In uno dei suoi primi scritti, Karl Marx sosteneva che la situazione in Germania era tale per cui i problemi particolari potevano essere risolti solo ricorrendo a una soluzione universale: una rivoluzione globale. Questa, in sintesi, è la differenza tra un periodo riformista e uno rivoluzionario: in un periodo riformista, la rivoluzione globale rimane un sogno che nel migliore dei casi ci sostiene nel tentativo di introdurre dei cambiamenti a livello locale, mentre la situazione rivoluzionaria si crea quando appare chiaro che certi problemi particolari possono essere risolti solo con un cambiamento radicale e globale. I problemi e le proteste degli ultimi anni sono il segno di una crisi globale che si sta gradualmente ma inesorabilmente avvicinando o sono solo ostacoli minori che possono essere arginati, se non risolti, con interventi specifici?
La cosa più notevole è che le proteste stanno esplodendo non solo, e neanche principalmente, nei punti deboli del sistema, ma in paesi finora considerati in una situazione invidiabile. Che ci siano problemi all’inferno è comprensibile: sappiamo bene perché protestano i greci e gli spagnoli. Ma in paradiso, in paesi ricchi o almeno in rapido sviluppo come la Turchia, la Svezia e il Brasile, perché protestano? Forse, allora, c’è qualcosa che non funziona nella nostra idea di paradiso.
Quella che prova la maggioranza dei manifestanti è una vaga sensazione di disagio e malcontento che unifica una serie di rivendicazioni particolari. Ancora una volta, si conferma la validità di una frase di Hegel: “I misteri degli egizi erano misteri anche per gli egizi”. La difficoltà di interpretare le proteste non è solo di tipo epistemologico. Il tentativo dei giornalisti e degli analisti di capire i veri motivi che le hanno originate è anche di tipo ontologico, riguarda le proteste in sé. Anche quelli che manifestano non sanno bene qual è il loro vero obiettivo: stanno protestando contro l’amministrazione corrotta della città? Contro un governo islamista autoritario? Contro la privatizzazione degli spazi pubblici? La risposta è aperta, dipenderà dal risultato degli avvenimenti in corso.
Lo stesso discorso vale per la dimensione geograica delle proteste. Nel 2011, quando le proteste sono cominciate in Europa e in Medio Oriente, molti commentatori insistevano nel dire che non bisognava vederle come espressione dello stesso movimento globale, che ognuna nasceva da una situazione specifica. In Egitto i manifestanti chiedevano cose che il movimento Occupy metteva in discussione: libertà e democrazia. Perino nell’ambito dei paesi musulmani c’erano differenze cruciali: la primavera araba egiziana era diretta contro un regime autoritario filoccidentale corrotto, la rivoluzione verde iraniana contro l’islamismo autoritario. Come è facile capire, questa specificità delle proteste fa il gioco dei difensori dello status quo: non c’è una minaccia per l’ordine globale in sé, ma solo una serie di problemi locali.
A questo punto, però, sarebbe opportuno riprendere il vecchio concetto marxista di totalità, e nello speciico della totalità del capitalismo globale. Il capitalismo globale è un fenomeno complesso che influisce in modo diverso su paesi diversi, ma ciò che unisce queste proteste è che sono tutte reazioni a sfaccettature diverse della globalizzazione capitalista. La tendenza generale del capitalismo globale di oggi è verso un’ulteriore espansione dell’impero del mercato, combinata con la progressiva chiusura degli spazi pubblici, la riduzione dei servizi (sanità, istruzione, cultura) e una gestione sempre più autoritaria del potere politico. È in questo contesto che vanno viste le proteste dei greci contro lo strapotere della finanza internazionale e contro lo stato clientelare corrotto, inefficiente, e sempre meno in grado di garantire i servizi sociali fondamentali. È in questo contesto che vanno viste le proteste dei turchi contro la commercializzazione degli spazi pubblici e l’autoritarismo religioso; degli egiziani contro un regime dispotico e corrotto appoggiato dalle grandi potenze occidentali; degli iraniani contro un fondamentalismo religioso corrotto e inefficiente, e così via. Ciò che unisce tutte queste proteste è che nessuna può essere ridotta a un unico tema, tutte ne coniugano almeno due: uno di carattere economico (dal rigetto della corruzione e dell’inefficienza al vero e proprio anticapitalismo) e uno di carattere politico-ideologico (dalla richiesta di democrazia a quella di andare oltre la democrazia multipartitica tradizionale). Lo stesso vale per Occupy Wall street. Dietro la profusione di affermazioni (spesso confuse), il movimento dava voce a due istanze fondamentali: il malcontento nei confronti del capitalismo come sistema (il sistema in sé, non particolari episodi di corruzione) e la presa di coscienza che l’attuale forma di democrazia rappresentativa non è sufficiente a combattere gli eccessi del capitalismo, e quindi la democrazia dev’essere reinventata.
Le rivolte di oggi nascono dalla combinazione, o sovrapposizione, di diversi livelli di malessere, e la loro forza sta proprio in questa combinazione: i manifestanti lottano contro regimi autoritari per avere una democrazia “normale”, parlamentare; contro il razzismo e il sessismo, in particolare nei confronti degli immigrati e dei rifugiati; per lo stato sociale contrapposto al neoliberismo; contro la corruzione della politica e dell’economia (le aziende che inquinano l’ambiente); per nuove forme di democrazia che vadano oltre il rituale del multipartitismo. Ma mettono anche in discussione il sistema capitalistico globale in quanto tale per mantenere viva l’idea che una società non capitalistica è possibile.
Quando la rivolta raggiunge il suo obiettivo immediato, ci rendiamo conto che quello che ci disturbava veramente (la mancanza di libertà, l’umiliazione, la corruzione, la mancanza di una prospettiva di vita decente) è ancora lì in una nuova forma, quindi dobbiamo ammettere che il nostro obiettivo era sbagliato. Potremmo renderci conto che la democrazia può anche essere una forma di mancanza di libertà, o che dobbiamo chiedere qualcosa di più della semplice democrazia politica, che deve essere democratizzata anche la vita economica e sociale. In breve, dobbiamo ammettere che quella che all’inizio consideravamo la realizzazione incompleta di un nobile principio (di libertà democratica) è un difetto del principio stesso. Capire che il fallimento può essere intrinseco al principio per cui ci battiamo è un grande passo nella maturazione politica.
(*Estratto da Internazionale)
La terza rivoluzione industriale. Come il «potere laterale» sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo. La nostra civiltà deve scegliere se continuare sulla strada che l’ha portata a un passo dal baratro, o provare a imboccarne coraggiosamente un’altra. E non ha molto tempo per farlo.