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Il ciclo di vita di una bottiglia di plastica

ciclo di vita di una bottiglia di plastica

L’Italia è la nazione europea che consuma più acqua in bottiglia (la terza nel mondo) con una media di quasi 190 litri a testa, il 65% dei quali venduti in bottiglie di plastica: circa 9 miliardi di bottiglie che richiedono petrolio per essere prodotte, trasportate ed eliminate (o riciclate), contribuendo fortemente allo sperpero di risorse non rinnovabili e al riscaldamento globale del nostro pianeta. Continue Reading

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Rifiuti urbani da abbigliamento usato o dono di vestiti ai bisognosi?

abiti usati

Intervista ad Andrea Fluttero, Presidente Fise Unire (Unione Imprese Recupero e Riciclo), Associazione di categoria che rappresenta le aziende delle diverse filiere del riciclo rifiuti, tra le quali anche quella degli abiti usati. Facciamo luce su un settore troppo spesso rappresentato negativamente e sul quale le organizzazioni criminali cercano di metterci le mani. Sempre più spesso, come testimoniato da alcune vicende di cronaca degli ultimi mesi, si registrano attività di raccolta “border-line” che, a volte anche violando disposizioni normative, basandosi su circuiti paralleli a quelli regolari e autorizzati per la gestione dei rifiuti tessili finiscono per alimentare traffici illeciti. Un grande equivoco che è giusto chiarire. Continue Reading

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Verso Rifiuti Zero con la filosofia delle “R”

piramide-rifiuti

Risolvere il problema della gestioni dei rifiuti? È così difficile iniziare a pensare ad una riduzione drastica per legge della produzione dei rifiuti a partire dagli imballaggi che rappresentano circa il 50% di tutti i rifiuti prodotti? Si può fare domani mattina, se si vuole. Caro Matteo Renzi prova a fare “tue” e a proporre in Europa la politica delle cosiddette “R”:

  • Riduzione della produzione dei rifiuti,
  • Raccolta differenziata “porta a porta”,
  • Riciclo,
  • Riuso,
  • Riparazione,
  • Responsabilizzazione dei cittadini e delle istituzioni.

R come Renzi ed R come Rifiuto, eccoti servito lo slogan.

La produzione globale annua di rifiuti si attesta sui 12 bilioni di tonnellate. Di queste metà è prodotta dai Paesi G8 ed 1/3 da quelli OECD. Ciò significa che annualmente circa 1/5 del materiale estratto finisce in rifiuti, mentre il resto è emesso in atmosfera (attraverso la combustione di combustibili fossili) o si aggiunge allo stock di materiali sotto forma di infrastrutture, investimenti e beni di consumo. L’andamento dei rifiuti nell’ultimo decennio varia da Stato a Stato: in Germania e Gran Bretagna si è registrata una riduzione del 10% -20%, in Giappone la produzione è stata costante, in Italia è aumentata del 30%. Ormai la gran parte dei rifiuti viene trattata in discariche ed inceneritori per essere riciclata. Per alcuni materiali i risultati ottenuti sono estremamente soddisfacenti (vetro, carta ed acciaio) ed il riciclaggio raggiunge quasi quota 50%. Alcuni Paesi rappresentano la punta di diamante del riciclaggio: ad es. Belgio e Paesi Bassi arrivano a riciclare il 95% dei rifiuti, la Svizzera si attesta al 90%.  Per i metalli, invece, il discorso è più complesso. Quelli ferrosi e non ferrosi sono facilmente riciclati, diversamente da quelli preziosi e di uso specifico. L’UNEP ha calcolato che su 60 metalli esaminati solo 18 sono riciclati al 50% e altri 36 appena al 10%; questo significa che i margini di un miglioramento sono elevati e c’è ancora molto da fare in questo ambito. In sostanza il tasso di riciclo, continua a crescere per i materiali di grandi dimensioni, mentre resta piuttosto basso per i materiali di grande valore.

L’Unione Europea, nel richiamare gli Stati membri ad una corretta gestione dei Rifiuti Solidi Urbani (RSU), ammette il conferimento in discarica e l’incenerimento dei RSU solo in assenza di valide alternative e come ultima opzione, poiché ritiene queste due metodiche di “smaltimento” antieconomiche e fortemente dannose per la salute e per l’ambiente. L’Associazione Medici per l’Ambiente (Isde) auspica e sostiene la politica delle cosiddette “R”: Riduzione della produzione dei rifiuti, Raccolta differenziata “porta a porta”, Riciclo, Riuso, Riparazione e Responsabilizzazione dei cittadini e delle istituzioni, così da evitare l’incenerimento dei materiali post-utilizzo e da ridurre progressivamente il loro conferimento in discarica dei rifiuti.

La migliore gestione dei materiali minimizzerà l’impatto ambientale riducendo il rilascio di sostanze tossiche nell’ambiente e limitando l’esposizione degli uomini alle stesse. Un altro vantaggio sarà rappresentato dalla diminuzione della quantità di materiali da estrarre per la produzione. A questi benefici si aggiungeranno quelli delle politiche coerenti con questa strategia. Per esempio si potranno incoraggiare i consumatori ad acquistare confezioni più grandi sia di cibo che di altri prodotti, così da evitare le singole confezioni. Ma questa soluzione presenta un insito pericolo: se si acquistano confezioni più grandi di cibo è più facile che i prodotti si deteriori provocando un danno ambientale forse peggiore di quello che si vorrebbe evitare. Semmai è più utile utilizzare la “filosofia delle R” per ridurre la dipendenza dalle materie prime importate. E’ quanto ha fatto il Giappone che ha investito molto nel riciclaggio dei materiali tanto da raggiungere una produttività delle risorse superiore al 37% della media del 2005.

Una società sostenibile richiede un incremento delle filiere brevi del ciclo dei materiali post utilizzo, in modo che possano essere attuati maggiori controlli e che l’intero ciclo possa essere gestito in relazione alle peculiarità sociali ed economiche di micro-aree territoriali. Con la piena attuazione di questo tipo di gestione il quantitativo di materiali che necessitino di un trattamento finale si riduce in maniera drastica e la parte residua può essere trattata senza alcuna combustione, con tecniche meccaniche di estrusione per attrito: tali sistemi sono già operativi con successo anche in Italia, e non determinano danno alla salute e all’ambiente come accade invece nel caso di “chiusura del ciclo dei rifiuti” con inceneritori e conferimento in discarica. In Italia il fenomeno delle discariche abusive e dello smaltimento illegale dei rifiuti, operato spesso da gruppi criminali, ha creato situazioni di grave e documentato danno ambientale e danno alla salute delle popolazioni,come nella nota area della Campania definita “terra dei fuochi”, si chiede quindi una particolare attenzione da parte del Parlamento Europeo su tutte le procedure e i fondi destinati alle opere di bonifica di queste aree.

Relativamente ai Rifiuti industriali, per la loro estrema e peculiare pericolosità per ambiente e salute, devono attuarsi politiche comunitarie tali da determinare una netta e rapida riduzione della loro produzione e per un loro idoneo smaltimento e riciclo con necessarie e puntuali verifiche soggette alle stesse normative in ogni singolo Stato membro. L’Isde propone anche la formazione di un nucleo investigativo europeo dedicato alla prevenzione e repressione dei crimini ambientali in tema di stoccaggio e illecito smaltimento di rifiuti urbani e industriali e posto in piena attività di collaborazione con le istituzioni e le forze a questo preposte in ogni Stato membro.

L’obiettivo e il sogno è arrivare ad ottenere una raccolta differenziata attorno all’80%, in un arco di tempo di due anni. Si può fare, con i 10 punti proposti da Paul Connett. I dieci passi verso Rifiuti Zero:

  1. Separazione alla fonte.
  2. La raccolta porta a porta (viene effettuata con tre contenitori a San Francisco, quattro in Spagna, sei a Capannori).
  3. Compostaggio. Il compost di qualità ha alti rendimenti in agricoltura. Le radici trattengono anidride carbonica, che nell’atmosfera provoca il riscaldamento del Pianeta.
  4. Il riciclo.
  5. Riuso, riparazione e decostruzione (di vecchi edifici).
  6. Riduzione.
  7. Incentivi economici (paghi solo per mi rifiuti indifferenziati che produci).
  8. Separazione del residuo e Centro di ricerca Rifiuti Zero (esperienze in Nuova Scozia e a Capannori).
  9. Coinvolgere industria e università per la ricerca.
  10. La discarica transitoria.
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Il 50% dei rifiuti in Italia è ancora smaltito in discarica

rifiuti in Italia ancora smaltiti in discarica

Quasi il 50% dei rifiuti urbani prodotti in Italia viene conferito in discarica, a fronte di Paesi del Nord Europa che in alcuni casi hanno di fatto raggiunto l’obiettivo di azzerare del tutto l’interramento dei rifiuti (Germania, Paesi Bassi e Svezia), accompagnando al minore ricorso alla discarica valori di recupero e incenerimento significativamente più alti di quelli italiani.

In Italia si producono annualmente circa 170 milioni di tonnellate di rifiuti, tra urbani, speciali e pericolosi, pari a una media di 3 tonnellate di rifiuti pro capite annui. Gran parte di questi è prodotta dalle attività di costruzione e demolizione (35% del totale), un quarto circa è composto da rifiuti speciali non pericolosi, il 19% da rifiuti urbani, il 15% dal trattamento dei rifiuti e infine il 6% da rifiuti speciali pericolosi. La produzione annua di rifiuti in Europa è stimata pari a circa 2,5 miliardi di tonnellate, equivalenti a 5 tonnellate di rifiuti pro capite, con una distribuzione per tipologia di rifiuto molto differente da quella italiana: i rifiuti urbani in Europa rappresentano appena l’8,7% del totale, mentre la gran parte dei rifiuti è prodotta dal settore industriale (i rifiuti speciali non pericolosi sono il 48% del totale). Rappresentando valori medi riferiti a tutti gli Stati membri, questi dati nascondono in realtà importanti differenze, in particolare tra gli Stati originari e i nuovi Stati membri, più indietro nel perseguimento della strategia europea per i rifiuti. La produzione di rifiuti urbani in Europa, come in Italia, è il risultato di un mix di fattori, i più rilevanti dei quali sono l’andamento del PIL, la crescita demografica e le politiche messe in atto per la gestione del ciclo dei rifiuti.

Rispetto ai percorsi indicati dall’Unione Europea per una gestione del ciclo integrato finalizzata a raggiungere l’obiettivo di conferire in discarica il minor quantitativo possibile di rifiuti, l’Italia si trova in condizioni piuttosto critiche. I rifiuti vengono interrati nel 49,2% dei casi, rispetto a una media europea del 37,2% e a valori prossimi allo zero per i Paesi più virtuosi (Germania, Paesi Bassi e Svezia). Parliamo tuttavia di un dato medio, poco rappresentativo di situazioni regionali che presentano macroscopiche differenze: accanto a Regioni che mandano in discarica al massimo il 10% dei rifiuti (Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Veneto), altre Regioni interrano quasi interamente la loro produzione di rifiuti (Sicilia, Calabria, Molise). Differenze che si riscontrano anche in altri aspetti rappresentativi di una gestione più o meno virtuosa del ciclo integrato: la raccolta differenziata raggiunge percentuali superiori al 50% in tutte le Regioni del Nord Italia (fanno eccezione solamente la Liguria e la Valle d’Aosta), mentre in alcune realtà stenta a raggiungere il 20% (Sicilia, Calabria, Puglia, Molise); in Lombardia e in Emilia Romagna si inceneriscono più di 200 kg di rifiuti pro capite l’anno, rispetto ai 2 kg pro capite delle Marche, agli 8 del Piemonte, ai 18 kg pro capite pugliesi. Questi differenti risultati sono del resto il frutto di condizioni di contesto profondamente diverse. Innanzitutto la dotazione impiantistica che, se risulta insufficiente a livello nazionale, a livello territoriale sembra del tutto disomogenea: accanto a Regioni che hanno una dotazione impiantistica, al netto della discarica, superiore ai 4 impianti per 1.000 kmq (Lombardia), altre Regioni (Basilicata, Sicilia, Sardegna) registrano una densità impiantistica ogni 1.000 kmq che non raggiunge neanche l’unità. Anche la struttura imprenditoriale risulta tutt’altro che omogenea. Le Regioni nord orientali si contraddistinguono per la significativa presenza di multiutility: in Emilia Romagna il 16,9% delle imprese di igiene ambientale è una multiservizio, così come circa l’11% delle imprese venete e toscane e più del 10% delle imprese lombarde e alto atesine. In compenso in Sicilia e in Piemonte non si registra la presenza di alcuna multiservizio, e non stanno molto meglio altre Regioni in cui le multiutility rappresentano meno del 4% del tessuto imprenditoriale (Lazio, Campania, Liguria). Alla struttura imprenditoriale è legata soprattutto una diversa capacità di investimento che non fa che acuire la già profonda differenza impiantistica; le imprese multiservizio sono infatti anche quelle che in virtù della possibilità di diversificare le fonti di ricavo, ma soprattutto della grande dimensione, riescono a programmare meglio le politiche di investimento, garantendo migliori risultati. L’analisi degli investimenti realizzati ha infatti dimostrato come nel Mezzogiorno d’Italia la più alta presenza di gestioni in economia, unita alla piccola dimensione media delle imprese, abbia di fatto determinato una scarsa capacità di investimento, non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi. Gli investimenti che hanno reso di più sono stati infatti quelli realizzati dal sistema imprenditoriale, piuttosto che dagli Enti locali e, tra i primi, quelli delle realtà aziendali più grandi. Anche il costo del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti presenta forti differenziazioni territoriali; ancora una volta le situazioni più competitive, in grado di gestire il settore a costi più contenuti, si trovano nel Nord del Paese, mentre è nel Mezzogiorno che, pur in presenza di livelli di raccolta differenziata contenuti e con uno smaltimento ancora prevalentemente concentrato in discarica, si registrano i costi più alti. In generale si osserva che in alcune Regioni l’aver mantenuto elevati i costi medi di smaltimento in discarica, anche con il sistema dell’ecotassa, ha ben funzionato come disincentivo, concorrendo a favorire lo sviluppo di soluzioni alternative, mentre in altre aver lasciato la discarica a costi molto competitivi rispetto ad altre forme di recupero e smaltimento ha di fatto rafforzato la tendenza del sistema a ricorrere prevalentemente all’interramento dei rifiuti. Infine si osservano alcune situazioni paradossali per cui, nonostante l’alto costo della discarica, questa continua a essere la soluzione più praticata, presumibilmente per un’arretratezza generale nella gestione del ciclo che fatica a essere risolta (è il caso per esempio della Sicilia). Aver ottenuto risultati, anche molto virtuosi, in alcune realtà territoriali italiane mostra il tema del risanamento del comparto sotto una luce leggermente differente; l’obiettivo di ridurre al minimo il conferimento dei rifiuti in discarica è infatti evidentemente perseguibile e raggiungibile anche nel nostro Paese. Si tratta quindi di individuare un percorso realizzabile, che crei in tutte le diverse realtà territoriali le condizioni di mercato per cui al sistema risulti più conveniente prevenire, recuperare, riciclare, incenerire, piuttosto che portare in discarica. Peraltro, oltre a essere un obiettivo che ci impone l’Unione Europea, la riduzione del conferimento in discarica e la scelta di strategie alternative rappresentano comunque un’esigenza imprescindibile: già nel 2009 si stimava un’autonomia del sistema di smaltimento nazionale di poco superiore ai due anni. A questa emergenza non si è di fatto data alcuna risposta, se non quella di puntellare le situazioni emergenziali che sono andate via via diffondendosi nel Paese. Se a ciò si aggiunge che i tempi medi per le autorizzazioni a realizzare nuovi impianti sono pari a circa 7-8 anni, appare piuttosto chiaro come il Paese si trovi già in notevole ritardo rispetto alla programmazione di soluzioni alternative o di potenziamento delle attuali capacità di smaltimento. La differente performance territoriale è in buona parte attribuibile all’assetto istituzionale del settore, che lascia di fatto alla programmazione regionale la definizione della strategia di gestione e sviluppo del ciclo integrato dei rifiuti. Alla luce di quanto emerso dalle analisi sulle performance regionali, si potrebbe dunque immaginare per lo Stato centrale un ruolo di coordinamento e indirizzo strategico, eventualmente anche attraverso l’elaborazione di un Piano nazionale programmatico, che metta a sistema e razionalizzi le diverse previsioni presenti nei documenti attualmente vigenti ancora troppo generali e generiche nei contenuti (Rete nazionale integrata di impianti di incenerimento rifiuti, Piano nazionale di prevenzione) e che possa essere vincolante per le Regioni. In realtà nel Codice dell’ambiente già si prevedeva un sistema multi-livello delle competenze che dava alle Regioni la responsabilità di realizzare i piani regionali di gestione dei rifiuti, pur individuando per lo Stato un compito di indirizzo, rappresentato essenzialmente dalla adozione di criteri generali per la redazione dei piani regionali, dal compito di individuare gli impianti di recupero e smaltimento di preminente interesse nazionale e di determinare le linee guida per la definizione delle gare d’appalto. Tale sistema è stato però nella realtà ampiamente disatteso e ha portato solamente a una produzione di piani ipertrofica a livello di Regioni, Province e Ambiti territoriali ottimali, contribuendo a rendere ancor più confuso e frammentato il quadro normativo di riferimento. Una programmazione che superi il livello regionale consentirebbe di affrontare anche il tema dell’adeguamento infrastrutturale del settore e della riorganizzazione dell’offerta impiantistica esistente, mantenendo ovviamente una particolare attenzione agli assetti territoriali. Il rapporto con il territorio è di rilevanza primaria al fine sia di ottimizzare la logistica dei trasporti dei rifiuti, sia di garantire un adeguato dimensionamento degli impianti di trattamento e smaltimento, sia di efficientare i rapporti con i segmenti a monte della filiera, molto frammentati, e i rapporti con i mercati di sbocco dei materiali recuperati. Una programmazione dunque che, coniugando esigenze nazionali e territoriali, consenta di intervenire sul sistema impiantistico assicurando che la raccolta abbia adeguati impianti ai quali rivolgersi, che gli stessi non rimangano sottoutilizzati, che la discarica rappresenti effettivamente la scelta residuale. A tale scopo appare cruciale reperire i finanziamenti necessari alla realizzazione di quanto programmato. Stiamo parlando di cifre non irrisorie, visto che una stima riferita ai soli impianti di incenerimento e di compostaggio parla di un fabbisogno finanziario di circa 18-19 miliardi di euro, ai quali si dovrebbero aggiungere gli investimenti necessari per ammodernare l’impiantistica esistente e incrementare la dotazione del segmento del riciclo. Non esistono al momento quantificazioni specifiche di questo ulteriore fabbisogno, rispetto al quale tuttavia si deve evidenziare la assoluta necessità di realizzazione, in virtù dell’obsolescenza di molti impianti e della carente dotazione infrastrutturale, quantitativa e qualitativa, del comparto del riciclo, rispetto al quale anche gli investitori privati avrebbero convenienza e interesse a intervenire. Il settore del riciclo rappresenta infatti un elemento di spicco del ciclo integrato dei rifiuti italiani, rispetto al quale si osservano tuttavia alcune criticità legate non solo alla già sottolineata scarsa dotazione impiantistica, ma anche all’inefficienza del sistema dei consorzi che, se da un lato ha contribuito in maniera determinante alla nascita del settore, creando le condizioni per un suo sviluppo, dall’altro rischia oggi di ingessare eccessivamente un mercato pronto per una maggiore esposizione concorrenziale. Nell’ottica di un rafforzamento del comparto del riciclo occorre una seria politica industriale, anche attraverso l’introduzione di incentivi alle imprese del settore e il sostegno allo sviluppo del Green Public Procurement (acquisti “verdi” da parte della Pubblica Amministrazione), come si prevede nel collegato ambientale. Sempre con riferimento al sistema dei consorzi si deve in aggiunta evidenziare che un sistema più efficiente e un maggior contributo da parte dei soggetti, ai quali si applica il principio della responsabilità estesa del produttore, avrebbe un impatto significativo anche in termini di possibile riduzione dei costi del servizio per l’utente. Il tema della tariffa è un altro aspetto cruciale del sistema dei rifiuti italiano, rispetto al quale è assolutamente necessario intervenire in maniera chiara. L’attuale sistema tariffario è infatti piuttosto confuso e rimesso alla discrezionalità dei Comuni, con diverse metodologie di calcolo e diversi risultati in termini di copertura dei costi del servizio e di spesa delle famiglie e delle imprese. Inoltre si è piuttosto lontani dal rispettare il principio comunitario del “pay as you throw”, mancando di fatto in gran parte del territorio un sistema di tariffazione puntuale. Le recenti disposizioni normative, definite nel disegno di legge di stabilità per l’anno 2014, non hanno peraltro contribuito a fare chiarezza al riguardo. È opportuno infine che il sistema di governance del settore venga in parte rivisto, pur mantenendo validi i princípi che hanno portato alla prescrizione di ambiti ottimali che favorissero l’aggregazione, in un mercato contraddistinto dalla piccola dimensione aziendale. La gestione integrata, già prevista dal decreto Ronchi, aveva infatti l’obiettivo di favorire il consolidamento delle imprese. Tuttavia se è importante che il ciclo dei rifiuti sia considerato integralmente, soprattutto in fase di pianificazione, programmazione e regolamentazione, questo è meno vero in sede di affidamento del servizio. Inoltre le caratteristiche industriali e tecnologiche delle diverse fasi della filiera, che presentano mercati distinti e agevolmente identificabili, fanno propendere per l’opportunità di gestire separatamente i vari segmenti, pur nella consapevolezza dell’importanza che i rapporti tra questi assumono per le numerose interazioni. Molti degli aspetti critici evidenziati e delle possibili soluzioni individuate sono in realtà già presenti nella vigente normativa, che però nei fatti è stata attuata in modo poco tempestivo e puntuale, senza una visione d’insieme e di lungo termine, effettivamente ispirata a un principio di coordinamento istituzionale e all’efficienza gestionale. Solamente per dare un’idea del “blocco attuativo” che ha caratterizzato la normativa settoriale si può considerare come a oggi si sia ancora in attesa di un notevole numero di adempimenti nazionali che potrebbero invece, se realizzati, contribuire piuttosto significativamente al rafforzamento del comparto. In particolare: la definizione di un metodo standard per la certificazione delle raccolte differenziate; il regolamento per la definizione della tariffa puntuale e la revisione del metodo normalizzato; il regolamento sull’assimilazione dei rifiuti speciali non pericolosi agli urbani.

Quello che è venuto a mancare fino a oggi è soprattutto “il mercato”, che avrebbe potuto invece contribuire in maniera determinante a creare quelle condizioni di contesto necessarie per superare le criticità tipiche del settore. Parliamo del “nanismo” imprenditoriale, dell’eccessiva dipendenza delle imprese del comparto dal contributo degli Enti locali per la remunerazione delle fasi a monte del servizio, della scarsa presenza soprattutto delle aziende più piccole nelle fasi più remunerative della filiera (recupero energetico e riciclo), dell’insufficiente livello qualitativo e quantitativo degli investimenti. Si tratta di limiti che vanno superati rapidamente se si vuole guardare al settore in un’ottica di effettivo sviluppo. Senza il superamento di questi, infatti, non sarà possibile gestire i rifiuti secondo una logica innovativa, che li trasformi da scarti da eliminare a risorse da sfruttare.

*Obiettivo discarica zero

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