0

Imprenditori sotto assedio, otto su 100 subiscono intimidazioni

minacce imprenditori

Nel 2014, otto imprenditori italiani su cento hanno subito minacce o intimidazioni con finalità estorsive, 11 imprenditori su 100 dichiarano di conoscere altre imprese che sono state oggetto di minacce o intimidazioni, ma solo il 3% ha ceduto alle richieste.

Il fenomeno è in aumento rispetto al 2007 e si accentua nel Meridione e nei grandi centri. Sono questi i dati di Confcommercio e Gfk Eurisko, presentati nel corso della giornata di mobilitazione nazionale per la legalità. I rilevamenti evidenziano come nel 59% dei casi, le minacce si limitino a pressioni psicologiche, mentre danneggiamenti alle cose e violenza sulle persone si sono verificate, rispettivamente, nel 35% e nel 7% dei casi. La maggioranza degli imprenditori (53%) dichiara che queste minacce provengono dalla criminalità organizzata.

Al Nord la media è ancora più alta. A Milano sono 12 imprenditori su 100 che dichiarano di aver ricevuto minacce o intimidazioni. Il danneggiamento a cose è l’episodio più ricorrente seguito da minacce con visite o telefonate. E alle azioni violente seguono richieste da soddisfare con denaro, merci, assunzioni o altre modalità. A Roma l’86% delle imprese intervistate ha dichiarato di non avere mai ricevuto minacce o intimidazioni per finalità di estorsione, il 9,6% ha dichiarato di averne ricevute.

La metà delle imprese ha adottato misure di sicurezza per proteggersi dalla criminalità, principalmente con l’utilizzo di telecamere/impianti allarme (34%). Nel 2014 le imprese commerciali, gli alberghi ed i pubblici esercizi hanno perso 26,5 miliardi di euro per illegalità varie: abusivismo, contraffazione, taccheggio, criminalità. Fenomeni che comporatno anche una perdita di reddito per le imprese pari all’8,2%, con oltre 260 mila posti di lavoro regolari a rischio.

Luca Squeri, presidente della Commissione nazionale legalità di Confcommercio, già esponente del Comitato vittime racket e usura al Ministero dell’Interno, sottolinea l’importanza dell’anonimato: Pizzo e usura sono fenomeni difficilmente intercettabili, perché vivono sul terrore che gli aguzzini imprimono alle loro vittime, così non esistono denunce. I risultati mostrano che, mentre il luogo comune era che estorsione e usura fossero caratteristiche del Sud, a Milano, nella capitale dell’economia, vediamo attiva la ‘ndrangheta, che si è insediata come un cancro nel tessuto economico”.

La lotta per la legalità è una battaglia per la sopravvivenza, spiegano, tanto più in un momento di crisi. Dice Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio: “Gli imprenditori del commercio, del turismo, dei servizi alle imprese e alle persone, dei trasporti e della logistica, chiedono più presidio e controllo del territorio. Certezza della pena. Come diceva uno dei padri costituenti di questo Paese, Piero Calamandrei “non vi è legalità senza libertà”. Giusto, giustissimo, ma è vero anche che “senza legalità non vi è libertà”, neanche libertà economica”.

Condividi:
1

Storie di chi si è ribellato al racket

Liberiamoci dal pizzo

“Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”

Giuseppe Todaro è un imprenditore di Palermo che lavora nel settore della logistica del freddo e della produzione del gelato. Dopo essere stato vittima di soprusi estorsivi per circa dieci anni trova, finalmente, il coraggio e la forza di ribellarsi, denunciando i propri estorsori e costituendosi parte civile nel famoso processo denominato “Addio Pizzo”. Il processo, in cui sono stati condannati numerosi esponenti di spicco del clan mafioso di San Lorenzo, è così denominato in onore del movimento antimafia impegnato sul fronte della lotta al racket delle estorsioni nato nel lontano 2004. Il Comitato Addio Pizzo e l’associazione Libero Futuro, di cui oggi Todaro è il Vice Presidente, lo hanno assistito lungo tutto l’iter di affrancamento dal fenomeno estorsivo.

La storia ha avuto inizio nel 1995, quando Todaro avviò la sua azienda nella zona industriale di Cinisi. Quasi subito divenne oggetto di attenzioni da parte del boss Gaspare Di Maggio, il cui pedigree criminale era noto, oltre che alle forze dell’ordine, anche a chi viveva ed operava nel territorio palermitano, tra Cinisi e Carini. Di Maggio, di cui Todaro aveva capito sin da subito la pericolosità, impose all’imprenditore palermitano di “mettersi apposto immediatamente” perché l’azienda, ormai avviata, doveva, come tutte, pagare il pizzo. Nonostante la voglia di ribellarsi al fenomeno estorsivo, orami parte del tessuto sociale palermitano, Todaro fu costretto ad arrendersi. In preda ad ansie ed angosce, chiese aiuto ad amici e colleghi imprenditori, ma si rese subito conto che erano tutti troppo spaventati per lottare ed opporsi al sopruso. “Così è ora e così sarà per sempre”. E questa risposta, purtroppo, lo costrinse ad arrendersi alle richieste estorsive. Questo episodio segna l’inizio di una bruttissima avventura per l’imprenditore, che, terrorizzato dall’eventualità di subire danni alla sua azienda e sentendosi in pericolo per la propria incolumità e per quella della sua famiglia, entra nel tunnel del racket. Il vero problema, oltre ad essere rappresentato dalla scelta di pagare il pizzo, che nel caso di Todaro si aggirava intorno ai 2.000 euro al mese, era rappresentato soprattutto dall’intrusione della mafia in qualsiasi attività della azienda di Cinisi: dalle costruzioni all’impianto elettrico, dagli scavi alle forniture.

“Qualunque cosa facessi – ci dice Todaro – dovevo farla solo con determinati soggetti che mi venivano imposti”. Nel 1998 Todaro rilevò anche un altro stabilimento a Carini (in provincia di Palermo), e li la situazione sembrava apparentemente essere tranquilla. “Dopo un po’ di tempo venne a trovarmi – racconta Todaro- uno che si occupava delle manutenzioni per lo stabilimento dicendomi che queste venivano regolarmente fatturate”. Ed ecco un’altra amara costatazione da parte dell’imprenditore, ossia il pizzo era, ormai, diventato un modo, peraltro pure fatturato, per controllare indirettamente l’azienda. “Le estorsioni -continua Todaro- sono un biglietto da visita. La mafia aggancia così l’azienda, vi entra dentro e la utilizza a 360 gradi. È vero che l’azienda è tua ma se non puoi avere l’elettricista che vuoi, le opere edili che vuoi, alla fine ne perdi il completo controllo. Loro ti impongono addirittura il personale, anche se nel mio caso sono sempre riuscito ad evitarlo per via della manodopera specializzata di cui avevo bisogno”.

Nel 2008 arriva, dopo un importante e travagliata riflessione, la decisione di ribellarsi al racket. “Alla fine del 2008 – dice Todaro- chiesi aiuto associazione antiracket Addiopizzo. Fu cosi che iniziai a parlare dei soprusi che ero costretto a subire da anni. Ma oramai non ero più solo. Da allora cominciai a collaborare e, quindi, a non pagare più il pizzo. Dopo un periodo travagliato, caratterizzato da forti pressioni affinché pagassi e di intercettazioni da parte della polizia, i miei estorsori furono tutti arrestati”. Todaro decise di denunciare proprio perché si rende conto di non essere più solo ed isolato e di vivere in un contesto in cui sono maturate le condizioni per uscire definitivamente dal tunnel dell’estorsioni. Il lavoro straordinario delle forze dell’ordine e della magistratura da un lato, la presenza delle associazioni antiracket e di Confindustria d’altro, rappresentano una forte spinta nei confronti di chi, come l’imprenditore palermitano, decide di denunciare. “L’ho fatto principalmente per i miei figli -dice Todaro- avevo imbarazzo nei loro confronti. Come fa un padre, dopo avere educato al rispetto delle regole e al senso civico, a dire poi al proprio figlio: sappi che c’è lo zio Pino e tu ogni mese gli devi dare una busta con 2 mila euro. Quello che viviamo è un momento storico – continua l’imprenditore – Basterebbero delle denunce di massa per liberarsi definitivamente dal pizzo a Palermo, perché è uniti che si vince la paura e oggi non siamo più soli”. La storia di Giuseppe Todaro, coraggioso imprenditore, è la dimostrazione della “rivoluzione culturale” in atto contro la mafia a Palermo e dintorni.

Qui i commercianti/imprenditori che si sono opposti pubblicamente al racket delle estorsioni mafiose.

Addiopizzo832 negozi e imprese pizzo-free

10396 consumatori che li sostengono con i loro acquisti

33 produttori aderenti al marchio “certificato addiopizzo”

36 associazioni sul territorio che partecipano alla campagna

176 scuole coinvolte nella formazione antiracket

3585 messaggi di solidarietà da tutto il mondo

Condividi: