Hart, Nobel 2016: “L’euro? È stato un errore, sin dalla fondazione dell’eurozona”

Sentite cosa dice Oliver Hart, professore di Economia presso l’Università statunitense di Harvard e nuovo premio Nobel per l’Economia. Hart, nato nel Regno Unito nel 1948, in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa spagnola Efe, boccia la moneta unica e detta anche la strategia per uscirne. L’exit strategy dalla moneta unica indicata da Hart prevede l’istituzione di “una qualche autorità” per permettere ai governi di riacquisire sovranità monetaria. Dopo Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Milton Friedman, James Mirrless e Christopher Pissarides, arriva il settimo Nobel critico nei confronti della moneta unica. Continue Reading

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L’ergastolo ai politici

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“L’art. 243 c.p. recita espressamente: “Chiunque tiene intelligenze con lo straniero affinché uno Stato estero muova guerra o compia atti di ostilità contro lo Stato italiano, ovvero commette altri fatti diretti allo stesso scopo, è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni. Se la guerra segue o se le ostilità si verificano, si applica l’ergastolo”.

Tale norma è inserita nella rubrica dei delitti contro la personalità dello Stato, elemento indispensabile per comprendere il bene giuridico che direttamente protegge. Ovvero gli atti ostili sono quelli che ledono la personalità dello Stato.

Per capire cosa questo significa basta rammentare quali sono i tre elementi fondanti di una nazione, ovvero il popolo, il territorio e la sovranità. 

Ergo qualsiasi accordo (atto d’intelligenza) diretto a privarci di uno dei tre elementi fondanti dello Stato è un atto di ostilità. Questo significa che un accordo diretto a privarci della sovranità è, per definizione, un atto di ostilità contro lo Stato.

I colpevoli dovrebbero essere condannati all’ergastolo, visto che gli atti ostili si sono verificati, abbiamo infatti pacificamente ceduto, in forza di trattati internazionali (appunto atti d’intelligenza) la sovranità economica, quella monetaria e gran parte di quella legislativa.

Quotidianamente nelle aule di giustizia facciamo processi ben più complessi. Stamani difendendo un imputato per una stupidissima violazione di domicilio riflettevo… Incredibile come fosse più complessa la dimostrazione di quella fattispecie rispetto a quella che consentirebbe di condannare all’ergastolo almeno 3/4 della classe politica per la cessione della nostra sovranità.

La cosa più banale del mondo. Ti sei accordato per cedere sovranità? Bene, carissimo… Vai all’ergastolo.

Ma la Procura di Roma continua a non vedere, non sentire e non parlare… E neppure agisce, come la legge imporrebbe, contro il sottoscritto. Qualora scrivessi sciocchezze nelle denunce depositate infatti dovrei essere processato per calunnia”. Avv. Marco Mori, blogger di scenarieconomici ed autore del libro Il tramonto della democrazia. Analisi giuridica della genesi di una dittatura europea

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#EarthDay2014: Il “Manifesto per un’Europa decrescente“

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In occasione dell’Earth Day 2014 il Decrescita Felice Social Network ha voluto mettere in campo un importante progetto: Il “Manifesto per un’Europa decrescente“. Un documento che ha l’ambizione di tracciare la strada che porta alla costituzione di un’Europa sostenibile ed ecologicamente compatibile. Beni comuni, Riorganizzazione territoriale, sovranità monetaria e area euro, tassazione e burocrazia, consumo di suolo, trasporto, agricoltura, salute e ambiente, lavoro e occupazione, banche e industria, tecnologia ed energia, pubblicità, difesa, sostenibilità e diritti sono i temi toccati in questa prima edizione. Un’alimentazione più sana, un ambiente pulito, una nuova concezione del lavoro slegata dal produttivismo, maggior libertà e autonomia… sono tutti obiettivi a portata di mano, a patto di abbandonare per sempre la logica perversa della crescita infinita. Invitiamo chi contesta le presunte privazioni derivanti dall’adozione della decrescita a riflettere seriamente sui sacrifici, quelli sì veramente dolorosi, necessari per mantenere in vita un Moloch che diventa sempre più crudele ed esigente all’aggravarsi dei sintomi della sua fine – riscaldamento del pianeta, perdita di biodiversità, picco del petrolio ed esaurimento di materie prime. Il Manifesto per un’Europa decrescente è il nostro modo di dissociarci e di proporre un’altra economia, un’altra politica, un’altra società. Mondo alla Rovescia aderisce all’iniziativa.

Beni comuni
Gli elementi fondamentali per la nostra esistenza devono essere pubblici e collettivi

Spesso dimentichiamo che il nostro primo bisogno è respirare, per cui la nostra prima esigenza è garantirci una buona aria che si ottiene non ampliando la produzione, ma limitandola allo stretto indispensabile. Ogni processo produttivo, infatti, comporta la produzione di inquinanti che compromettono l’aria.

Altrettanto indispensabile è l’acqua che forma il nostro corpo umano per il 70%. Un tempo l’acqua non costituiva un problema. I fiumi ne trasportavano in abbondanza e pulita, permettendo a chiunque di utilizzarla per i propri bisogni. Ma con l’avvento dell’industrializzazione e dell’agricoltura ad alta produttività, i nostri fiumi sono diventi cloache chimiche mentre le falde si sono abbassate a livelli di guardia. In conclusione l’acqua sta diventando una risorsa sempre più scarsa di cui il mercato vorrebbe impossessarsi.

E parlando di fiumi, il pensiero corre inevitabilmente alle inondazioni che si susseguono con frequenza crescente a causa di argini troppo deboli o di letti troppo compressi da un eccesso di cementificazione In ambedue i casi il risultato è l’ incapacità di reggere l’urto delle bombe d’acqua che i cambiamenti climatici rendono sempre più frequenti.

Aria, acqua, fiumi, sono solo i primi componenti di una lunga lista che comprende anche clima, mari, laghi, boschi, spiagge, paesaggi e molti altri elementi che assumono il nome collettivo di beni comuni. Beni, cioè, che hanno al tempo stesso la caratteristica di essere indivisibili e fondamentali per l’esistenza di noi tutti. Dal che ne derivano due conseguenze. La prima: non sono privatizzabili. La seconda: vanno gestiti in maniera collettiva attraverso strumenti di rispetto e di riparazione. L’educazione prima di tutto per indurre un comportamento responsabile. E poi l’adozione di norme che fissino criteri minimi di rispetto, e una politica fiscale che incoraggi i comportamenti virtuosi e penalizzi quelli dannosi. Infine l’organizzazione di interventi collettivi per mantenerli in buone condizioni e riparali se danneggiati.

L’Europa deve adottare leggi che indirizzino gli stati aderenti a non privatizzare i beni comuni e ad adottare norme, misure fiscali e di bilancio che li proteggano adeguatamente.

Riorganizzazione territoriale
Una nuova municipalità per una nuova società

La struttura territoriale dell’Europa, suddivisa in nazioni più o meno indipendenti, non risponde più alle esigenze dei cittadini e della loro sostenibilità ambientale. Si rende sempre più stringente la necessità di riorganizzare territorialmente l’Europa. Dovrebbe ad esempio essere ridefinito il concetto di “Comune” rispetto a come lo conosciamo oggi. Non più esclusivamente un luogo con una connotazione geografica di carattere prevalentemente storico, ma un’area omogenea sotto l’aspetto culturale, economico e sociale, con limiti geografici tali da permettere una reale implementazione di una rete di relazioni personali ed economiche.

Le amministrazioni locali diverranno autentici propulsori in una logica di sussidiarietà di tutte le iniziative volte a instaurare una reale economia di transizione e a rafforzare la resilienza, la coesione, l’auto iniziativa e la solidità economica, sociale e culturale delle comunità locali, ivi comprese monete locali, scuole popolari, open source & data (non solo in campo informatico).

Va poi definita l’interazione di queste realtà autonome con le Istituzioni superiori. Proviamo a pensare all’Europa intesa come una rete, non gerarchica, di Municipalità (o eco-regioni) autonome, formate a loro volta da reti concentriche di Comuni, dove sia possibile attuare una “democrazia di prossimità”, ovvero una più avanzata forma di governo popolare che permetta ai cittadini di partecipare a tutti i livelli dei processi decisionali.

Si otterrebbero così piccole unità politiche in grado di garantire i servizi primari e interconnesse tra loro, direttamente controllate dai cittadini, inserite in realtà più grandi: le Municipalità.

Nell’ottica della transizione, ovvero ponendosi l’obiettivo di preparare le comunità ad affrontare la doppia sfida costituita dal riscaldamento globale e dal picco del petrolio, le Municipalità dovrebbero essere dimensionate al fine di aspirare, quanto meno, a garantire l’autosufficienza energetica e alimentare dei cittadini che le abitano.

Le nuove Municipalità quindi devono essere caratterizzate da una certa omogeneità ambientale, ed ovviamente anche storica, culturale e linguistica. Per poter organizzare tutto questo i confini delle Municipalità non devono necessariamente corrispondere ai confini dello Stato così come lo conosciamo oggi, dovrebbero invece poter essere dinamici, quindi facilmente aggiornabili, per poter rimanere in costante contatto e scambio con le Municipalità confinanti, nonché per poter garantire il senso di appartenenza e di identità delle popolazioni che le vivono.

Sovranità monetaria e area euro
Fare dell’Euro un vero bene comune per tutti gli europei

Così com’è strutturata, l’area euro non può certo andare avanti. In assenza di meccanismi in grado di compensare gli eventuali shock asimmetrici (a causa dell’enorme eterogeneità delle diverse economie facenti parte dell’unione monetaria), ovvero di fondi perequativi con cui redistribuire in automatico una consistente parte del gettito fiscale (negli USA la percentuale è del 40% circa) da una regione la cui economia è in espansione a una che è in crisi, le nazioni più deboli sono destinate a collassare, schiacciate dal peso del crescente debito pubblico, da politiche deflattive (come il taglio della spesa pubblica e l’aumento della tassazione) e dall’impossibilità di svalutare la propria moneta.

E’ quello che sta succedendo in Italia, dove una moneta troppo forte e le esigenze di mantenere i conti in ordine, proprio perché è aumentato sia l’ammontare che il costo del debito pubblico, stanno facendo saltare il tessuto di piccole e medie imprese e i distretti, cioè l’asse portante del paese, con la conseguenza che l’unica maniera che il paese ha per “restare competitivo” è quella di abbassare gli stipendi e continuare ad erodere diritti ai lavoratori (cioè convertire i lavoratori al precariato, anche se per ora questo riguarda soprattutto i più giovani).

L’obiettivo primario del SEBC e quindi della Banca Centrale Europea non deve essere solamente il mantenimento della stabilità dei prezzi, ma anche quello di contrastare la disoccupazione, sostenere il credito ai piccoli imprenditori (e in particolari ad artigiani e contadini) e finanziare nuovi investimenti che abbiano come obiettivo la difesa dell’ambiente (ad esempio finanziare progetti per la bonifica e la riqualifica delle zone contaminate, progetti per fermare la degradazione del suolo e l’avanzamento del deserto, la creazione di nuove riserve ecologiche e via dicendo). La BCE dovrebbe intervenire nell’acquisto dei titoli delle Municipalità in difficoltà ogni qual volta il rendimento di questi ultimi aumenta a fronte di una diminuzione del rendimento dei titoli di altre Municipalità dell’unione monetaria (nell’autunno del 2011, ad esempio, i rendimenti dei BTP decennali italiani sono andati ben oltre il 7% dal 4% circa di qualche mese prima, mentre nello stesso periodo il Bund decennale tedesco è passato dal 3,5% circa a rendimenti anche inferiori al 2%).

Tassazione e burocrazia
Combattere la burocrazia per far risorgere la piccola impresa

L’Europa deve essere “amico” del piccolo imprenditore, dell’artigiano, del piccolo commerciante, del contadino o del semplice cittadino che intende praticare l’autoconsumo e la vendita diretta di parte della propria produzione. L’eccessivo peso delle documentazioni imposte per lavorare e di regole tributarie, sanitarie e igieniche gravose stanno portando alla rapida estinzione di queste categorie di lavoratori – il vero fulcro, ad esempio, del dinamismo italiano –, il tutto a vantaggio dei grandi industriali e delle multinazionali straniere.

La rimozione degli ostacoli burocratici e dei pesi fiscali può essere raggiunta dalla creazione di una zona di franchigia legata al reddito (ad esempio 15.000 – 20.000 euro annui), che permetta una completa eliminazione dei vincoli burocratici e una tassazione minima. Promuovere e incentivare i piccoli negozi nei centri urbani e i mercati rionali può avvenire agevolando l’iter burocratico e “liberalizzando” le licenze e le piazze a disposizione dei piccoli commercianti. La rinascita di un’economia locale deve assolutamente passare dalla riscoperta del ruolo del piccolo imprenditore (artigiano o commerciante che sia) e dal ritorno a un’agricoltura contadina.

Consumo di suolo
Preserviamo e riqualifichiamo il bene comune fondamentale, il nostro territorio

Per evitare di essere sempre più dipendenti da prodotti agricoli provenienti dall’estero, iniziare a preservare la fertilità del suolo ed evitare il continuo dissesto idrogeologico, occorre fermare subito la cementificazione del suolo. La riqualifica delle zone abbandonate e le opere di ristrutturazione devono essere incentivate attraverso sgravi fiscali.

Trasporto
Non dobbiamo precipitare dal picco del petrolio!

L’automobile è una forma di trasporto inefficiente (per trasportare una persona occorre spostare più di una tonnellata di ferro, plastica e metalli più o meno rari, con tutto l’ingombro che ne consegue), costosa (se si considerano anche i costi indiretti che vengono scaricati sulla collettività, come gli ingorghi di traffico, gli incidenti stradali e i costi per la costruzione e il mantenimento dell’impianto stradale) e soprattutto inquinante (responsabile di gran parte delle emissioni delle polveri sottili – una delle concause di gran parte delle “malattie della modernità”, tumori inclusi – e delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera).

Occorre investire nel trasporto pubblico, che deve essere economicamente conveniente e affidabile (invece che investire immense somme di denaro in opere faraoniche, come l’alta velocità, occorrerebbe migliorare il servizio dei trasporti pubblici destinati ai lavoratori, garantendo quindi puntualità e pulizia).

Agricoltura, Salute ed Ambiente
L’ambiente deve essere fonte di salubrità, non causa di malattia

L’agricoltura industriale non è sostenibile ancora per molto (essendo completamente dipendente dal petrolio, necessario alla produzione di fertilizzanti chimici, pesticidi ed erbicidi, oltre che per il carburante), è inquinante (è responsabile dei processi di eutrofizzazione e dell’immissione nell’atmosfera di grandi quantitativi di protossido di azoto e gas metano, entrambi gas serra molto più potenti della CO2) ed è responsabile della contaminazione dell’ambiente e del cibo che compriamo con i vari inquinanti organici persistenti (come ad esempio le diossine). Questo tipo di inquinanti provocano gravi danni alla salute umana, ed è scientificamente provato che siano fra i responsabili delle cosiddette “malattie del progresso” (quasi tutti i tipi di tumori, diabete, Alzhaimer, morbo di Parkinson, epatite, eccetera). Occorre incentivare l’agricoltura biologica (con una particolare attenzione alla permacultura) scaricando i costi di certificazione biologica (i cui controlli dovranno essere effettivi e non solo documentali) tramite la tassazione dei prodotti chimici per uso agricolo, liberalizzando completamente la vendita dei prodotti biologici sia nell’azienda, che nei mercati/supermercati locali e garantendo un regime fiscale sostanzialmente più conveniente rispetto all’agricoltura industriale.  Occorre altresì favorire la filiera corta, garantendo analoghi vantaggi alla trasformazione dei prodotti alimentari nei laboratori aziendali anche favorendo l’associazione dei piccoli produttori. Gli OGM devono essere messi al bando sia per un motivo precauzionale (nessuno conosce gli effetti a lungo termine su uomo ed ecosistema), che perché in grado di ibridarsi con le colture tradizionali (come succede per mais e colza, la cui impollinazione avviene per via aerea) e per evitare di portare alla scomparsa del gran numero di varietà di prodotti agricoli di qualità che l’Europa ancora vanta. Per la stessa ragione va incentivato il recupero delle biodiversità coltivata promuovendo le varietà locali e le sementi antiche, favorendo lo scambio delle conoscenze e delle buone pratiche tra zone territoriali limitrofe o ambientalmente similari.

Il modo migliore per occuparsi effettivamente della salute dei cittadini è quello del vecchio adagio di “prevenire è meglio di curare”. La gente spesso si ammala perché si ritrova con un sistema immunitario indebolito da stress, inquinanti di vario genere e una vita sedentaria. L’Europa deve informare in modo efficace i propri cittadini sui pericoli per la salute che a lungo tempo portano stili di vita sbagliati (ad esempio un regime alimentare che preveda l’assunzione di troppi alimenti di origine animale o la mancanza di un’attività fisica costante). Occorre abbassare la soglia di tolleranza minima (che tendenzialmente dovrebbe essere molto vicina a zero) per i vari inquinanti presenti nei prodotti alimentari. Non esistendo, di fatto, studi scientifici che siano in grado di dimostrare che quella “soglia minima di tolleranza” è adeguata anche a livello cronico (cioè per una contaminazione con quella sostanza inquinante per tutti i giorni e per un lungo periodo di tempo) e in caso di interazione con altri inquinanti, dovrebbe sempre prevalere il principio della precauzione. Occorrere eliminare o ridurre al minimo tutte le fonti di contaminazione delle diossine (come ad esempio i prodotti chimici utilizzati nell’agricoltura industriale, i processi di combustione che avvengono per produrre energia o bruciare rifiuti e via dicendo) e dei perturbatori endocrini (come ad esempio il Bisfenolo A, un additivo chimico presente in alcuni tipi di plastica).

Se si vuole creare una società sostenibile nel tempo, ovvero in grado di mantenere uno stile di vita dignitoso anche per i nostri figli, occorre preservare l’ambiente, di cui facciamo parte. La bonifica dei siti inquinati passa dal rispetto del principio “chi inquina paga”, che affinché venga effettivamente fatto rispettare deve avvenire prima di ogni nuovo progetto industriale, che per essere approvato dovrà quindi presentare una copertura assicurativa “consistente”, ovvero in grado di ripagare ogni possibile danno arrecato a terzi e l’eventuale bonifica del sito inquinato. Il rimboschimento dei suoli degradati e a rischio smottamento, insieme alla tolleranza zero per ogni forma di abusivismo edilizio sono necessari per fermare il dissesto idrogeologico del paese. Fiumi e coste devono tornare balneari, per fare questo occorre fermare subito la continua immissione di sostanze inquinanti (e in particolare degli scarichi fognari e industriali) nell’ambiente. L’Europa deve aumentare la superficie protetta da parchi e riserve ecologiche, con particolare attenzione ai parchi marini, indispensabili per riportare la vita nei mari (e il pesce nelle reti dei piccoli pescherecci a conduzione famigliare).

Occorre inserire nella nostra Costituzione la salvaguardia dei diritti degli ecosistemi e degli esseri viventi che ne fanno parte come bene comune e quindi interesse di tutti i cittadini, da preservare e consegnare intatto alle future generazioni di europei.

Lavoro e occupazione
Lavorare di meno per creare più occupazione di qualità

Con una popolazione di oltre 500 milioni di persone, un PIL che è maggiore di quello statunitense e 4,3 milioni di km² di superficie, l’Unione Europea ha tutti i numeri (e le competenze) necessarie per cambiare l’attuale corso della globalizzazione e quindi limitare i suoi devastanti effetti sull’ambiente e le persone. Adeguare le importazioni di merci extra-UE agli standard europei in materia di sicurezza del lavoro, di tutela dell’ambiente e di diritti dei lavoratori metterebbe fine alla continua concorrenza sleale che permette alle grandi multinazionali di ottenere il massimo beneficio dall’attuale globalizzazione ai danni dei lavoratori europei e dello stato di salute del pianeta.

Oltre ad incentivare i disoccupati a diventare piccoli imprenditori (artigiani, commercianti o agricoltori), il modo migliore per contrastare la disoccupazione è quello di disincentivare gli straordinari (tramite una maggiore tassazione) e ridurre l’orario lavorativo settimanale (ad esempio passando dalle 40 alle 34 ore lavorative). Il micro-credito destinato ai piccoli imprenditori deve essere garantito tramite l’istituzione di fondi pubblici e la riduzione della burocrazia necessaria per ottenere i finanziamenti. L’obiettivo del lavoro deve essere quello di procedere verso la riduzione dell’impatto ambientale e del consumo di risorse e verso un uso più efficiente delle risorse della Terra.

L’occupazione deve essere una priorità, ma dobbiamo smetterla di parlare genericamente di “Lavoro” e dobbiamo iniziare a parlare di “Lavoro Utile” ovvero di quell’occupazione orientata alla riduzione degli sprechi e quindi alla ristrutturazione energetica dell’edilizia, energie rinnovabili, riduzione dei rifiuti, filiere corte alimentari e industriali, in un’ottica territoriale, distrettuale. Meno trasporti, meno costi, meno sprechi. In quest’ottica va definita e attuata una direttiva comunitaria che ostacoli il fenomeno dell’obsolescenza programmata così come sta attualmente accadendo in alcuni paesi europei. L’Europa dovrebbe produrre all’interno dell’Unione la maggior parte dei beni necessari a mantenere l’attuale stile di vita.

Devono quindi essere messe in atto tutte le quelle azioni che permettono di ridurre l’import e l’export inutile. Si potrebbe definire un’apposita tassa rendendola proporzionale ai chilometri percorsi da una merce su gomma, prendendo spunto da un meccanismo a scaglioni (ad esempio un’aliquota dell’1% per i primi 100 km, del 10% da 101 a 200 km, del 20% da 201 a 500 km, del 30% da 501 km a 1.500 km e del 40% oltre 1.500 km). Questo provvedimento agevolerebbe l’economia locale, ridurrebbe il traffico  – e quindi le spese per le infrastrutture e gli incidenti –,  oltre che le emissioni di anidride carbonica e altri inquinanti nell’atmosfera.

Banche e Industria
Riportiamole a misura d’uomo

Occorre favorire la presenza di istituti di credito locali a scopo mutualistico (Banche Popolari e Cooperative) e di un’industria di piccola o media dimensione tramite una nuova tassazione che favorisca i piccoli istituti locali e colpisca invece i grandi gruppi bancari. Le piccole e medie imprese sono l’asse portante dell’economia. Una misura locale di un’impresa è da preferire ai grandi gruppi multinazionali. Tassazione e burocrazia devono seguire il principio per cui occorre sempre privilegiare le economie locali e le piccole dimensioni. Le aziende devono diventare il motore di un processo di ristrutturazione e di rilocalizzazione dell’economia locale. Il sistema produttivo deve poter attingere al credito di rete locale, cioè finanziato dal risparmio collettivo raccolto localmente, così come i canali di distribuzione e la rete commerciale devono avere carattere locale. Va da sé che, vista l’importanza della rilocalizzazione economica poiché fondamentale per il sostentamento della società locale, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale. Il rilancio dell’economia locale, ha evidentemente una ricaduta positiva sull’economia globale e può essere intrapresa attraverso molteplici strade.

Tecnologia ed Energia
Da nemiche a migliori alleate dell’ambiente, basta ripensarne l’uso

Occorre investire sulla “tecnologia della decrescita”, ovvero su una tecnologia in grado di far risparmiare risorse naturali, energia e soprattutto rifiuti. Le imprese devono produrre prodotti che siano facilmente riciclabili (per provare a creare un ciclo di riutilizzo delle risorse naturali consumate quotidianamente) e ridurre al massimo gli imballaggi (che devono essere tassati): il vuoto a rendere deve essere incentivato. L’Europa deve incrementare gli sgravi fiscali e finanziamenti a tasso agevolato per coibentare gli edifici abitativi e tramite una convincente campagna mediatica sottolineare il risparmio in termini di denaro (oltre che di inquinamento) che questo comporterebbe.

Liberalizzare la produzione di energia su piccola scala e decentrata (ad esempio tramite gli impianti di co-generazione, il mini-idroelettrico e il mini-eolico), puntare sul risparmio energetico e combattere gli sprechi energetici (sia nel pubblico che nel privato) devono diventare la priorità per il breve termine. Nel medio-lungo termine occorre invece puntare sulla totale eliminazione dei combustibili fossili per la produzione di energia (non solo del carbone, ma anche del gas naturale), per puntare su fonti energetiche rinnovabili e quindi sostenibili anche in un mondo senza più petrolio. Una più oculata illuminazione notturna dei centri urbani (illuminati a giorno) potrebbe portare a un significativo risparmio in termini di bolletta elettrica ed emissioni di anidride carbonica. I grandi gruppi produttori di energia devono tornare di proprietà pubblica e dovrebbero trasformarsi in organizzazioni no profit, per garantire un prezzo più equo dell’energia e non intralciare la produzione di energia a rete.

Pubblicità
Liberiamoci del potenziale letale delle armi di distrazione di massa

La pubblicità è una delle più dannose forme di persuasione della nostra società, una sorta di veicolo dell’infelicità di massa. E’ inoltre noto che gli unici in grado di permettersi grandi budget pubblicitari sono le grandi multinazionali, il tutto a discapito dei piccoli imprenditori, che basano più le proprie fortune sul passaparola e la presenza fisica nell’economia locale. Occorre contrastare l’abuso di pubblicità e l’invasione delle nostre vite da parte del mondo commerciale. Occorre considerare l’introduzione di una imposta (sempre secondo il metodo a scaglioni) e l’aliquota deve essere proporzionale al fatturato del gruppo di riferimento del marchio in questione (ad esempio del 5% dell’importo speso per un fatturato fino a 100.000 euro, del 15% da 101.000 a 1,5 milioni di euro, del 25% da 1,5 milioni di euro a 10 milioni di euro, 40% oltre i 10 milioni di euro). Occorre eliminare tutte le forme di sponsorizzazione di scuole e università, mentre la vendita di bevande e snack nei locali pubblici (scuole, università, ospedali, biblioteche, eccetera) dovrebbe spettare alle sole aziende locali. La reti radio-televisive pubbliche devono ridurre drasticamente la pubblicità (e quindi uscire dalla logica del mercato e tornare ad essere un mezzo in grado di formare la cultura dei cittadini e non la brutta copia di una televisione commerciale).

Difesa
Difenderci… da chi e come?

L’Europa deve tornare ad essere effettivamente indipendente dalle potenze straniere. Occorre costruire un’unione effettiva dell’Europa, con un unico esercito affiancato da Corpi Civili di Pace non armati, e con un’unica politica estera. Questo favorirebbe la chiusura di molte basi militari e la riduzione drastica delle spese militari stesse a favore delle Municipalità.

Sostenibilità e diritti
Un’Europa ecologicamente sostenibile per  diritti reali e tangibili.

Nell’infinità dei nostri bisogni ce ne sono alcuni che assumono il nome di diritti, perché vanno garantiti a tutti, indipendentemente dalla condizione economica, dal genere, dall’età, dalla fede religiosa o dal paese di provenienza. In altre parole vanno garantiti per il fatto stesso di esistere, in quanto attengono alla nostra dignità in quanto esseri umani. Una tale garanzia non è solo una questione di equa distribuzione della ricchezza, ma anche e soprattutto di libero accesso, da parte degli individui, a quelle risorse culturali, sociali e istituzionali senza le quali qualsiasi diritto è di fatto inesigibile.

Il tema dei diritti non può quindi che essere al centro di una progettazione politica socialmente, oltre che ecologicamente, sostenibile. Il grado di civiltà di una società si misura in base al livello di diritti che garantisce ai suoi membri, e tuttavia, perché tale livello possa essere mantenuto nel tempo, occorre una visione di lungo periodo che contempli la garanzia dei diritti delle generazioni future come obiettivo. E’ dunque assolutamente essenziale la nascita di una nuova cultura politica che sappia coniugare l’attenzione per l’ambiente con la preservazione dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui, nucleo politico dei regimi liberal-democratici. L’idea centrale è che una società futura sostenibile ma con cittadini privi dei diritti e delle libertà fondamentali sia altrettanto distopica che una società di individui possessori di diritti e libertà mutilate a causa di un ambiente non sufficientemente salubre e/o di insufficienti risorse per esperirli concretamente. Una concezione politicamente liberale dei diritti è compatibile con una prospettiva di sostenibilità di lungo periodo, a condizione che il danneggiamento dei diritti delle generazioni future sia tenuto in debito conto e costituisca tanto un criterio guida per le politiche quanto un limite legittimo ad alcune libertà non fondamentali degli individui. Un’Europa dei diritti deve necessariamente essere un’Europa ecologicamente sostenibile, in quanto unicamente attraverso un ambiente sano i diritti possono essere reali e tangibili.

Una sana economia stazionaria che compensi queste due necessità – non contrapposte, bensì fortemente interdipendenti -, che sappia cioè coniugare rispetto dell’ambiente e diritti delle persone, comporta necessariamente un parziale ripensamento del mercato, e un suo ridimensionamento a una dimensione sostenibile. Ciò è possibile solo dando contemporaneamente maggior spazio alla dimensione comunitaria: rilocalizzare piuttosto che delocalizzare, ri-utilizzare piuttosto che sovra-produrre.

Pur fra mille imperfezioni già oggi si sono istituzionalizzate forme di economia solidale all’interno dei sistemi previdenziale, sanitario de educativo. Se da una parte queste forme di solidarietà comunitaria vanno rafforzate e gestite con maggiore efficienza, dall’altra vanno ripensate radicalmente in un’ottica di sostenibilità.

Occorre in conclusione trovare vie possibili per rompere la dipendenza dell’economia comunitaria dalla crescita. Una via per farlo è attraverso l’incentivazione della partecipazione dei cittadini al funzionamento dei servizi pubblici tramite il loro lavoro. La tassazione del tempo invece che del reddito è probabilmente una strada da perseguire. Ma potrà essere possibile solo se i cittadini si troveranno culturalmente preparati per questo passaggio. Per questo cultura, politica, società ed economia sono indissolubilmente legati al tema dei diritti. Ignorare tale evidenza significa vincolare i diritti alla loro dimensione negativa di opportunità esterne sancite da norme. L’obiettivo è invece l’espansione dei diritti non solo nel loro numero ma anche e soprattutto nella loro intrinseca multidimensionalità.

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La strumentalizzazione delle piazze

manifestazioni popolari

Nell’analisi dei fenomeni politici e delle loro ricadute nei termini di quotidiana socialità, è lodevole sintomo di equilibrio quello di sapersi tenere in mezzo al guado: tra l’interpretazione semplicistica e la spasmodica ricerca di un sottotesto, tra la lettura slegata dei singoli eventi e la forzosa indagine su capziosi legami, tra la versione scialba della grande informazione massificata e l’incapacità di attribuire la giusta rilevanza a eventi effettivamente marginali o secondari. A tale schema di pensiero è bene conformare anche l’analisi di quella che, nelle dinamiche sociopolitiche contemporanee, viene abitualmente definita “piazza”, la manifestazione esteriore della volontà politica collettiva nel luogo apparentemente a questa più deputato, per via della sua intrinseca natura di pubblicità: lo spazio collettivo, la strada.

Sugli episodi caratterizzati appunto dalla presenza della piazza che hanno, fin dai tempi più remoti, accompagnato la storia sociale e politica dei popoli e delle nazioni, occorre pertanto scorrere lo sguardo e sviluppare l’analisi facendo perno esclusivamente sulla purezza e l’indipendenza della scienza politica e, guardando proprio cogli occhi dell’uomo politico, trascendere le interpretazioni scientiste e le sublimazioni fuori dal tempo e dal senso di realtà. A queste, per quanto abbiano caratterizzato l’analisi politica dell’ultimo secolo, nelle presenti righe eviteremo accuratamente ogni riferimento: sia alle teorie della psicologia delle folle elaborata dalla fine del secolo XIX che alla teorizzazione del Geist des Volkes – Spirito del popolo – che, pur vicina al nostro sentire politico, poco si adatta all’indagine sociale in questi tempi di vorticosa decadenza. Sarà quindi necessario tenere quanto sopra enunciato nella dovuta considerazione, e cercare di non distaccarsi dalla più elementare e pura analisi politica, per analizzare esaustivamente anche le esibizioni di forza che nelle piazze d’Europa e del mondo hanno contestato le ulteriori involuzioni del potere politico nei confronti della grande finanza internazionale.

Non è mai accaduto, nel corso della storia politica moderna e contemporanea, che la piazza fosse “pura”, svincolata da fenomeni e da impulsi precedenti, estranea a una preventiva o contestuale azione politica intra moenia in virtù della quale la contestazione è poi andata a esibire la propria forza nelle strade. Quanti pensano il contrario sono vittime, nella migliore delle ipotesi, di una pia illusione. La piazza, le manifestazioni politiche che hanno visto uomini in gran numero lasciare il segno sui selciati delle città e nella nomenclatura scientifico-storiografica della storia dei popoli e delle nazioni, è sempre stata o strumento o strumentalizzata.

La prima ipotesi (la piazza-strumento) è quella dalle più alte connotazioni nei termini di valutazione etica e di giudizio politico. È quanto si verifica quando la voce del popolo si fa sentire a coronamento e compimento di un processo politico diretto dall’alto che – attraverso la visibilità esteriore del numero – trova affermazione della propria legittimità popolare. Gli esempi sono molteplici, sarà sufficiente richiamare alla memoria le moltitudini argentine che hanno accompagnato il pronunciamento della rivoluzione politica peronista. Pur volendo dolosamente rimanere nell’asettica astensione di giudizio politico, è evidente che nel corso di tali eventi storici si chiuse il cerchio che vincola il popolo a una dirigenza di aristòs che proprio nel suo operato a favore del popolo stesso trova il sostegno delle moltitudini nelle strade. Questi eventi, rari come rari sono stati i momenti di reale sovranità popolare e nazionale nella recente storia mondiale, sono, come si diceva, la più elevata espressione cui la piazza può oggettivamente assurgere. Ma neanche questi, è bene ripeterlo, hanno origine nella piazza, nel numero, nella moltitudine; sono, invece, una pur luminosa ed encomiabile conseguenza.

Più di sovente le grandi manifestazioni popolari sono state invece strumentalizzate. Per focalizzare al meglio il fenomeno procediamo attraverso una sintetica elencazione delle tipologie di strumentalizzazione che il Sistema ha storicamente messo in opera per convogliare la piazza in direzione favorevole alle proprie finalità e alle proprie necessità di auto-preservazione, notando come ciascuna tipologia si differenzi per campo d’applicazione, scopi e intensità, pur potendosi concatenare e agire in concerto con le altre.

L’infiltrazione tradizionale. È un incontrovertibile dato di fatto che tutti i governi dei Paesi dell’ Occidente libero si siano prodigati, nel corso della storia recente, per controllare – attraverso l’uso disinvolto degli apparati di polizia o tramite il controllo remoto di talune frange politiche estreme – nel disturbo e nel condizionamento delle manifestazioni popolari. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso era consolidata prassi che taluni gruppi numericamente esigui prendessero “la testa dei cortei” e li trasformassero in sommovimenti volti alla destabilizzazione dell’ordine pubblico che, puntualmente, metteva in secondo piano la critica all’ordine politico che (nominalmente) le manifestazioni erano intenzionate ad esternare. Non per niente nacquero i “servizi d’ordine” e le frange dell’autonomia o dell’area anarchica ebbero un bel daffare per condizionare i cortei dei sindacati e dei partiti della sinistra istituzionale i quali, tra un sermone di pace e una predica sulla non-violenza, trovarono il tempo di mettere in campo le “ragioni della forza” attraverso l’arruolamento di nutriti gruppi di mazzieri.

L’infiltrazione istituzionale. Attraverso una metodologia operativa più raffinata della precedente, e per far fronte a esigenze di più stretto controllo politico, ogni volta che le istanze di lotta di popolo si sono tramutate in una presenza concreta e numericamente tangibile nelle strade e nelle piazze, tale da poter impensierire gli assetti di potere, su tali manifestazioni è stato posto una sorta di “cappello” istituzionale che – attraverso l’imbrigliamento nelle strutture partitiche – è riuscito a sedare le nascenti possibilità di rivolta sociale. L’esempio del Sessantotto italiano ed europeo è emblematico. Una protesta nata intorno a temi quali l’anti-imperialismo e la critica radicale a un modello di sviluppo capitalista che aveva già mostrato il suo volto peggiore a pochi lustri dalla sua affermazione, che i partiti politici tradizionali cristallizzati sul mantenimento del disordine di Jalta hanno fatto sprofondare e annichilito. Giocarono ovviamente un ruolo primario in tale operazione i partiti delle “estreme”, quali, nel caso italiano, il Partito Comunista e il Movimento Sociale. Questi, attraverso la messa in campo di tutte le loro forze organizzative, riuscirono a sabotare ogni pericoloso sconfinamento rivoluzionario dirottandolo nelle logiche sanguinarie degli opposti estremismi. Il Pci arrivò al punto di sciogliere le proprie strutture giovanili per poter meglio infiltrare il movimento, mentre i “fascisti in doppiopetto” non disdegnavano di fare da rincalzo alla celere in nome della tutela dell’ordine democratico. Risultati inefficaci questi metodi, non si esitò ad impiegare i mezzi più drastici, amplificati dal boato delle bombe, dal crepitio dei mitra e da una sapiente propaganda: è passata alla storia come “strategia della tensione”, la difesa ad oltranza di un ordine politico, attraverso la destabilizzazione dell’ordine pubblico, messa in atto da un Sistema di potere e dai suoi mentori internazionali che, pur di preservarsi, non si sono fatti scrupolo di sacrificare la vita dei propri cittadini.

Internet. Facendo un balzo in avanti nel tempo, la strumentalizzazione delle piazze ha potuto contare su una nuova affilatissima arma, grazie a una rivoluzione tecnologica che si sta rivelando, in termini di incisività sociale, ancora più vigorosa di quella industriale. La rete telematica è divenuta il fulcro organizzativo e il luogo di dibattito di quanti oggi vogliano intentare ogni sorta di ribellione. Ciò rappresenta un rischio notevole. Al di là delle possibilità di controllo e identificazione che la rete amplifica a dismisura ai danni di chi si illude di poterne usufruire ai propri pur nobili fini, si è creata l’illusione che “la rivoluzione nasca da internet“: niente di più falso e mendace. Le mobilitazioni promosse attraverso il mondo virtuale rimangono, appunto, virtuali; il fatto che siano ampiamente tollerate anche in presenza di un notevole potenziale eversivo ne è la riprova: lo stesso testo “rivoluzionario” che diffuso nella rete viene tollerato e dibattuto, se venisse stampato e distribuito come volantino in strada comporterebbe la deportazione a Guantanamo seduta stante. Il Sistema, così facendo, unisce l’utile (suo) al dilettevole di chi si illude di avere margini di contestazione e di poter mobilitare oceaniche adunate stando seduto dinanzi a una tastiera (salvo amare sorprese: le mobilitazioni promosse attraverso internet che raccolgono in pochi giorni un numero di adesioni virtuali tale da riempire piazza Tienanmen, nella loro realizzazione pratica spesso finiscono per riempire due tavolini al bar).

La “colorazione”. Il rosso, che ha contraddistinto le piazze del Novecento, pare non sia più di moda. Il nero, per carità, neanche a parlarne. Oggi, quando una piazza ha le potenzialità per nuocere al potere, alla dittatura economica, alla protervia delle banche, subisce un trattamento che le impone ben altre colorazioni, più sgargianti e accattivanti. Sono colorazioni made in Usa. Nella seconda metà del decennio scorso, gli strateghi a stelle e strisce si accorsero che era ora di tirare i remi in barca, che le esibizioni muscolari degli Stati Uniti in giro per il mondo non conseguivano i risultati auspicati: impantanati in Iraq e Afghanistan, l’insediamento in Asia centrale segnava il passo; l’America Latina era perduta; decine di migliaia di soldati erano posti a presidio dell’Europa, della Corea meridionale; altri, mandati in contesti di guerra aperta, in numero sempre crescente tornavano a casa nei sacchi neri. Occorreva imporre la propria egemonia attraverso un sistema che fu chiamato di “soft power”, contraddistinto dalla sobillazione e dalla promozione di “rivoluzioni”, apparentemente incruente, volte a rovesciare governi dichiaratamente ostili ai disegni egemonici statunitensi o che comunque avrebbero potuto costituire un ostacolo. Erano nate le “rivoluzioni colorate”: con modalità dapprima sperimentate in Jugoslavia si diffusero in Ucraina, in Georgia, in Kirghizistan; furono tentate, fortunatamente con magri risultati, in Bielorussia, in Venezuela, in Iran. Queste “rivoluzioni”, finanziate e sostenute neanche troppo segretamente da Washington e che camuffavano da lotta a regimi “tirannici” la loro effettiva funzionalità ai disegni geopolitici statunitensi, erano spesso contraddistinte da un colore: gli “arancioni” a Kiev, i “verdi” a Teheran. Il copione si è quindi ripetuto, con funzione di strumentalizzazione del dissenso, anche in Paesi “amici”: abbiamo avuto modo di vedere, in Italia, il “popolo viola”, presente in ogni occasione di contestazione che ha luogo sul territorio nazionale a ricordarci che il nemico non sono le banche usuraie e la grande finanza, ma Berlusconi, Mediaset, il Ponte sullo Stretto, la Tav.

La diversione strategica. Strettamente connessa alla precedente, è una metodologia che negli ultimi tempi ha trovato un largo utilizzo. Il ruolo degli utili idioti, questa volta, è stato ricoperto da una buona parte di residuati della estrema sinistra “classica”. Quella stessa sinistra che per decenni, di fronte alle nostre denunce rivolte ai poteri forti dell’economia, ci ha rinfacciato il voler rispolverare la teoria del “complotto demo-pluto-massonico-giudaico” e ci ha liquidati con un “tornate nelle fogne”, che oggi, di fronte alla prospettiva di sparizione politica e all’inettitudine dei suoi dirigenti tanto attenti ai diritti dei gay e dei migranti, ma poco inclini a parlare ancora di popolo e socialismo, ha optato per un salutare ripensamento e ha dato l’impressione di voler cavalcare la protesta popolare contro i Signori del denaro. Ma lo hanno fatto, come è loro costume, nei limiti del buon gusto, e guardandosi bene dal disturbare il manovratore; proponendo quindi soluzioni ambigue, moderate, possibiliste, prive, insomma, del coraggio di intraprendere una reale battaglia popolare e di identificare con chiarezza il cuore del problema: la sovranità monetaria, il contrasto all’usura bancaria, l’indipendenza reale della nazione. Il boato che giunge dalle piazze, in tutto l’Occidente, si fa sempre meno sommesso. E lorsignori ne hanno compreso la pericolosità perché, come ogni istanza autenticamente nazionale e popolare, può fungere da collante tra tutte le componenti più sane della nazione affinché tornino a riprendersi il proprio futuro, sottraendolo a chi l’ha rinchiuso nei propri straripanti caveau. I mostri da loro stessi generati, il capitalismo, l’economia di mercato, l’accumulazione di ricchezze, una società fondata sull’effimero e – non ultimo – sul denaro creato dal nulla, si stanno, come è naturale che sia, ritorcendo contro i loro stessi creatori che non sono neanche più in grado di garantire ai propri cittadini/sudditi quella parvenza di benessere su cui hanno per decenni fondato la loro fabbrica del consenso. A riprova che tale pericolosità sia stata a pieno percepita dal Sistema, sta appunto il fatto che siano ricorsi a man bassa a tutti i sistemi di strumentalizzazione della piazza precedentemente citati. E abbiamo quindi assistito a una manifestazione di popolo tanto enorme quanto epurata della sua arma più forte: la consapevolezza dell’identità del nemico. Abbiamo assistito a piazze che spostavano la loro attenzione dalle banche per rivolgerla al governo, alla Prefettura, all’ufficio di collocamento, alle sagrestie, prodigarsi e disperdere energie contro le centrali nucleari, i treni veloci, la caccia, la prostituzione, i fascisti, e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo assistito alla propaganda a orologeria che ha dirottato l’attenzione di tutti i più grandi giornali e di tutte le reti televisive verso i tafferugli, gli scontri, le violenze, la pochezza e l’inconsistenza di una piazza da loro stessi ridotta a parodia. Nessuno, o quasi, che abbia speso una parola sul perché un continente intero, nonostante sessant’anni di torpore, sia tornato in fermento. Nessuno, o quasi, che sia andato oltre una generica e spicciola condanna della violenza. Nessuno, o quasi, che abbia avuto il coraggio di andare al cuore del problema. Di nuovo, vogliono mettere il popolo a tacere con l’illusione delle piazze. Col farci credere liberi rendendoci ancora più schiavi e col ridurre al silenzio le voci di dissenso che diventano tuttavia sempre più forti e più consapevoli. Anche questa volta, sembrerebbero aver vinto. O forse no. Sta agli uomini liberi la responsabilità di non aver paura, ancora una volta, di dire la verità e di esortare il popolo a non abbassare la guardia e a non dimenticare l’identità del vero nemico. Un fronte di uomini liberi che lavori quotidianamente e coraggiosamente con gli scritti e la parola, col pensiero e con l’azione. Solo così, le rivolte potranno trasformarsi in rivoluzioni. E solo così quelle piazze umiliate potranno trasformarsi in un popolo libero.

(Tratto da L’Uomo libero – Fabrizio Fiorini)

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Benvenuti nella disgrazia dell’Eurozona

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Si segua questo percorso: viene creata una valuta che non è di alcuno Stato. Viene emessa da Banche Centrali direttamente nelle riserve dei mercati di capitali privati (banche, assicurazioni, fondi pensione privati, ecc.). Si uniscono 17 Stati sotto questa valuta, e li si priva delle loro precedenti valute nazionali. I 17 governi dovranno sempre batter cassa presso i mercati di cui sopra per ottenere la moneta con cui attuare la spesa pubblica, esattamente come un cittadino che fosse sempre costretto a indebitarsi con la finanziaria sotto casa per mantenere la famiglia. Ecco nata l’Eurozona.

Così funziona la moneta Euro. I debiti pubblici di questi Stati, precedentemente denominati in una valuta di loro proprietà, vanno ora ripagati in quella valuta ‘estera’, cioè di qualcun altro, come se all’improvviso l’intero debito degli USA fosse trasformato da Dollari in Yen. Ne consegue che alcune economie fra quei 17 Paesi si ritrovano schiacciate non da eccessivi debiti pubblici, ma da debiti pubblici divenuti eccessivi perché denominati di colpo in una valuta ‘straniera’. Ogni prestito concesso dai mercati ai governi resi a rischio d’insolvenza dall’artificio sopra descritto alimenta un circolo vizioso di tassi che aumentano sempre, così come la finanziaria applica a quel cittadino già indebitato un tasso sempre più usuraio per ulteriori prestiti. E più aumentano i tassi, più i debiti sono insostenibili, e più sono insostenibili, più aumentano i tassi. Schiacciati da questo paradosso, i governi in oggetto hanno una sola scelta: usare tagli alla spesa e una tassazione soffocante per ripianare quei debiti denominati in quella moneta ‘estera’, cioè l’Euro. Di conseguenza il risparmio di cittadini e aziende si prosciuga, calano i consumi, da cui precipitano i profitti, da cui derivano tagli di salari e occupazione, con ulteriori crolli dei consumi, che deflazionano l’economia, cala così il Pil, da cui minori gettiti fiscali, e ciò peggiora il debito, ma questo preoccupa i mercati che aumentano i tassi, che… È una spirale distruttiva senza fine.

Benvenuti nell’Eurozona. Nasce da un progetto del 1943 per sottomettere le economie dei concorrenti industriali di Francia e Germania, e oggi ha purtroppo raggiunto quell’obiettivo. Le prove a sostegno di questa affermazione sono pubblicate in studi di statura accademica, in inchieste giornalistiche apparse sui maggiori quotidiani internazionali, ma sono insite anche nell’operato di grandi tecnocrati europei come, fra gli altri, Perroux, Hayek, Rueff, Attali, Delors, Schauble, Juncker, Issing, Ciampi, Scognamiglio, Padoa Schioppa, Draghi, Prodi, cioè dei padri ideologici della moneta unica Euro al servizio (talvolta non inconsapevolmente) di esigue élites di grandi industriali franco tedeschi, di speculatori e delle banche d’affari internazionali.

Invitiamo il cittadino a pensare a chi sono oggi i ‘vincitori’ nel sistema Eurozona:

1) gli speculatori che hanno scommesso sul crollo dei titoli di Stato di Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna, con profitti incalcolabili;

2) le grandi banche d’affari che guadagnano parcelle parassitarie di miliardi come intermediari nelle privatizzazioni selvagge dei beni di Stato nel sud Europa, imposteci da questa crisi del tutto artificiosa;

3) ma soprattutto le corporation franco-tedesche (a discapito dei loro stessi lavoratori, si legga più sotto), che hanno visto, grazie ai complessi meccanismi imposti dall’Euro, disintegrarsi la temibile concorrenza delle aziende italiane, da sempre le uniche in Europa a impensierire Berlino e Parigi.

Infatti l’Italia della Lira era nel 2000 la prima in Europa per produzione industriale, oggi siamo fra gli ultimi. Nel 2000 la Germania era ultima in Europa per produzione industriale, oggi è prima. È forse possibile che l’intero sistema industriale italiano, che per decenni ha fatto la nostra ricchezza, si sia ‘suicidato’ in soli 12 anni? O l’Eurozona ne è la vera causa? Ci si pensi.

Prima dell’Euro eravamo primi al mondo per risparmio privato, oggi ce lo stanno divorando, è ridotto a un quarto di allora. Abbiamo ora i redditi più bassi dell’Eurozona, le tasse sono fra il 47 e il 60%, abbiamo pensioni che al 50% non arrivano ai 1000 euro mensili, la disoccupazione giovanile è al 35% e falliscono 40.000 aziende all’anno. La nostra economia è quindi ‘deflazionata’, così che gli investitori franco-tedeschi possano fare shopping delle nostre migliori marche a prezzi stracciati citando il fatto che siamo in crisi. E sta accadendo ogni giorno. Il costrutto dell’Eurozona, cioè una moneta non posseduta da alcuno Stato, è un’aberrazione monetaria che non ha precedenti in 5.000 anni di Storia. Non deve sopravvivere. Ne va del destino di milioni di famiglie e aziende del nostro Paese, che già patiscono sofferenze sociali inenarrabili.

Nel 2002 la prestigiosa Federal Reserve americana titolò uno studio “L’euro: non è possibile, è una pessima idea, non durerà”. Gli autori, decine di economisti tra i più autorevoli al mondo, avevano seguito la creazione di questa moneta dal 1989, e così avevano sentenziato. Andavano ascoltati. Al contrario, riacquisire la sovranità monetaria uscendo dall’Eurozona significherebbe per l’Italia la salvezza dell’economia nonostante il suo alto debito.

Il Giappone oggi ha circa il 240% debito/PIL ma paga tassi d’interesse vicini allo 0, ha un tasso d’inflazione vicino allo 0. E non è nei PIIGS. Il suo debito di Stato enorme non è un problema, e non è il debito dei cittadini, al contrario, è l’attivo dei cittadini che ne detengono una grossa fetta. Lo Stato giapponese non ha alcun problema a ripagare i suoi creditori nonostante l’immenso indebitamento, e nulla cambierebbe se i creditori fossero stranieri. Inoltre la valuta giapponese, lo yen, è tra le più richieste come valuta di riserva sui mercati internazionali. Questo perché Tokyo possiede la sua moneta sovrana e dunque, come detto dal Nobel Krugman, “Nazioni che hanno una moneta sovrana non soffrono i danni dell’Eurozona, infatti l’America che ha una moneta propria non ha questo tipo di problemi.

Ma possiamo uscirne, possiamo salvare il nostro Paese e riportarlo dove stava, fra le maggiori economie del mondo. Per questo il giornalista Paolo Barnard ha chiamato in Italia i macroeconomisti accademici della scuola internazionale Mosler Economics – Modern Money Theory (ME-MMT), una scuola di economia che eredita 100 anni di sapere economico da giganti come Friedrich Knapp, John Maynard Keynes, Abba Lerner, Michal Kalecki, Wynne Godley, Hyman Minsky. I macroeconomisti riuniti da Barnard hanno tenuto qui due convegni nazionali intitolati “NON ERAVAMO I PIIGS, TORNEREMO ITALIA”. Ne abbiamo tratto questo PROGRAMMA di SALVEZZA ECONOMICA NAZIONALE, di semplice lettura per tutti. Il PROGRAMMA è una guida di massima autorevolezza che spiega in ogni dettaglio di finanza dello Stato come l’uscita pilotata del Paese dalla sciagura dell’Eurozona non solo non costerebbe alla nazione miliardi, ma rilancerebbe la ricchezza nazionale di miliardi, con la Piena Occupazione, la piena produzione aziendale, col rilancio delle infrastrutture, l’arrivo di investimenti internazionali, e, non ultimo, il recupero delle sovranità monetaria e parlamentare totalmente perdute per volere di Trattati europei mai votati dagli italiani. Ne va del nostro futuro, della democrazia stessa. Torniamo Italia.

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