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Ilva di Taranto 50 anni di veleni

L’impianto di Taranto nasce negli anni ’60 e già nel ’71 gli ambientalisti protestano. Nel 1982 la pretura di Taranto mise sotto indagine i manager per getto di polveri e inquinamento da gas, fumi e vapori. Il direttore dello stabilimento fu condannato a 15 giorni di arresto. Nel ’91 il ministro dell’Ambiente dichiarò Taranto area a elevato rischio ambientale, nel ’94 l’Enea avviò il Piano di disinquinamento e l’anno dopo i Riva comprarono lo stabilimento. Nel ’97 iniziò la rimozione dell’amianto e nel ’98 l’Enea definì gli interventi a carico dei Riva per la bonifica: non vennero eseguiti. Nel 2000 il Comune di Taranto chiese di modificare gli impianti, nel 2001 il tribunale dichiarò Emilio Riva, il figlio Claudio e altri dirigenti colpevoli di tentata violenza privata per avere demansionato alcuni impiegati che avevano denunciato la malagestione. Nel 2007 Emilio Riva fu condannato a 3 anni di reclusione e Claudio Riva a 18 mesi per omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro e violazione di norme antinquinamento. Nel 2008 la Corte d’Appello di Lecce condannò a due anni di reclusione Emilio Riva e a un 1 anno e 8 mesi il direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso, per getto pericoloso di cose, danneggiamento aggravato, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni. Nel 2002 il ministero dell’Industria istituì un tavolo per concedere l’Aia all’Ilva, solo nel 2011 si raggiunse un accordo basandosi su più elastici criteri (approvati anche da Vendola). A inizio 2012 il procuratore  di Taranto, Franco Sebastio, segnalò alle autorità locali che il livello dell’inquinamento era pericoloso per la popolazione ed era necessario intervenire subito. A luglio il primo sequestro dell’area e l’arresto di otto tra dirigenti ed ex dirigenti indagati per disastro ambientale. Ora nuove accuse per dirigenti e funzionari: associazione a delinquere, disastro ambientale e concussione.

La famiglia Riva

La saga della famiglia inizia nel 1954: Emilio Riva, nato nel 1926 a Milano e figlio di un commerciante in scarti ferrosi, avvia con il fratello Adriano un’attività di commercio di rottami, che vende ai siderurgici bresciani. Trasporta i pezzi di ferro su un vecchio camion Dodge. Ma già nel 1957 inizia a produrre acciaio a Caronno Pertusella, a nord di Milano. L’adozione, prima dei concorrenti, della colata continua diventa la più importante fonte di vantaggio competitivo della nuova impresa. Riva diventa il re del tondino, cresce e mette da parte i soldi per accaparrarsi un’acciaieria dietro l’altra.

«Non compro mai quando va bene, compro quando va male» spiega Emilio in una delle rarissime interviste. Negli anni Settanta è già arrivato all’estero, con acquisizioni in Spagna e Francia. Poi la crisi mondiale dell’acciaio investe la siderurgia pubblica europea. Riva ne approfitta subito: entra nella gestione di Cornigliano, compra un impianto nell’ex Germania Est e quindi, nel 1995, si aggiudica l’Ilva di Taranto. Il gruppo diventa enorme, lo stile non cambia. «Quando l’Ilva si chiamava Italsider» ricorda un imprenditore di Taranto, che lavorava per lo stabilimento siderurgico «i grandi manager pubblici venivano qui in città con una sfilza di auto blu e un codazzo di segretarie. Grandi parole in un convegno e via, tornavano a Roma. Quando invece incontrai per la prima volta uno dei figli di Riva, accadde all’interno dello stabilimento: arrivò a bordo di una vecchia Panda di servizio». «La presenza della famiglia sugli impianti produttivi, a contatto con tecnici e operai» dice un manager del gruppo «è una costante. Una cultura del lavoro che deriva dalla figura di Emilio, adottata poi da figli e nipoti».

La famiglia è molto importante per i Riva. «Il pranzo di Natale ha un valore simbolico forte» racconta un collaboratore di Emilio, che ha sei figli, due femmine e quattro maschi. Il più grande, Fabio, è il vero numero due del gruppo; Claudio, dal carattere spigoloso, è uscito dalle attività siderurgiche e segue quelle armatoriali; Nicola, finito agli arresti con il padre, è l’uomo della produzione; e Daniele guida lo stabilimento di Genova. In azienda lavorano pure i nipoti Angelo e Cesare. E le femmine? Riva preferisce tenere lontane le donne dall’azienda: le figlie fanno altro, le nuore sono invitate a non salire ai piani superiori della sede milanese dove ci sono gli uffici dei mariti. Ma saranno delle donne, le «donne di Cornigliano», a fargli rimangiare la promessa che lui a Genova non avrebbe mai chiuso l’altoforno. Due anni dopo la chiusura ammetterà: «Riconosco che nel centro di Genova un altoforno e una cokeria non possono esistere».

Se l’obiettivo è diventare più grandi («Ho sempre aperto e comprato fabbriche e non ne ho mai chiusa una» si vanta Riva), il metodo per realizzarlo poggia su alcuni punti fermi: una gestione efficiente affidata prima di tutto ai figli e ai tecnici di provata fiducia, niente top manager da business school. Poi attenzione maniacale ai costi: se ancora oggi Emilio, stipendiato come se fosse un qualsiasi dirigente, si attarda in ufficio, è lui che spegne le luci al terzo piano del quartier generale in fondo a viale Certosa, Milano.

Ed è proprio grazie alla capacità di mettere fieno in cascina che il gruppo riesce a resistere anche nei momenti più difficili. Come quello che stiamo vivendo ora: si produce di meno ma si riempiono comunque i piazzali di acciaio, pronti a venderlo quando l’economia tornerà a tirare, sbaragliando ancora una volta gli avversari. Intanto Riva si tiene buona la politica con finanziamenti ai partiti, di destra e di sinistra, e con l’acquisto di una quota nell’Alitalia dei «patrioti», mentre versa denari alla parrocchia di Tamburi, il quartiere più colpito dall’inquinamento dell’Ilva di Taranto, e forse, come sembrano testimoniare le ultime intercettazioni telefoniche, anche tangenti per addomesticare i risultati delle analisi ambientali. Disposto a tutto pur di continuare a fare acciaio. In silenzio.

Con i dipendenti alterna paternalismo e durezza: numerose le cause per comportamenti antisindacali. Ma anche attestati di stima e di ammirazione da parte dei lavoratori e dei fornitori. Certi giornalisti vengono manipolati, forse anche pagati, come rivelano le intercettazioni. Lo stile della casa lo fa intuire il giovane Emilio, omonimo del nonno, che parlando col padre Fabio dopo un incontro con Nichi Vendola suggerisce: «Facciamo un comunicato stampa fuorviante tanto per “vendere fumo”, dicendo che va tutto bene e che l’Ilva collabora con la regione».

Il patriarca rilascia poche interviste. E, quando si lascia convincere da una società di comunicazione ad aprire le porte dell’Ilva di Taranto a un giornalista, se ne pente immediatamente. Accade nel 2006, quando Panorama spedisce un suo inviato per raccontare come funziona la più grande fabbrica d’Europa. L’inviato, Angelo Pergolini, non può fare a meno di annotare l’alta incidenza di infortuni (oggi molto diminuiti) e scrive: «Quando tira vento, e a Taranto lo scirocco soffia spesso e forte, dai parchi (e dai nastri trasportatori che li collegano al porto) si alzano nuvole impalpabili, coprono il rione Tamburi, periferia di case popolari cresciuta parallelamente allo stabilimento da cui è divisa solo da un muro; scendono sugli edifici fatiscenti della città vecchia; si posano sulle vetrine eleganti di via D’Aquino, cuore dello shopping e dello struscio. Lasciano ovunque la stessa scia grigia e velenosa,penetrano dappertutto: polmoni compresi». Dopo la pubblicazione del reportage, la società di relazioni pubbliche viene licenziata.

Il fatto di essere diventato il 23esimo produttore mondiale di acciaio fa di Riva un bravo imprenditore? Margherita Balconi, docente nella facoltà di ingegneria dell’Università di Pavia, è un’esperta del settore. Autrice fra l’altro del libro La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato. La professoressa ha scritto in particolare un volume per il gruppo:Riva 1954-1994. Il percorso imprenditoriale della famiglia Riva. Il suo giudizio è abbastanza critico: «Fino all’acquisto dell’Ilva Riva è stato soprattutto un abile gestore di impianti e un imprenditore capace di cogliere l’opportunità di acquistare stabilimenti in crisi e di trasferirvi i propri metodi molto efficaci di gestione aziendale. È stato anche uno dei primi siderurgici in Europa ad avviare un importante processo di internazionalizzazione. Ma l’acquisizione, estremamente coraggiosa, dell’acciaieria di Taranto ha spinto il gruppo su di un terreno tutto nuovo».

Secondo Balconi, gestire uno stabilimento di quelle dimensioni, specializzato nel campo dei laminati piani di qualità, avrebbe comportato dei metodi di gestione diversi da quelli che avevano costituito la forza dei Riva. Le altre imprese europee che gestivano grandi impianti a ciclo integrale (in particolare la francese Usinor, oggi acquistata dalla Mittal) capivano l’importanza, per esempio, di fare ricerca e di investire per ottenere tipi di acciaio sempre più sofisticati. Una delle prime cose che invece ha fatto Riva dopo l’acquisto è stata allontanare dallo stabilimento i ricercatori del Centro sviluppo materiali (Csm) che stavano conducendo ricerche su un impianto pilota molto innovativo: tre giorni e poi fuori, senza neanche lasciare finire gli esperimenti. Con il metodo Riva i conti sono migliorati, ma la qualità no. Tanto è vero che l’Ilva serve ancora il mercato automobilistico, ma non rifornirebbe più l’acciaio per le carrozzerie (che deve essere visivamente perfetto). «E a quanto pare non fa parte della loro cultura innovare in funzione dei miglioramenti ambientali» commenta Balconi.

Alcuni sostengono che dietro l’uscita di Claudio dall’Ilva ci sia stato uno scontro proprio sul tema della qualità: il figlio ne voleva di più, il padre non era d’accordo.(Estratto da: Emilio Riva. Ilva, la vera storia dell’uomo accusato di avvelenare una città)

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