L’unione è l’unica forza dei più deboli, la storia di César Chávez

Lavoratore americano di origine messicana, sindacalista e attivista dei diritti civili, César Chávez creò tramite le sue azioni delle condizioni migliori per i lavoratori agricoli. Obama ha tradotto in inglese e fatto suo lo slogan “Si, se puede”, lanciato da Dolores Huerta nel 1972 durante il digiuno di protesta di César Chávez, allora a capo della lotta contadina degli ispanici della California. “Si, se puede” è anche il motto del sindacato fondato da Chavez e Huerta, lo United Farm Workers: “Una volta cominciato, il cambiamento della società non può essere rovesciato. Non puoi disistruire le persone che hanno imparato a leggere. Non puoi umiliare una persona fiera di sé. Non puoi opprimere la gente che non ha più paura”. Continue Reading

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Sempre ho vissuto a Cuba

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Heberto Padilla è uno dei poeti contemporanei più importanti in lingua castigliana. Per Heberto Padilla, “la poesia deve essere, prima di tutto, comunicazione”.

Il suo libro Fuera del juego (1968) non ottiene l’approvazione del governo castrista e diventa il simbolo dei limiti della libertà di espressione del regime. Padilla cade in disgrazia, le autorità cubane lo costringono a un’autocritica pubblica per attività “conterrevoluzionarie”. Nonostante le proteste internazionali da parte d’intellettuali come Susan Sontag, Julio Cortazar, Jean Paul Sartre e Mario Vargas Llosa, i nostri Alberto Moravia e Federico Fellini, Padilla viene tenuto in carcere per 38 giorni. Costretto a ritrattare pubblicamente per poter ottenere gli arresti domiciliari, scriverà in seguito: “Quando a un uomo mettono davanti quattro mitragliatori e lo minacciano di tagliargli le mani se non ritratta, di solito acconsente, anche perché le sue mani sono necessarie per continuare a scrivere”. Soltanto nel 1980 riesce a emigrare negli Stati Uniti dove muore nel 2000 all’età di 68 anni. Continue Reading

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La Rivoluzione non come obiettivo ma come processo

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Un testo assai interessante di Amador Fernández-Savater, filosofo spagnolo, una lettura del libro A nuestros amigos del Comité Invisible, dal titolo “Riaprire la questione rivoluzionaria”.

Introduzione: Estendere le piazze

Recentemente, durante un viaggio in Argentina, dopo aver ascoltato il mio racconto delle peripezie politiche che vanno dal M15 a Podemos, un amico mi chiese se nella società spagnola c’è una spinta verso il cambiamento che abbia una forma diversa dal desiderio di tornar a vivere in un capitalismo “tranquillo”. Ovvero se ci sono elementi di una mutazione di civiltà o se si chieda soltanto di tornare a quel che c’era prima ma ora non c’è (neppure come aspettativa), un cambiamento senza cambiamento.

Non sapevo bene cosa rispondere se non qualche banalità (c’è un po’ di tutto) ma la domanda continuò a risuonare nella mia testa. Quale è il movimento di fondo che stiamo vivendo dopo il 2011? Si tratta solo di veder la caduta di coloro che sono responsabili del fatto che le cose non sono più come erano e cercare qualcuno che ci riporti alla normalità, o si tratta di inventare nuovi modi di vita?

Sette anni dopo aver pubblicato quel best-seller paradossale che fu La insurrection qui viene, l’ultimo libro del Comité invisible (CI) inizia dicendo che “finalmente le insurrezioni sono arrivate”. Primavera araba, 15M, Syntagma, Occupy, Gezi… A partire da qui una scommessa: nei movimenti delle piazza vi sono indizi di una mutazione di civiltà, però senza un proprio linguaggio, senza una bussola, nel mezzo di una grande confusione.

“A nuestros amigos” è un piccolo evento nel mondo editoriale, non nel senso che si tratti di un successo di vendita o di marketing, ma di una anomalia. Non è un libro di autore, se non per il fatto che viene firmato con la denominazione fittizia di una costellazione di collettivi e di persone che sostengono che “la verità non ha proprietario.” Non è un libro che semplicemente emerga dalla lettura di altri libri, ma un complesso di esperienze, di pratiche e di lotte che considerano importante pensarsi e raccontarsi da sole. Non è un libro che pretenda di convincere qualcuno, e perciò si dirige agli amici, a quelli che in qualche modo già stanno camminando insieme anche senza conoscersi proponendo una serie di segnali, come quelle fessure che lasciano coloro che vanno per sentieri ad altri amanti delle passeggiate, con la differenza che questo cammino non esiste prima della camminata.

Il dato da cui parte il libro sono le potenze e le impasses dei movimenti delle piazze, non intesi come una serie dispersa di eruzioni non collegate, ma come una sequenza storica di sollevazioni collegate tra loro. Questi movimenti irrompono e alterano profondamente i contesti nei quali si svolgono, fondendo legittimità che apparivano solide come la roccia e redescrivendo la realtà, però sembrano alla fine scontrarsi con un muro (la politica macro) ed entrare in fase di riflusso. E’ qui che appare o può apparire l’operazione egemonica: approfittando del collasso e dello spostamento del senso comune generato dal clima delle piazze, si tratta di conquistare l’opinione pubblica, i voti e il potere istituzionale, per forzare il limiti del capitalismo parlamentare dall’interno, attraverso politiche effettivamente socialdemocratiche (Syriza in Grecia, Podemos in Spagna).

Ci sono altre opzioni? Si può immaginare un prolungamento non elettorale o istituzionale della potenza a delle piazze? Tra la riproposizione del verticismo politico e la tentazione della nostalgia e del risentimento come continuare e come andare oltre?

Il Comité Invisible propone la sua alternativa: riaprire la questione rivoluzionaria. Cioè riproporre il problema della trasformazione radicale dell’esistente chiusa dai disastri del comunismo autoritario del ventesimo secolo. La rivoluzione non come obiettivo ma come processo ovvero non tanto come un orizzonte astratto o ideologico, un puro dover essere senza ancoraggio nel desiderio e nella realtà, ma come prospettiva, come un punto di vista capace di spingersi più lontano però a partire da dove si sta, con i piedi a terra. Questa prospettiva rivoluzionaria sarebbe, secondo il CI quella del passaggio dal “paradigma di governo “ (che in Occidente regola tutto: l’ordine politico economico e intimo) al “paradigma dell’abitare”, una svolta insieme fisica e metafisica. Ci torneremo.

Riaprire la questione rivoluzionaria, una proposta eccessiva, irreale, delirante, inopportuna, di minoranze per minoranze? Sicuramente sì. Però al tempo stesso che spostamento significativo è nato come opzione maggioritario come riflesso del senso comune? Non è sempre stato dall’esterno del possibilità che le questioni decisive si sono aperte? E non sono forse ogni volta un piccolo pugno di pazzi (schiavi, operai, neri, donne, omosessuali)
coloro che avviano le mutazioni più importanti? La politica trasformatrice non è mai consistita in un calcolo di maggioranze, ma in una nuova verità che si dirige potenzialmente a chiunque. Continue Reading

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A che servono i complotti?

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A) UNA LUNGA PREMESSA GEOPOLITICA

E’ opportuno inquadrare i fatti di cui ci accingiamo a parlare nella strategia geopolitica americana, recentemente definita da Demostenes Floros “caos controllato”1. Occorre premettere che le teorie complottiste che vogliono tutti gli eventi che si succedono drammaticamente nei paesi non occidentali come rispondenti ad un’unica centrale americana siano poco convincenti. E’ innegabile che però operatori di intelligence e ONG americane o anglosassoni si attivino quantomeno come “facilitatori” di eventi destabilizzanti nei confronti di avversari, concorrenti – e alleati scomodi. E’ difficile credere che l’intelligence americana abbia attivato e gestito artificialmente un processo travagliato e complesso come le rivolte arabe: ad esempio, per eliminare un Mubarak o un Ben Ali (impopolari in patria) salvaguardando però la stabilità di paesi amici una congiura di palazzo sarebbe stata preferibile. E’ comunque chiaro che il fine ultimo della destabilizzazione del mondo arabo per impedirvi la penetrazione russa e cinese presupponga al contrario un lavoro carsico molto più complesso che si è trovato ad includere anche la rimozione dei regimi laici a vantaggio saudita (e qatarino). E’ utile sottolineare che nessuno dei movimenti gihadisti gemmati da Al Qaeda dopo le rivolte sembri sin ora costituire un pericolo concreto per Israele (sono anche di frequente avversari tanto di Hamas quanto del nazionalismo laico e socialista palestinese). Anche questo non significa automaticamente che l’intelligence israeliana manipoli gli eventi ma può senz’altro suggerire spunti di riflessione. Continue Reading

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