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La demeritocrazia del Governo Letta

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La demeritocrazia incalza e, col favore delle “larghe intese”, occupa il Palazzo, e già il Pdl torna a intonare la litania dei condoni.

Qualche curriculum: Giancarlo Galan ha presieduto la regione Veneto negli anni (1995-2010) che l’hanno issata in cima alle classifiche per la cementificazione del territorio, 11% a fronte di una media europea del 2,8 %; da ministro dei Beni culturali, ha chiamato come consigliere per le biblioteche Marino Massimo De Caro, che col suo consenso è diventato direttore della biblioteca dei Girolamini a Napoli, dove ha rubato migliaia di libri (è stato condannato a sette anni di galera per furto e peculato). Per tali benemerenze, Galan oggi presiede la Commissione Cultura della Camera.

Maurizio Lupi ha presentato nel 2006 un disegno di legge che annienta ogni pianificazione territoriale in favore di una concezione meramente edificatoria dei suoli, senza rispetto né per la loro vocazione agricola né per la tutela dell’ambiente. Ergo, oggi è ministro alle Infrastrutture e responsabile delle “grandi opere” pubbliche.

La commissione Agricoltura del Senato è naturalmente presieduta da Roberto Formigoni, ricco di virtù private e pubbliche, fra cui spicca la presidenza della Regione Lombardia negli anni (1995-2012), in cui è diventata la regione più cementificata d’Italia (14%) battendo persino il Veneto di Galan.

Flavio Zanonato, in qualità di sindaco di Padova, ha propugnato la costruzione di un auditorium e due torri abitative a poca distanza dalla Cappella degli Scrovegni, mettendo a rischio i preziosissimi affreschi di Giotto: dunque è ministro per lo Sviluppo economico, che di Giotto, si sa, può fare a meno.

Vincenzo De Luca come sindaco di Salerno ha voluto il cosiddetto Crescent o “Colosseo di Salerno”, 100 mila metri cubi di edilizia privata in area demaniale che cancellano la spiaggia e i platani secolari: come negargli il posto di viceministro alle Infrastrutture?

Marco Flavio Cirillo, che a Basiglio (di cui è stato sindaco), presso Milano, ha pilotato operazioni immobiliari di obbedienza berlusconiana, disseminando nuova edilizia residenziale in un’area dove il 10% delle case sono vuote, ascende alla poltrona di sottosegretario dell’Ambiente.

E quale era mai il dicastero adatto a Nunzia Di Girolamo, firmataria di proposte di legge contro la demolizione degli edifici abusivi in Campania, per l’incremento volumetrico mascherato da riqualificazione energetica e per la repressione delle “liti temerarie” delle associazioni ambientaliste? Ma il ministero dell’Agricoltura, è ovvio.Che cosa dobbiamo aspettarci da un parterre de rois di tal fatta? Primo segnale, l’onorevole De Siano (Pdl) ha presentato un disegno di legge per riaprire i termini del famigerato condono edilizio “tombale” del 2003, estendendoli al 2013, con plauso del condonatore doc, Nitto Palma, neopresidente della commissione Giustizia del Senato, e con la scusa impudica di destinare gli introiti alle vittime del terremoto. Se il governo Letta manterrà la rotta del governo “tecnico” che gli ha aperto la strada col rodaggio delle “larghe intese”, si preannunciano intanto cento miliardi per le cosiddette “grandi opere”, meglio se inutili, con conseguente criminalizzazione degli oppositori per “lite temeraria” o per turbamento della pubblica quiete. Più o meno quel che è successo all’Aquila al “popolo delle carriole”, un gruppo di volontariato che reagiva all’inerzia dei governi sgombrando le macerie del sisma, e venne prontamente disperso e schedato dalla Digos. In compenso, i finanziamenti per le attività ordinarie dei Comuni e delle Regioni sono in calo costante, e sui ministeri-chiave (come i Beni culturali) incombono ulteriori tagli selvaggi travestiti da razionale spending review, come se un’etichetta anglofona bastasse a sdoganare le infamie. La tecnica dell’eufemismo invade le veline ministeriali, e battezza “patto di stabilità” i meccanismi che imbrigliano i Comuni, paralizzano la crescita e la tutela ambientale, scoraggiano gli investimenti, condannano la spesa sociale emarginando i meno abbienti, comprimono i diritti e la democrazia. Ma il peggior errore che oggi possiamo commettere è di fare la conta dei caduti dimenticando la vittima principale, che è il territorio, la Costituzione, la legalità. In definitiva, l’Italia. L’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno è la messa in sicurezza del territorio e il rilancio dell’agricoltura di qualità. Il consumo di suolo va limitato tenendo conto di parametri ineludibili: l’enorme quantità di invenduto (almeno due milioni di appartamenti), che rende colpevole l’ulteriore dilagare del cemento; gli edifici abbandonati, che trasformano importanti aree del Paese in una scenografia di rovine; infine, il necessario rapporto fra corrette previsioni di crescita demografica e pianificazione urbana. Manodopera e investimenti vanno reindirizzati sulla riqualificazione del patrimonio edilizio e sulla manutenzione del territorio. Su questi fronti, il governo Monti ha lasciato una pesante eredità. Ai Beni culturali, Ornaghi ha sbaragliato ogni record per incapacità e inazione; all’Ambiente, Clini, che come direttore generale ne era il veterano, ha evitato ogni azione di salvaguardia, ma in compenso si è attivato in difesa di svariate sciocchezze, a cominciare dallo sgangherato palazzaccio di Pierre Cardin a Venezia. Ma dal governo Monti viene anche un’eredità positiva, il disegno di legge dell’ex ministro Catania per la difesa dei suoli agricoli e il ritorno alla disciplina Bucalossi sugli oneri di urbanizzazione: un buon testo, ergo lasciato in coda nelle priorità larghintesiste di Monti & C. e decaduto con la fine della legislatura.

Verrà ripreso e rilanciato il ddl Catania? Vincerà, nel governo Letta, il partito dei cementificatori a oltranza, o insorgeranno le voci attente alla legalità e al pubblico bene? Il Pd, sempre opposto ai condoni, riuscirà a sgominare la proposta di legge dell’alleato Pdl? Anche i forzati dell’amnesia, neosport nazionale assai in voga in quella che fu la sinistra, sono invitati non solo a sperare nei ministri e parlamentari onesti (che non mancano), ma anche a ripassarsi i curricula devastanti dei professionisti del disastro. Se saranno loro a vincere, sappiamo che cosa ci attende. Se verrà assodato che il demerito è precondizione favorevole a incarichi ministeriali, presidenze di commissioni ed altre incombenze, si può preconizzare la fase successiva, quando il supremo demerito, se possibile condito di qualche condanna penale, sarà conditio sine qua non per ogni responsabilità di governo. Che cosa dovremmo aspettarci da questa nuova stagione della storia patria? Il capitano Schettino alla Marina? Previti alla Giustizia? Berlusconi al Quirinale?

(Fonte Salvatore Settis – libertaegiustizia)

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Formigoni false 723 firme alle elezioni regionali del 2010

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Il Tribunale Civile di Milano ha depositato oggi il dispositivo della sentenza che dichiara false 723 firme prodotte a sostegno della Lista Formigoni in occasione delle elezioni regionali del 2010. Le controparti dei querelanti sono state condannate a pagare agli attori Cappato e Lipparini le spese processuali, liquidate in Euro 15.000,00, oltre accessori di legge. Si tratta di un numero di firme false tale da invalidare la presentazione a suo tempo della Lista Regionale per la Lombardia che sosteneva la candidatura dell’ex presidente della Giunta Regionale Lombarda Roberto Formigoni.

Marco Cappato e Lorenzo Lipparini, i Radicali che hanno intentato la causa contro la truffa Formigoni, hanno dichiarato: “l’Italia è il Paese dell’impunità e dell’antidemocrazia. Il risultato, grazie anche alla sentenza della Corte costituzionale che ha imposto alla giustizia amministrativa di attendere la giustizia civile, è che colui che avrebbe dovuto andarsene a casa – in ragione della truffa elettorale, senza la quale non avrebbe nemmeno potuto essere candidato, e della diffamazione contro i Radicali – invece che a casa è al Senato della Repubblica italiana e si appresta a votare il nuovo Capo dello Stato. Nel frattempo, i suoi soci di menzogne leghisti e pidiellini governano tranquilli la Lombardia. Siamo anche il Paese dove chi ha scoperto e denunciato la truffa – i Radicali – è stato cacciato dalle istituzioni regionali e nazionali. Ci auguriamo che qualcuno dei neoeletti Consiglieri regionali chiederà alla Regione se le parcelle degli avvocati difensori esterni della Regione Lombardia, che tanto hanno fatto per cercare di impedire o ritardare l’accertamento di una scomoda verità, siano state pagate dalla Regione, ovvero dai noi tutti cittadini contribuenti ed elettori”.

Gli avvocati Mario Bucello, Simona Viola e Renato D’Andrea, che hanno assistito i radicali nel giudizio hanno dichiarato “la decisione da un lato ci conforta, perché mostra la sensibilità del Tribunale Civile di Milano verso le speciali e delicate esigenze di giustizia che circondano i giudizi elettorali per altro verso, nonostante gli sforzi di celerità profusi anche dal Tribunale, la sentenza giunge quando ormai il Consiglio Regionale – abusivamente eletto grazie a operazioni manipolative – è stato sostituito da nuove elezioni. Se l’accertamento della falsità fosse stato di competenza del Giudice Amministrativo avrebbe potuto sopraggiungere in tempo utile per invalidare le elezioni. In questo quadro è indispensabile porre rapidamente all’ordine del giorno del nuovo Parlamento la necessità delle riforme volte a rendere effettiva la giustizia elettorale per scoraggiare nuovi abusi, assegnando al Giudice Amministrativo la competenza a decidere sulle falsità emerse nei procedimenti elettorali”.

(Fonte radicali)

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C’era una volta la Lega Nord e Roma ladrona

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Nell’immaginario leghista Roma rappresenta tutto ciò che il federalismo vuole sconfiggere: l’esasperazione dello statalismo, il centralismo delle istituzioni, la lottizzazione dei partiti, la corruzione e gli sprechi che proprio il progetto federalista punta a eliminare. In tutto questo, la parte del guerriero è interpretata dal Nord produttivo in cui Milano rappresenta il centro di eccellenza e di laboriosità indefessa, insieme alle valli bergamasche e alla Brianza operosa, contro gli sprechi delle regioni parassite del Mezzogiorno.

Nello scontro manicheo tra Nord e Sud del Paese, scrive Ilvo Diamanti, «“la questione settentrionale” è evocata, evidentemente, per analogia alla questione meridionale». Entrambe le espressioni intendono riferirsi a «un tema comune: la mancata capacità dello Stato nazionale di garantire identità, sostegno allo sviluppo, regolazione sociale, e allo stesso tempo la crescente dipendenza dalla società e dall’economia dello Stato». Per l’iconografia della Padania come Stato-nazione dotato di vita propria e caratteristiche peculiari, per la Lega diviene fondamentale, sin dagli esordi, tradurre il localismo in un nordismo dai confini nitidi, per «sagomare una proposta capace di aderire in modo più diretto alle esigenze e alle culture del Nord metropolitano, della grande industria, della comunicazione, della finanza e dei servizi».

La demarcazione tra Nord e Sud si avvale anche dell’antimeridionalismo come propulsore per la formazione di due schieramenti opposti che incarnano due visioni radicalmente diverse di Stato e sussidiarietà. Roma, in tutto questo, diviene per assimilazione lo sponsor ufficiale, oltre che della cultura di Palazzo, anche dell’inefficientismo del Sud, della cultura parassitaria che ha allevato generazioni di cittadini che hanno abdicato alla responsabilità individuale in nome del sussidio statale con il placet della partitocrazia.

Roma ladrona, slogan nato per attirare l’attenzione dei media, ha sempre suscitato reazioni accese tra le fila dei partiti. Bossi intende forse assimilare la sua Roma ladrona anche alla popolazione della città eterna, o utilizza il Leitmotiv solo come simbolo di una corruzione istituzionale e istituzionalizzata da debellare? A chiarirlo è lo stesso Senatùr: «Secondo noi della Lega, Roma è ladrona perché è la capitale dello Stato centralista, perché lì si raccolgono i politicanti corrotti e la burocrazia inefficiente, perché dai sette colli si tirano le fila di una politica di spoliazione delle piccole e medie imprese e in generale di chi lavora. È chiaro: molti romani, forse la maggioranza, sono affezionati clienti dei partiti e delle loro cosche. Ma ci sono anche cittadini onesti e noi speriamo di avere il loro voto, a Roma come in qualsiasi altra città». Queste sono riflessioni più sottili rispetto a quelle che la Lega declama nei suoi comizi, dove parlare alla pancia significa glissare sulle distinzioni tra il Palazzo e i cittadini di Roma o del Sud. Basta andare a Pontida o parlare con i militanti che, in nome dell’obiettivo federalista o del fuoco della politica, semplificano con piacere e convinzione. Nel popolo di Alberto da Giussano, infatti, il razzismo meridionalista, per quanto smorzato nelle occasioni ufficiali, è una fiamma sempre accesa. Corinto Marchini ad esempio, ex comandante delle Camicie Verdi e senatore, non nascose l’amarezza venata di vergogna riguardo una sua parentela malauguratamente di origine meridionale: «Eh sì, ho una nonna romana. Per me è come avere un’unghia incarnita. Mi dà fastidio». A lui si aggiunge anche Gianfranco Miglio che scarta senza riserve la possibilità di lavorare al sud: «Non amo i meridionali perché sono europeo. Non andrei mai a insegnare a Catania o a Palermo. Sarebbe fatica inutile». Continue Reading

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Roberto Formigoni: il Ballista

 

Per il vocabolario la bugia è un’«affermazione consapevolmente contraria alla verità». Formigoni propina questo genere di affermazioni.

La risposta è sì, da quando è scoppiato lo scandalo dell’ospedale San Raffaele. Per dimostrarlo, per ricordargliele, occorre mostrare le cinque principali bugie del presidente della Regione Lombardia. Il quale insiste, ieri ha scritto una lunga lettera in cui annuncia, tra l’altro, che «sarebbe impossibile per chiunque rispondere agli infiniti nuovi particolari verosimili, inverosimili o di fantasia. E dunque non lo farò». Che abbia compreso di aver parlato un po’ troppo e a suo danno?

Daccò e la Regione. L’ultimo rilancio di Formigoni è stato: «Se qualcuno dimostrasse che Pierluigi Daccò ha avuto un vantaggio dai suoi rapporti con me, mi assumerò — dice — le mie responsabilità e mi dimetterò», ritenendo «impossibile» che Daccò abbia ottenuto questi «indebiti vantaggi». A pagina 10 del verbale di Daccò però si legge: «Ovviamente negli anni ho sfruttato la mia conoscenza personale con Formigoni per accreditarmi di fronte ai miei clienti», manager di aziende che dalla regione Lombardia ottengono rimborsi plurimilionari.Secondo passaggio. Quando il 18 novembre 2011, Daccò era stato arrestato appena da tre giorni, Formigoni, intervistato da una radio sui rapporti tra lui, la Regione e Daccò, taceva sull’amicizia ventennale e assicurava: «Nessun tipo di rapporto, svolgeva per quello che si sa dei lavori di consulenza con il San Raffaele» e la Regione ha rapporti solo con «gli amministratori ». Pagina 7 del verbale di Daccò: «Sono “accreditato” dal 1978 in Regione, nel senso che rappresento grandi realtà ospedaliere in Lombardia da molti anni, in particolar modo il Fatebenefratelli, la fondazione Maugeri» e altri. Pagina 10 dello stesso verbale: «Formigoni sapeva che svolgevo questo tipo di attività, ma non ho mai parlato con lui di queste questioni ». Quindi, prima bugia: all’inizio dello scandalo Formigoni «oscura » l’intensità dei suoi rapporti con il lobbista arrestato e le frequentazioni più che trentennali di Daccò negli uffici del «suo» Pirellone.

Il “non ricordo”. «Non ricordo dove ho passato le vacanze di capodanno, devo consultare l’agenda», dice al Corriere della Sera. È stato scoperto che per tre capidanno di fila il presidente della Regione è stato alle Antille, in uno degli hotel più costosi del mondo, sette stelle lusso. Ci stava in compagnia di un uomo diventato in un paio di decenni milionario grazie agli appalti della sanità. Era smemorato il presidente Formigoni, su jet, acque cristalline, ristoranti raffinati?

Il conguaglio. Forse la spiegazione di questa bugia sta in altre domande: chi ha pagato chi, in quei tre capodanni? Che cosa è successo in quelle ferie? Nemmeno ieri, nella sua ultima lettera, Formigoni affronta seriamente la questione. Ma all’inizio diceva: «Quando si va in vacanza tutti insieme c’è qualcuno che organizza, poi a fine vacanza si fanno i conti ed eventualmente si pareggia». Il contenuto del verbale di Daccò, anticipato sabato da Repubblica, è ormai noto, ma vale la pena di ribadire un passaggio (è a pagina 9): «Oltre al capodanno2010-2011, ho passato con Formigoni anche il capodanno 2009- 2010 e 2008-2009. In occasione di tutte le vacanze di fine anno, ho sostenuto io tutte le spese di alloggio presso le ville prese in affitto ai Caraibi».

Le ricevute. Formigoni turista gratis è un dato di fatto, ormai assodato per tutti, meno che per lui. Gratis oltre che alle Antille, anche in altri posti. Gratis sono anche le sue crociere sulle barche di Daccò, alcune riservate esclusivamente a lui, anche se ieri Formigoni ribatte: «Sono stato ospite sulla barca Ad Maiora di Antonio Simone, amico da 40 anni, sempre su suo invito (…) qualche week end (…) altro che barche a totale disposizione per mesi e mesi!». Daccò ha ben altri ricordi. Anzi, affinché Formigoni fosse tranquillo, bisogna sottoscrivere dei contratti falsi. Ne sono stati trovati in Svizzera quattro, riguardano la barca Ojala, per il 2007. Alberto Perego, memores domini, e «ombra » del presidente della Regione, affitta, ma solo per finta. Nella realtà «non è stato pagato alcun corrispettivo (pagina 14 del verbale) per l’utilizzo dell’imbarcazione (…) per quattro mesi da parte di Formigoni e Perego in via esclusiva (…)». Il «corrispettivo di euro 36mila mensili a carico di Perego » è una foglia di fico a prova di capitaneria di porto e di paparazzo, nulla di più. E infatti, nella certezza che questi viaggi in cui lui ha portato il costumino da bagno e Daccò decine di migliaia di euro potessero costargli parecchio, Formigoni ipotizza all’inizio l’esistenza di ricevute. Dopo vari batti e ribatti, fa la sua attesa «rivelazione » un mese fa al settimanale Tempi: «Le ho buttate». E’ un’altra bugia, la quarta. Non sono mai esistite.

I vantaggi. È in questo modo sgangherato che si approda all’altro ieri e a ieri, quando Formigoni tenta l’ultimo gioco di prestigio. Non parla più di ricevute, chiede bensì di dimostrare che Daccò abbia tratto «vantaggio dai suoi rapporti con me». «Vantaggi» è una parola scivolosa. A pagina 9 del verbale, i magistrati pongono infatti a Daccò alcune domande sotto l’intestazione: «Altre utilità a favore del presidente Formigoni». Nei reati di concussione e corruzione non è previsto il solo il passaggio di denaro, ma quelle che il codice penale chiama, appunto, «altre utilità»: per esempio, affrontare vacanze da nababbo senza spendere un euro.

I rapporti Daccò-Formigoni. Investigatori, magistrati e avvocati da mesi stanno cercando di ricostruire quelli che possono essere i fatti-reato attribuiti a varie persone. Tra le quali Daccò e Simone, «socio» di Daccò, ex assessore regionale, «testa pensante», anche lui detenuto. I due «estraggono» (è un dato di fatto, che nessuno contesta) dalle case di cura collegate alla Fondazione Maugeri di Pavia una cifra che oscilla — i conteggi sono in corso — intorno a 70 milioni di euro. Per loro «tutto lecito», viceversa per l’accusa quella montagna di soldi viene intascata soprattutto grazie a consulenze per «prestazioni inesistenti »: come studi raffazzonati, persino uno sulla vita su Marte, ma pagati in maniera straordinaria. Costantino Passerino, direttore amministrativo della Maugeri, che dà il nulla osta per i pagamenti è un benefattore? O è un truffato? Non sembra: «Daccò — dice lui, interrogato — è un personaggio con cui chi svolge attività nel settore sanitario in Lombardia deve avere relazioni perché è risaputo che ha moltissima influenza nell’assessorato alla Sanità ed è un uomo molto importante in Comunione e Liberazione, in particolare per i suoi rapporti con il Presidente della Regione Lombardia». E non c’è dubbio che dopo il San Raffaele, anche le case di cura collegate alla fondazione Maugeri abbiano dato concesso molti vantaggi agli «amici» di Formigoni: perché? «Ci sono più soldi qui che nella maxitangente Enimont», si sente dire al quarto piano del palazzo di giustizia, in una Procura che ne ha viste tante, e che ha scoperto Tangentopoli: era vent’anni fa.

(Fonte La Repubblica)

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