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough).

l programma OMT consiste nell’acquisto “illimitato” di titoli di stato da parte della BCE, dopo aver accettato un programma di “salvataggio”,  per quei paesi che dovessero essere vittime della speculazione sul debito sovrano. Ne beneficia soprattutto l’Italia, paese che non ha chiesto “aiuti”, ma che vede il suo “spread” con i titoli di stato tedeschi ridursi da oltre 500 punti di allora ai circa 150 di oggi.

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E’ importante notare che anche in questo caso lo strumento non è stato in realtà mai utilizzato. A calmare i mercati è cioè bastato l’annuncio, da parte della Banca Centrale, della sua disponibilità a fungere da prestatore “senza limiti” di ultima istanza (sebbene sotto condizioni). Coperti dalla BCE, anche i titoli di un paese considerato sull’orlo del default diventano affidabili.

LA CRISI PUÒ TORNARE

La crisi dell’euro però non è finita. A rinfocolarla nei prossimi mesi potrebbe essere la deflazione e il costante aumento delle sofferenze bancarie causato dall’austerità. L’esito relativamente positivo degli stress test condotti dalla BCE, infatti, non deve trarre in inganno perché non contempla lo scenario deflattivo. D’altro canto la BCE non ha molti strumenti per invertire la tendenza. Il piccolo Quantitative Easing non può di per sé creare inflazione, se non in misura limitata, attraverso la svalutazione dell’euro. L’unica maniera affidabile per creare inflazione è aumentare i salari, come ha ammesso la Banca centrale giapponese e addirittura la Bundesbank. Pertanto la soluzione non è in mano alla BCE. A ciò si aggiunge il fatto che gli strumenti finora messi in campo per affrontare una crisi bancaria su larga scala (unione bancaria ed ESM) potrebbero essere insufficienti in caso di una crisi sistemica.

WHATEVER IT TAKES WHITIN OUR MANDATE. WHAT MANDATE?

L’esperienza dell’Italia del 1964, messa a contrasto con quella del 1992 e in analogia a quella del luglio 2012, deve indurre alla cautela quando si parla di esisto scontato della crisi dell’euro. Il punto è se la BCE farà – se potrà fare, se le sarà concesso di fare – davvero “tutto quanto è necessario” per preservare l’euro. Questo potrebbe includere l’acquisto illimitato di titoli di stato dei paesi meridionali, al fine di consentire il salvataggio del loro sistema bancario e contenere lo spread. Il programma OMT è già stato sfidato davanti alla Corte costituzionale tedesca. Ora si attende il giudizio da parte della Corte di giustizia europea, il cui esisto sarà determinante, sebbene pochi scommettano su una bocciatura.

Ma al di là dell’OMT, tutto sta nel risolvere questo dilemma: i trattati e lo statuto della BCE, se da un lato proibiscono il finanziamento monetario dei deficit, dall’altro danno alla BCE un mandato implicito nella sua stessa esistenza e nella vigenza dei trattati: preservare l’euro. E, all’interno di questo, “promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento“. La situazione è paradossale, ma non è raro che una legge o un trattato siano internamente contraddittori. E’ su questa lama di rasoio che si giocherà la partita nei prossimi mesi.

(Fonte keynesblog)

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L’orco della deflazione

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Fino all’altro ieri l’orco cattivo che minacciava la stabilità della nostra economia si chiamava “spread“, ovvero la differenza tra il rendimento dei titoli obbligazionari di un paese e quelli dell’imbattibile Germania. Era temuto perché poneva a rischio la sostembilità del debito pubblico nazionale. Oggi quell’orco è stato messo in gabbia e non fa più paura. Lo ha però sostituito un altro mostro, dall’aspetto apparentemente benevolo, ma persino più complicato da neutralizzare: la deflazione. Ovvero una lenta discesa di prezzi e salari che, spingendo i consumatori a rimandare le decisioni di acquisto di beni durevoli – dall’automobile alla casa – nell’aspettativa di affari sempre più vantaggiosi, finisce per dare il colpo di grazia alle economie più deboli, scarsamente produttive e altamente indebitate. Il timore è che l’Italia, proprio per i suoi squilibri strutturali, sarà potenzialmente una delle prede più facili. A lanciare l’allarme questo mese è stata Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, che ha invitato la Banca centrale europea “a combattere con decisione l’orco della deflazione”, una frase che equivale all’invito a mantenere i tassi di interesse a livelli prossimi o equivalenti allo zero per facilitare l’immissione di liquidità sul mercato, incentivare gli scarsissimi investimenti ed evitare che oltre a quella greca altre economie dell’eurozona entrino davvero nella spirale deflattiva. Al momento il tasso di inflazione dell’Unione monetaria è sceso allo 0,8 per cento in dicembre, un record al ribasso. Tra i Pigs, Spagna, Portogallo e Manda hanno registrato una crescita dei prezzi compresa tra lo 0,2 e lo 0,3 per cento, l’Italia dello 0,7 per cento. Su base annuale la nostra inflazione è scivolata dal 3 per cento del 2012 all’1,2 del 2013.

La diminuzione dei prezzi non sempre è un male. Anzi, per molti aspetti è stata invocata a più riprese dalla Troika (Ue, Frm, Bce) nella forma di una “svalutazione interna” che aiuti i paesi dell’euro economicamente deboli (Pigs) a ritrovare competitivita rispetto ai forti del Nord Europa. E per i consumatori (con ancora un lavoro) segnala anche un felice ritrovamento del potere di acquisto eroso dalla crisi. Il problema però si pone quando il fenomeno si prolunga e le esportazioni non bastano a far riprendere la crescita del prodotto interno lordo. In questo caso il rischio è quello di finire m un circolo vizioso per cui prezzi sempre più bassi scoraggiano investimenti e produzione, i salari calano aiutati da una disoccupazione galoppante, la domanda interna diminuisce e molte aziende sono costrette a chiudere, causando licenziamenti e ulteriori ribassi salariali. Le cose si complicano se a tutto ciò si aggiunge la gestione di un gigantesco debito pubblico, come quello dell’Italia. Se l’inflazione si riduce, anche in presenza di tassi d’interesse bassi, il rimborso delle rate e il pagamento delle cedole diventano più onerosi. Tra gli effetti di un’inflazione “benefica” – quella, per dirla con Alan Greenspan, di cui non ci accorgiamo nel prendere le decisioni – c’era infatti quello di aiutare a diminuire il valore reale del debito e dei suoi interessi. Infine, a rendere particolarmente affilate le unghie all’orco deflattivo nel lungo periodo è un ulteriore elemento spesso dimenticato (ma determinante per un paese come il nostro): la mancanza, di riforme strutturali volte a rilanciare la competitivita.

A ricordare l’importanza dell’ultimo dettaglio è il Giappone, l’unico Paese sviluppato ad avere sofferto di deflazione nel Dopoguerra e quindi il solo benchmark a disposizione dei moderni economisti. Nonostante l’interventismo della sua banca centrale, per oltre un ventennio il paese del Sol Levante è rimasto intrappolato in una spirale deflattiva (prezzi scesi del 12 per cento in due decadi) soprattutto perché incapace di ricapitalizzare il sistema bancario m modo modo tale da fare arrivare liquidità alle imprese e non vederla cristallizzata in obbligazioni di Stato; di riformare un mercato del lavoro rigido per evitare il dannoso dualismo di una popolazione anziana con contratti permanenti e una più giovane precaria; di aumentare la partecipazione femminile nel mondo del lavoro potenziando anche l’assistenza all’infanzia e, soprattutto, di dare un taglio decisivo ai privilegi delle varie caste. Lezione per il resto del mondo: qualsiasi politica monetaria espansiva che una banca centrale possa adottare perde efficacia in un contesto poco propenso ad adattarsi ai cambiamenti. Mentre Manda, Spagna e Portogallo hanno adottato misure per risolvere questi problemi strutturali, l’Italia di Enrico Letta non ha ancora trovato la forza per sconfiggere le lobby di potere che impediscono le riforme ed è sempre più a rischio “giapponesizzazione”. “Gli studi dimostrano che un periodo di bassa crescita e bassa inflazione può durare anche dieci anni”, conferma Francesco Daveri, docente di Economia all’Università Bocconi: “Magari, grazie agli interventi della Bce, non entreremo in deflazione ma avremo un periodo di bassa inflazione e bassa crescita, con le banche e le aziende che, per liberarsi del debito accumulato in passato, affievoliranno gli effetti positivi di una politica monetaria espansionistica”.

In soli tre mesi, tra ottobre e gennaio, la società di ricerche economiche Prometeia ha abbassato la previsione del tasso di inflazione italiano per il 2014 dall’1,8 allo 0,9 per cento, riscontrando l’ininfluenza del recente aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento sui prezzi finali. Ha poi confermato un ritorno in positivo del reddito disponibile allo 0,8 per cento e ha previsto una ripresa del Pil dello 0,8 per cento (il Fmi ha appena abbassato la previsione allo 0,6).

A differenza degli Usa, dove la Fed ha potuto negli ultimi cinque anni aiutare la ripresa economica con un’iniezione di liquidità talmente massiccia da far raggiungere record storici al mercato azionario (tanto che si parla di bolla mobiliare), l’Europa rende la vita decisionale del capo della Bce Mario Draghi molto più complicata. Non solo perché i Paesi a rischio deflazione sono anche quelli maggiormente indebitati (dunque più difficili da curare) ma anche perché a contrastare il bisogno di tassi pari a zero dei paesi del Sud c’è una Germania con un’inflazione più sostenuta della media (intorno all’1,5 per cento) che di tassi bassi non vuole sentire parlare: limano i guadagni di banche e compagnie assicurative, riducono il ritorno sugli investimenti dei risparmiatori teutonici e li incentivano a cercare alternative come il mattone. Solo negli ultimi cinque anni in Germania i possessori di casa sono aumentati del 30 per cento. “Si tratta di un vero esproprio per i risparmiatori tedeschi”, ha sintetizzato Georg Fahrenschon, presidente delle Casse di risparmio tedesche. Se il commento di Daveri (“I tedeschi sono fortunati ad avere questo genere di problemi”) riassume il pensiero della maggioranza degli Europei, rimane il dato che, a differenza della Fed, la Bce sarà costretta a dosare con attenzione i suoi interventi nei prossimi mesi, forse i più cruciali per capire davvero dimensioni e effetti della diminuzione dei prezzi nel nuovo scenario globale. Navighiamo in acque inesplorate. È infatti la prima volta nella storia economica moderna che l’orco della deflazione rialza la testa in un contesto globale in cui produzione, livello salariale della forza lavoro e scambi commerciali rispondono anche a logiche extranazionali che limitano le scelte economiche di banche centrali e governi nazionali.

(Fonte l’Espresso)

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Le verità del bugiardo

pinocchio-Berlusconi

  • Non sono stanco di combattere, sono in piena forma. Stanotte dopo 59 notti in cui non riuscivo a dormire, ho dormito 10 ore di fila. Sono pronto a riprendere la battaglia.
  • Non potevano sostenere un governo delle tasse che aumenta la pressione fiscale e l’Iva. Un governo delle tasse non serve al Paese.
  • I miei problemi personali non hanno avuto peso nelle mie decisioni politiche.
  • Per mesi ci siamo battuti per inserire nel programma di governo dei provvedimenti che riducessero la pressione fiscale. Ma ci siamo trovati di fronte ad una sinistra che non concepisce altro che mettere le mani nelle tasche degli italiani.
  • Questi signori della sinistra hanno sempre il vizio di ribaltare la realtà a loro vantaggio, e come forme di rappresaglia hanno deciso di far pagare ai cittadini altre tasse.
  • A chi mi chiede di farmi da parte dico che lo farei senza esitazione, se ciò fosse utile al Paese, se il mio sacrificio significasse una svolta positiva nei rapporti tra politica e giustizia.
  • Se il governo proporrà una legge di stabilità realmente utile all’Italia, noi la voteremo. Se bloccheranno l’aumento dell’Iva senza aumentare altre tasse noi lo voteremo. Se, come si sono impegnati a fare, taglieranno anche la seconda rata Imu, noi voteremo favorevolmente.
  • Non sono sceso in campo, non ho messo a repentaglio una vita di lavoro, di successi e di sacrifici per lasciare in queste condizioni il mio Paese.
  • Decideremo insieme la linea, sono assolutamente certo che nulla e nessuno ci dividerà e spero che alle prossime elezioni i moderati italiani sapranno restare uniti.
  • No a un governicchio dei traditori.
  • Valore stabilità è imbroglio come spread.
  • Letta ha preso i vizi della sinistra delle tasse.

Silvio “Pinocchio” Berlusconi

Il naso di Pinocchio era un bel naso-spia: cresceva a vista d’occhio se udiva una bugia. Che naso sorprendente: un naso che ci sente!

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Spread: Tutto quello che vorreste sapere e non avete mai osato chiedere

Spread

1. Cosa è lo spread
Riproduco la prima definizione dello spread che mi capita a tiro su Google – dal sito di Pierferdinando Casini – «lo spread è la differenza tra il tasso di interesse pagato dallo stato italiano e quello pagato dallo stato tedesco (reputato uno degli investimenti più sicuri). Supponiamo che abbiamo un tasso pari a 6%, se quello tedesco è del 2%, allora lo spread è del 4% (6-2=4)».

Questa definizione è condivisibile e generalmente accettata.

La ragione per cui si prende come riferimento lo spread con i titoli del debito tedesco per valutare l’andamento dei titoli del nostro debito pubblico sarebbe, citando sempre dalla stessa fonte, la seguente: «Lo spread è il differenziale tra il nostro tasso di interesse (che lo stato paga sui Btp) e un tasso di interesse preso come “pietra di paragone” e che generalmente è pagato dagli investimenti ritenuti “sicuri”. In pratica, più rischioso è l’investimento, maggiore è l’interesse che vuole chi presta il denaro. Se la cosa vi sembra eticamente discutibile, provate a riflettere: voi prestereste denaro ad una persona inaffidabile con il rischio di non averlo restituito? E se prestate questo denaro, è chiaro che maggiore è il rischio, maggiore è il guadagno che chiedete per compensare il rischio corso. Allo stesso modo dobbiamo ragionare con lo spread e il nostro debito pubblico.».
La ricetta è dunque facilmente intuitiva sulla base di una semplice analogia – forse troppo semplice – tra lo Stato ed un qualsiasi privato debitore. Lo Stato italiano, se vuole pagare meno interessi sul debito deve divenire più affidabile – risanando i conti e dando stabilità al Governo del Paese come la Germania presa come “pietra di paragone”. Insomma se lo spread con la Germania scende è il segnale che l’Italia si sta comportando bene avvicinandosi alla pietra di paragone, se sale invece il segnale sarebbe negativo.

In questa accezione comunemente accolta, lo spread dunque è un monito, ci richiama l’esempio del rigore e del buon governo per uscire dalla crisi. In sintesi indebitarsi ai tedeschi costa meno di quanto costi a noi, perché il loro Stato è ritenuto più affidabile del nostro. Questa è la facile, quanto ovvia conclusione. Ma non è così o, per meglio dire, non è questo l’aspetto principale sul quale concentrare l’attenzione.

2. Perché lo spread è un parametro (utilizzato in modo) fuorviante
L’affermazione che il debito tedesco costi meno per l’affidabilità della Germania è al contempo vera e falsa. È vero che la maggiore solvibilità della Germania rende meno oneroso il debito tedesco, ma non è vero che sia lo spread tra il nostro debito e quello tedesco l’indicatore principale cui fare riferimento per valutare il costo del nostro debito pubblico che, invece, dipende essenzialmente da un altro fattore e cioè dal cambio tra dollaro e euro. Per capirci.
Quando ci occupiamo del costo del debito, ci dovrebbe interessare in realtà – e concretamente – non tanto il differenziale con il debito tedesco ma quali costi sosteniamo per prendere in prestito le risorse di cui abbiamo bisogno per finanziare il bilancio dello stato, cioè il costo effettivo del nostro debito pubblico. Tanto per esemplificare, se lo spread tra Bpt e Bund fosse bassissimo, poniamo al 2%, ma il tasso di interesse dei Btp fosse all’8% per noi non andrebbe certo bene, e sarebbe una ben magra consolazione il fatto che la Germania paghi sui Bund il 6%. Dunque lo spread come parametro è fuorviante per valutare l’andamento del debito, ci dà solo un differenziale, stabilisce una correlazione tra due variabili ma non ci spiega da cosa in definitiva entrambe le variabili sono influenzate.

Anzi, in questa prospettiva, l’andamento del tasso di interesse del debito, proprio per la prevalenza accordata allo spread, rimane velato dal quotidiano reiterato bombardamento mediatico che costringe e restringe la nostra comprensione alla contemplazione di quell’unico indice.

Allora è da chiederci perché, invece di occuparci e preoccuparci effettivamente delle cause che determinano le variazioni del tasso di interesse in quanto tale, e cioè del costo effettivo del nostro debito, si puntano sempre e solo i riflettori sullo spread. Il fatto è che dallo spread tra i due titoli si fa discendere un giudizio politico ed economico e, conseguentemente, una valutazione politica sull’azione del Governo nazionale.

Cito sempre dallo stesso sito su Google «Da queste considerazioni discende che se uno Stato, come ad esempio l’Italia, diventa sempre più inaffidabile a causa dell’andamento dell’economia o perché i governanti non fanno le riforme o si dimostrano incapaci, chiaramente il tasso di interesse che paga salirà e quindi salirà anche lo spread».

Si suppone, dunque, in uno stretto sillogismo: “chiaramente” che se ci si allontana dallo Stato tedesco quale “pietra di paragone” della virtù finanziaria, il nostro debito necessariamente peggiora. Le cause dell’aumento o della diminuzione dello spread con il tasso di interesse tedesco sarebbero quindi da ricondursi all’“andamento della economia italiana”, e anche questa, per unanime convinzione, dovrebbe essere verificata secondo tre ordini di fattori: la credibilità del Governo e la sua capacità di “fare le riforme”; il tasso di crescita del debito; il rapporto tra Pil e debito pubblico. In sintesi, sarebbe quindi l’azione del Governo italiano che può determinare, incidendo sui tre fattori critici, una riduzione dello spread e, quindi, un miglioramento del tasso di interesse che paghiamo sul debito pubblico.

In conclusione il costo del debito scende se il Paese è in grado di mandare segnali rassicuranti ai mercati finanziari su quei tre fronti. La risposta dei mercati ai questi segnali sarebbe invece data dalle oscillazioni dello spread.

3. Il tasso di interesse del debito pubblico dipende principalmente dal cambio dollaro/euro

Di conseguenza la convinzione che la riduzione o l’aumento dello spread sia dipeso e dipenda principalmente dall’azione del Governo italiano è fortemente radicata nell’opinione pubblica ed è sostenuta di un pensiero finanziario unico.

Afferma al riguardo lo stesso Presidente M. Monti – ma anche questa è solo una autorevole citazione tra le tante – : «Dal primo luglio (2011) la crisi dello spread è entrata nel vivo: 185 punti. La salita è stata inarrestata fino al massimo di 558 del 9 novembre (2011). Quel giorno Napolitano mi ha annunciato la nomina. Da lì è sceso a 410 del 6 dicembre, dopo il nostro decreto legge …». Il discorso, anche se il Presidente Monti non lo dice espressamente, sembra lasciare intendere che sia stato il decreto legge cd. “Salva Italia” ad invertire la tendenza, appunto, come dice il nome, innescando il processo di salvezza. Nella stessa prospettiva anche la Banca d’Italia allorché afferma – cito fonti giornalistiche – che il differenziale corretto dovrebbe essere intorno ai 200 punti.

Il ragionamento sembra muoversi nella stessa linea interpretativa: dati i fattori strutturali di base delle due economie, se viene eliminato il fattore anomalo del divario di credibilità politica, lo spread con la Germania dovrebbe attestarsi all’incirca di quell’ordine di riferimento.

Ancora ultimante sulla stampa quotidiana e sempre su internet è dato leggere «Il premier uscente (Monti) aveva indicato come obiettivo quota 287, ossia la metà di quei 574 punti ereditati dal governo Berlusconi a novembre 2011…». Insomma la correlazione tra l’azione politica del Governo e l’andamento dello spread appare così ovvia a tutti da non necessitare di particolari spiegazioni. È stata l’azione del Governo attuale che, divenendo maggiormente credibile rispetto a quello precedente, ha consentito di raggiungere l’obbiettivo dando il segnale di controtendenza per un allentamento della speculazione contro il nostro debito pubblico.

E quando nella giornata del 2 gennaio 2013 lo spread è sceso a 287 punti, raggiungendo per la prima volta la soglia obiettivo del Premier dimissionario, il Presidente Monti soddisfatto afferma su Twitter: «Finalmente…»
«Finalmente …». Va bene … “obiettivo” raggiunto.

Ma è veramente così ?
C’è da chiedersi: come è possibile che lo spread sia sceso e che stia continuando a scendere – siamo ora intorno a 260 punti – nonostante il Governo Monti sia dimissionario e mentre sulla sponda del Reno si affaccia una Merkel trionfante, un Governo in forte recupero di consensi con un debito pubblico in effettivo contenimento.

Lo spread starebbe dunque scendendo nonostante i tre fattori critici girino da noi – a differenza di quanto avviene in Germania – in senso negativo: l’affidabilità del Governo italiano vacilla in uno scontro politico-elettorale in cui la nostra classe politica da il “meglio di sé”; il debito pubblico è aumentato di circa 100 Mld di euro durante l’ultimo Governo (seppure con un tasso di crescita inferiore rispetto a quello del precedente esecutivo); ed anche il rapporto tra Pil e debito pubblico ha segnato un ulteriormente peggioramento.

Ciononostante lo spread è sceso, e sta ancora scendendo.

Si potrebbe gridare al miracolo?
Il fatto è che lo spread, tra Italia e Germania, a questo punto dovrebbe essere chiaro, ha – di per sé – poco a che vedere con l’andamento del tasso di interesse sul debito. Non è l’indicatore sintomatico delle cause di modifica del tasso di interesse ma semmai ne è una sua conseguenza. C’è un inversione dell’ordine della causalità sul quale è necessario riflettere. È sul tasso di interesse in quanto tale che, invece, si dovrebbe concentrare l’attenzione e posare lo sguardo purché si riesca a staccarlo dalle ossessive icone mediatiche e dai diagrammi dello spread. Se si considera il problema delle oscillazioni dei tassi in modo oggettivo è difficile non convenire sul fatto che il tasso di interesse dipende essenzialmente dalla domanda di titoli del debito pubblico. Se la richiesta dei titoli cresce il prezzo del collocamento di converso scende e, dunque, il tasso di interesse si abbassa. La domanda di titoli dipende, a sua volta, essenzialmente dalla quantità di moneta offerta a certe ipotesi di costo e rendimento dei titoli.
Se le cose stanno in questo modo, allora la domanda giusta da porsi è la seguente: cosa è che, in questo momento, spinge la liquidità monetaria verso (anche) i nostri Btp, facendo salire la domanda di titoli di stato italiani in modo tale da abbatterne il costo, in misura più che proporzionale rispetto alla riduzione del costo del debito tedesco, determinando di conseguenza anche la diminuzione dello spread tra Bund e i buoni del tesoro italiano, nonostante il peggioramento dei fattori “critici” cui in precedenza si è fatto cenno?
La risposta a tale quesito, prescinde completamente dalla forzata correlazione dei debiti tra Italia e Germania, ed è la seguente: La domanda dei titoli di debito pubblico espressi in euro (quindi di tutti gli Stati dell’Eurozona) dipende essenzialmente, in prima battuta, dal tasso di cambio tra il dollaro e l’euro.

Se il cambio del dollaro scende rispetto all’euro – come in questo periodo sta scendendo con una certa continuità – si innesca una aspettativa negativa sul dollaro che, a sua volta, riattiva il carry trade su quella moneta. In altri termini la speculazione finanziaria, con un dollaro che perde al cambio con l’euro, ha convenienza ad indebitarsi in dollari per investire in euro, dato il bassissimo tasso di interesse praticato dalla FED, lucrando così sul differenziale del cambio e sul tasso di interesse dei titoli di stato (anche più elevato dei titoli americani). Si ripete quello che è già avvenuto nel periodo tra il 2007 ed il 2010, con un deprezzamento del 10% del cambio del dollaro sull’euro e con la FED come acquirente di prima ed ultima istanza dei titoli del Tesoro americano. Il che, a sua volta, ha contribuito a deprezzare ulteriormente il cambio del dollaro. Il carry trade fermato con “l’attacco all’euro” e con “il colpo di coda dollaro-centrico” nel 2011, 12 Per capire la difficoltà da parte della FED di controllare il carry trade sul dollaro bisogna avere una idea della dimensione della massa monetaria espressa in dollari. Essa rappresenta circa i 2/3 della si sta manifestando nuovamente . liquidità monetaria mondiale e i suoi detentori – altro punto critico – sono più al di fuori che dentro 23 gli USA ed i global players del “meta mercato finanziario sono dei battitori liberi” .

4. La difesa del valore dell’euro

La percezione dello stabilizzarsi di un trend negativo sul cambio del dollaro fa perciò inclinare il piano di questa ondeggiante massa monetaria verso l’investimento in altre valute ed, in particolare, verso l’euro orientando ed alimentando le aspettative della speculazione “contro” la moneta americana.

Nella scelta dell’investimento, che si allontana da un dollaro percepito in indebolimento, gli investimenti in euro si rafforzano in generale (ed è così che anche le quotazioni del mercato azionario risalgono anche nell’Eurozona). In allontanamento dal dollaro i detentori globali di liquidità vedono occasioni di investimento anche sui titoli del debito pubblico in euro. L’investimento speculativo guarda ovviamente e principalmente al rendimento delle diverse emissioni in euro, cioè al tasso di interesse corrisposto e alla scadenza del titolo. Ovviamente anche la qualità dello stato emittente, cioè la percezione della solvibilità dei singoli stati nel medio lungo periodo, gioca un ruolo importante. Essa spiega appunto i differenziali tra i tassi interni all’Eurozona, ma non spiega invece la tendenza di fondo che influenza prioritariamente i tassi stessi, e che dipende invece dall’andamento del cambio tra dollaro e euro.

Gli afflussi monetari in entrata accrescono le riserve in dollari e creano un surplus monetario nell’Eurozona. La BCE è in grado intervenire con maggiore facilità e, a questo punto, dopo le dichiarazioni del suo Presidente M. Draghi – che sono state una specie di contro bluff vincente – sulla intenzione della Banca Centrale di fare «tutto il necessario per proteggere l’euro», scommettere al ribasso sull’euro diventa più rischioso per la speculazione, che non ama perdere e corre invece in soccorso al vincitore.

Se, dunque, non vengono percepiti rischi di insolvenza nei titoli dell’Eurozona e l’euro in rafforzamento ne allontana sempre di più la prospettiva, le emissioni di titoli di Stato in tale valuta, anche quelle degli stati con i rating più bassi (ed in barba alle stesse valutazioni delle agenzie specializzate) divengono “appetibili” in quanto corrispondono interessi più elevati.

In questo modo i tassi di interesse del debito pubblico dell’Eurozona diminuiscono in modo generalizzato sebbene differenziato. Così, in questo contesto pro-ciclico per l’euro, i rendimenti dei titoli del debito pubblico di Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia si riducono in misura proporzionalmente maggiore rispetto a quelli più sicuri. Conseguentemente anche il differenziale con i titoli tedeschi si riduce, perché questi ultimi, già in precedenza bassi, non possono scendere “ulteriormente” senza correre il rischio che un rendimento eccessivamente basso – se non addirittura negativo – ne ostacoli il collocamento.

Il miracolo si spiega dunque semplicemente con la legge della domanda e dell’offerta.
Per una verifica di questa correlazione tra andamento dei tassi di interesse e andamento del cambio euro/dollaro, basta ripercorrere i grafici del cambio tra dollaro ed euro negli ultimi cinque anni per accertarsi come, alla perdita di valore del dollaro nei confronti dell’euro (2007-2010) si accompagni una correlata riduzione del costo del debito pubblico comunque espresso in euro e viceversa come il costo del debito pubblico nell’Eurozona cresca progressivamente anche se non allo stesso modo, per tutti, se il cambio dell’euro sul dollaro si deprezza. Con l’inversione di quel rapporto di cambio che nel terzo trimestre del 2012 inclina a favore dell’euro, l’abbattimento del costo dei debiti pubblici espressi in euro riprende e si riduce anche lo spread tra Btp e Bund.

Quale ricetta allora ?

Se vogliamo tenere basso il tasso di interesse sul debito pubblico in euro è necessario, in primo luogo ed essenzialmente, difendere il valore dell’euro ed impedire che sia affossato rispetto al dollaro che si svaluta da emissioni monetarie inflattive come tutta l’anglosfera finanziaria invece auspica .

In questo senso, si può allora convenire con la Merkel nel ritenere essenziale e prioritario l’obiettivo della difesa del valore dell’euro. Quanto detto, ovviamente, non toglie che, per il nostro Paese, sia altrettanto essenziale riqualificare la spesa, eliminare gli sprechi e le malversazioni del settore pubblico riducendo le imposte spostando il peso fiscale sulle rendite monopolistiche delle attività riservate . Questo va fatto non per corrispondere alle aspettative di quella specie di idolo irato che è il mercato finanziario nella rappresentazioni dominanti, ma per risanare la nostra economia e liberarla dal peso dei sovrastanti parassitismi. Ma la prima cosa da fare per ridurre il debito pubblico rimane comunque quella di impedirne la crescita per effetto dell’aumento degli oneri del suo finanziamento e questa prima linea difensiva può essere assicurata solo dalla stabilità del cambio dell’euro. Piuttosto, ci sarebbe da indagare più approfonditamente le ragioni per cui si continua a prestare eccessiva (se non a tratti ossessiva) attenzione alla sceneggiata corale sullo spread, sceneggiata le cui dinamiche di funzionamento sembrano ripercorrere lo schema – altrove indicato e diffusamente analizzato – del “reality della globalizzazione finanziaria”.

(Tratto dal sito www.amministrazioneincammino.luiss.it”- Giuseppe Di Gaspare)

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