Il caporalato è un reato mafioso



Il Parlamento ieri ha approvato il Disegno di Legge 1138, la riforma del Codice Antimafia, che contiene la confisca e la responsabilità in solido per le aziende che sfruttano i lavoratori nei campi tramite il caporalato, così come chiesto dalla campagna Filiera Sporca per colpire chi trae diretto vantaggio dallo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura.

All’interno della riforma sono stati inseriti tre emendamenti relativi alle sanzioni pecuniarie ed interdittive in relazione a imprese che promuovono, dirigono, organizzano, finanziano o effettuano il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato esponendoli a pericolo per la propria vita o sottoponendoli a trattamento inumano o degradante o ancora sfruttandoli sessualmente o lavorativamente. Il testo, approvato con 281 voti favorevoli, 66 contrari tra Forza Italia e Movimento 5 stelle e due astenuti, dovrà adesso passare all’esame del Senato. Il commento delle associazioni:

“La prima richiesta di Filiera Sporca è passata! Finalmente anche le aziende pagheranno per lo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura: è stato approvato alla Camera l’emendamento al Codice Antimafia proposto da‪ #‎FilieraSporca (Terra! onlus, Associazione daSud e terrelibere.org), presentato da Celeste Costantino (Sel) e votato a larga maggioranza che prevede la confisca e la responsabilità in solido per le aziende che sfruttano i lavoratori nei campi tramite il caporalato. Ringraziamo Associazione Studi Giuridici Immigrazione per il supporto legale e Davide Mattiello (Pd) per averla supportata con gli emendamenti in Parlamento. Il prossimo passo è lavorare per una maggiore trasparenza di tutta la filiera che passi per la pubblicazione dell’albo dei fornitori e dall’introduzione di una vera e propria etichetta narrante dei prodotti agroalimentari. Ci auguriamo che il Governo e tutte le forze parlamentari proseguano uniti in questa battaglia”.

Condividi:
1

Le 10 verità sul Made in Italy agroalimentare

Made in Italy-agroalimentare

L’Italia è certamente in crisi, vive, più di altri Paesi, un momento di grande incertezza appesantito dai suoi problemi antichi: il debito pubblico, le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia spesso persecutoria e inefficace. Ma non è un paese senza futuro. A patto che riparta da ciò che nel mondo ci rende eccellenza: la bellezza, il genio, la creatività ancorati ai territori. E la qualità, che da quella bellezza e creatività trae ispirazione e forza: qualità che nel mondo è uno dei sinonimi di Italia, e trova riconoscimento nella forza del Made in Italy.

“Nelle 10 verità”, sottolinea Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola e promotore del dossier sulla competitività italiana realizzato in collaborazione con Unioncamere e Fondazione Edison per Coldiretti, “c’è ben più che una replica a tanti falsi luoghi comuni. C’è un’idea di futuro per la nostra agricoltura che vale per tutta la nostra economia. La nostra agricoltura è infatti un settore che è cresciuto nel segno della qualità, che da un contributo importante all’attrattività del Made in Italy nel mondo e che continua a svilupparsi scegliendo la via dell’eccellenza. Una ricetta valida per tutto il Paese. Una scelta strategica che va salvaguardata anche negli accordi internazionali e che, ad esempio, deve essere la bussola anche del Ttip. L’Italia che può battere la crisi è infatti il Paese che asseconda la propria vocazione a produrre bellezza e qualità, che riconosce i propri talenti e li accompagna con l’innovazione, la conoscenza e le nuove tecnologie. Non è affatto una sfida facile né scontata: per farcela, l’Italia deve fare l’Italia”. 

I dieci primati italiani nel settore agroalimentare:

  1. L’Italia è tra i paesi che, nella globalizzazione, hanno conservato maggiori quote di mercato mondiale. Mantenendo, dopo l’irruzione della Cina e degli altri Brics, il 72,6% delle quote di export rispetto al 1999. Performance migliore di quelle di Usa (70,2%), Francia (59,8%), Giappone (57,3%), Regno Unito (53,4%) (elaborazione su dati Wto);
  2. Il modello produttivo italiano è tra i più innovativi in campo ambientale. Per ogni milione di euro prodotto dalla nostra economia, emettiamo in atmosfera 104 tonnellate di CO2, la Spagna 110, il Regno Unito 130, la Germania 143. Siamo più efficienti anche nel campo dei rifiuti: con 41 tonnellate ogni milione di euro prodotto, distanziamo di parecchio anche la Germania (65 t). Non solo, siamo campioni europei nell’industria del riciclo: a fronte di un avvio a recupero industriale di 163 milioni di tonnellate di rifiuti su scala europea, nel nostro Paese, ne sono state recuperate 24,1 milioni di tonnellate, il valore assoluto più elevato tra tutti i paesi europei (in Germania ne sono state recuperate 22,4 milioni). Nulla da stupirsi dunque, se il sistema produttivo italiano è anche quello che guida la riconversione verde dell’occupazione europea: secondo l’Eurobarometro della Commissione UE, entro la fine del 2014 il 51% delle PMI italiane avrà almeno un green job, una quota superiore a quella media europea (39%) e ben al di sopra di quella del Regno Unito (37%), della Francia (32%) e della Germania (29%); (fonte: dati GreenItaly 2013);
  3. L’Italia è, nell’eurozona, la meta preferita dei turisti extraeuropei. Siamo il primo paese per pernottamenti di turisti extra Ue, con 56 milioni di notti. Siamo la meta preferita di paesi come la Cina, il Brasile, il Giappone, l’Australia, gli Usa e il Canada (dati Eurostat elaborati da Coldiretti con la Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison con);
  4. Considerando il debito aggregato (stato, famiglie, imprese) l’Italia è uno dei paesi meno indebitati al mondo. Se invece del pesante debito pubblico guardiamo la situazione debitoria complessiva del Paese, l’Italia è più virtuosa (col 261% del PIL) di Stati Uniti (264%), Regno Unito (284%), Spagna (305%), Giappone (412%). (Elaborazione su dati Banca d’Italia);
  5. L’Italia vanta 120 prodotti agroalimentari in cui è leader mondiale per qualità. In 120 prodotti, sui 704 in cui viene disaggregato il commercio agroalimentare mondiale, l’Italia si piazza prima, seconda o terza al mondo per valore medio unitario nell’export (elaborazione su dati Istat, Eurostat e Un Comtrade 2013);
  6. I prodotti agroalimentari italiani dominano sui mercati mondiali. Tra i prodotti dell’agroalimentare italiano ben 23 non hanno rivali sui mercati internazionali e vantano le maggiori quote di mercato mondiale. E ce ne sono altri 54 per i quali siamo secondi o terzi. Nonostante la contraffazione e la concorrenza sleale dell’Italian sounding, siamo sul podio nel commercio mondiale per ben 77 prodotti (elaborazione su dati Istat, Eurostat e Un Comtrade 2013);
  7. Il modello produttivo dell’agricoltura italiana è campione nella produzione di valore aggiunto. Il valore aggiunto per ettaro realizzato dal settore è più del doppio della media UE-27, il triplo del Regno Unito, il doppio di Spagna e Germania, e il 70% in più dei cugini francesi. Non solo: siamo i primi anche in termini di occupazione, con 7,3 addetti per ettaro a fronte di una media Ue di 6,6 (elaborazione su dati Commissione Europea);
  8. L’agricoltura italiana è tra le più sostenibili. Con 814 tonnellate per ogni milione di euro prodotto dal settore, non solo l’agricoltura italiana emette il 35% di gas serra in meno della media Ue, ma fa decisamente meglio di Spagna (il 12% in meno), Francia (35%), Germania (39%) e Regno Unito (il 58% di gas serra in meno) (elaborazione su dati Eurostat realizzata da Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison con Coldiretti) ;
  9. L’Italia è al vertice della sicurezza alimentare mondiale. Siamo il paese con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici (0,2%, un terzo in meno rispetto all’anno prima), quota inferiore di quasi 10 volte rispetto alla media europea (1,9%, aumentati di circa un terzo rispetto all’anno prima) e di oltre 30 volte quella dei prodotti extracomunitari (6,3%) (elaborazione su dati Efsa 2014);
  10. L’Italia è il primo paese europeo per numero di agricoltori biologici. Con 43.852 imprese biologiche (il 17% di quelli europei) siamo i campioni europei del settore, seguiti dalla Spagna (30.462 imprese, 12% dell’Ue) e Polonia (25.944, 10% di quello europeo) (elaborazione su dati Fibl-Ifoam).
Condividi:
1

Agroalimentare: Su 100 euro di spesa solo 3 euro finiscono nelle tasche degli agricoltori

agroalimentare italiano

L’agroalimentare è un asset strategico del Paese. Il processo di produzione e distribuzione di prodotti agroalimentari coinvolge una rilevante porzione dell’economia italiana, rappresentandone il 13,2% degli occupati (3,3 milioni di lavoratori) e l’8,7% del PIL (119 miliardi di euro). La centralità delle imprese che operano nella filiera è immediatamente percepibile anche in virtù dei 76 miliardi di euro di retribuzioni annualmente sostenute, dei 23 miliardi di euro di investimenti e di un contributo erariale che, al netto dei contributi ricevuti dalle imprese, supera i 20 miliardi di euro.

Tante e fortemente integrate sono le imprese che operano nei diversi anelli della filiera: aziende agricole, imprese di trasformazione alimentare, grossisti, grandi superfici distributive, piccoli negozi al dettaglio, operatori della ristorazione. A tali soggetti si affianca poi un importante indotto di imprese esterne alla filiera che ad essa offrono servizi essenziali come trasporto, packaging, logistica, energia, mezzi tecnici e beni strumentali per l’agricoltura e l’industria alimentare, servizi di comunicazione e promozione.

Considerando anche l’indotto generato, l’agroalimentare arriva a rappresentare il 13,9% del PIL italiano, un peso tra l’altro in tendenziale crescita dal 2008 in poi (in corrispondenza degli anni di crisi economica). Questi numeri chiariscono la rilevanza socio-economica dell’agroalimentare. Tuttavia, la sostenibilità di tale valenza è messa a rischio da ritardi strutturali, legati sia al tessuto imprenditoriale che alle inefficienze del “Sistema Paese”, che limitano la competitività della filiera e ne frenano l’ulteriore sviluppo, nonostante un ampio potenziale ancora inespresso.

Tra le criticità del tessuto produttivo c’è anzitutto la ridotta dimensione delle imprese, cui si affianca un grado di concentrazione della fase distributiva non ancora allineato a quanto avviene nei principali paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito). Ciò contribuisce a mantenere elevato il numero di passaggi nella filiera e a ridurre la possibilità di raggiungere economie di scala utili alla riduzione dei costi di produzione.

Allo stesso tempo, diversamente da quanto percepito nell’immaginario collettivo, buona parte del made in Italy alimentare richiede l’approvvigionamento di importanti produzioni agricole di base (come cereali, soia, carni bovine e suine, latte) dall’estero; fattore questo che sposta una parte rilevante del valore delle vendite alimentari al di fuori dei confini nazionali. A queste peculiarità, si aggiungono gli effetti che derivano dai deficit infrastrutturali e dagli elevati costi “di sistema”; a titolo esemplificativo, le imprese italiane, tra cui quelle dell’agroalimentare, sostengono:

  • un costo del trasporto su gomma delle merci (1,59 €/km) superiore del 32% rispetto alle imprese spagnole (1,21 €/km), del 20% rispetto a quelle francesi (1,32 €/km) e del 18% rispetto a quelle tedesche (1,35 €/km);
  • un costo dell’energia elettrica (0,22 €/kWh) superiore del 70% alla media comunitaria (0,13 €/kWh).
  • addetti ed occupati nelle imprese della filiera (agricole, industriali, distributive, commerciali e della ristorazione), per un valore di 35 euro;
  • imprese di altri settori che con la filiera agroalimentare intrattengono relazioni commerciali (imprese di trasporto, logistica, di fornitura energetica, di packaging, ecc.), per un valore di 34 euro;
  • imprese della filiera agroalimentare tramite il rinnovo del proprio capitale aziendale (ammortamenti), per un valore di 11 euro;
  • Stato, a titolo di imposte dirette (IRES e IRAP) e indirette (IVA) incassate, per un valore di 9 euro;
  • sistema finanziario, tramite le rendite incassate sui capitali erogati in prestito, per un valore di 5 euro;
  • imprese estere, per le esportazioni nette (al netto delle importazioni) verso l’Italia, per un valore di 3 euro;
  • imprenditori, tramite gli utili conseguiti, per un valore di 3 euro.

Queste criticità strutturali, di filiera e di sistema, provocano un aggravio di costi che si ripercuote sia sulla competitività delle imprese che sulla formazione dei prezzi alimentari al consumo.

Con riguardo al primo aspetto, basti pensare all’enorme potenziale non ancora sfruttato sul fronte dell’accesso ai mercati esteri. Nonostante i buoni risultati degli ultimi anni, le esportazioni alimentari italiane sono meno della metà di quelle tedesche (rispettivamente 27 e 57 miliardi di euro). Allo stesso tempo, la propensione all’export dell’Italia in questo settore è decisamente inferiore a quella di tutti i principali competitor europei (21% per l’Italia, 23% per la Spagna, 25% per la Francia e 31% per la Germania).

Le difficoltà dell’agroalimentare nazionale nello sfruttare appieno l’indiscussa immagine e riconoscibilità del food made in Italy nel mondo (asset su cui la gran parte dei concorrenti europei non può contare) scaturiscono dalle criticità strutturali di filiera e di “sistema Paese” che, impattando sui costi di produzione e conseguentemente sul livello dei prezzi, limitano la competitività delle imprese italiane. D’altronde, le stesse motivazioni aiutano a spiegare perché la gran parte del valore della spesa alimentare degli italiani serva a sostenere i costi di produzione, mentre una parte davvero marginale si riferisce agli utili delle imprese che, a vario titolo, operano all’interno della filiera.

Nel quadriennio 2008-2011, gli italiani hanno speso mediamente ogni anno 216 miliardi di euro per alimenti e bevande (comprendendo sia i consumi domestici che i cosiddetti consumi “fuori casa”). Di tale valore, solo poco più di 7 miliardi sono stati trattenuti, a titolo di utili, dalle imprese che operano nelle diverse fasi della filiera (figura 1).

La produzione e distribuzione di prodotti agroalimentari richiede una serie di processi che contribuiscono alla formazione dei prezzi al consumo. Una prima importante porzione del valore della spesa alimentare – 73,5 miliardi di euro – è funzionale a sostenere l’acquisto, da parte delle imprese della filiera, di beni e servizi da aziende appartenenti ad altri settori economici: ci si riferisce ad esempio ai servizi di trasporto e logistica, promozionali o ancora all’acquisizione di mezzi tecnici o beni funzionali al packaging dei prodotti agroalimentari.

È poi da considerare come il reperimento dei capitali di debito (spesso di origine bancaria) necessari all’attività delle imprese della filiera abbia un costo di circa 10 miliardi di euro. A tale somma vanno poi aggiunti ben 7 miliardi di euro destinati ad imprese estere per ripagare le importazioni nette (saldo negativo della bilancia commerciale) di prodotti agroalimentari. A contribuire alla formazione dei prezzi alimentari sono anche i costi relativi agli investimenti realizzati dalle imprese agroalimentari (ammortamenti) e le imposte pagate da queste ultime all’Erario; queste due voci assorbono rispettivamente 22,5 e 20 miliardi di euro.

Quasi 76 dei 216 miliardi di euro sostenuti dalle famiglie italiane per consumi alimentari servono poi a ripagare il costo delle retribuzioni degli occupati nei vari anelli della filiera.

Figura 1 – Distribuzione dei consumi alimentari (in mrd €): media 2008-2011

Grafico1
Fonte: Nomisma

In sintesi, ciò che è più interessante notare è che solo una parte minoritaria del valore dei consumi alimentari ha come beneficiari finali imprese e addetti della filiera agroalimentare: dei complessivi 216 miliardi di euro annualmente spesi, meno della metà e precisamente 83 miliardi di euro remunerano imprenditori (7 miliardi di euro di utili) e lavoratori (76 miliardi di euro di retribuzioni), a cui si aggiungono altri 23 miliardi di euro che servono a finanziare il rinnovo del capitale aziendale (ammortamenti) delle imprese operanti nella filiera.

La maggior parte del valore della spesa alimentare (51%) è destinata invece ad attori esterni alla filiera: imprese di altri settori economici (73,5 miliardi di euro), Stato (20 miliardi di euro), sistema finanziario (10 miliardi di euro) e imprese estere (7 miliardi di euro).

Rapportando la distribuzione dei consumi alimentari su ogni 100 euro di spesa, la residualità degli utili diviene ancora più chiara (figura 2). Più in dettaglio, destinatari e beneficiari finali di tale somma sono, nell’ordine:

Figura 2 – Distribuzione per ogni 100 € di spesa alimentare: dinamica
Grafico2
Fonte: Nomisma

Riassumendo, del prezzo pagato dai consumatori italiani per beni alimentari ben il 97% serve a ripagare i costi di produzione, mentre la somma di tutti gli utili conseguiti dalle imprese dei diversi anelli della filiera raggiunge appena il 3%. Se tale quota si è mantenuta piuttosto stabile nel corso degli anni, ciò che invece è emerso è stato il progressivo spostamento di valore al di fuori della filiera.

Se agli inizi del decennio scorso il costo dei beni e servizi realizzati da imprese di altri settori economici assorbiva il 22% della spesa alimentare, tale quota è salita al 29% nel triennio 2004-2006 e al 34% nel quadriennio 2008-2011. Tale progressione è in buona imputabile alla crescita dei costi per utenze, energia, trasporto e logistica, vale a dire costi direttamente o indirettamente riconducibili a gap infrastrutturali del sistema Paese.

Specularmente, sul totale della spesa alimentare delle famiglie perde peso la quota di valore che resta all’interno della filiera, e in particolare quella funzionale a remunerare i lavoratori, passata dal 38% nel periodo 2004-2006 al 35% nel quadriennio 2008-2011.

In questo quadro, l’acceso dibattito che spesso domina l’attenzione mediatica su “chi” e “quanto” guadagna all’interno della filiera agroalimentare non sembra trovare grande fondamento. Al di là della diversa capacità di creare utile nelle varie fasi della filiera, il dato di fatto più significativo è la marginale importanza di utili e di presunte “azioni speculative” nella formazione dei prezzi finali.

Questo perché il livello e l’andamento dei prezzi al consumo sono quasi interamente legati a quanto avviene sul fronte dei costi di produzione. È quindi la riduzione dei costi il tema su cui concentrare l’attenzione, per creare nuovi spazi di reddito senza procurare un aggravio sul prezzo pagato dai consumatori. Tutto ciò è possibile, a patto però di mettere finalmente mano in maniera risoluta ai deficit strutturali che ancora oggi contraddistinguono imprese e “sistema Paese”.

(Fonte nomisma)

Condividi:
0

Ritorno al passato: Conserve fai da te per 9 milioni di italiani

barattoli-conserva-pomodoro

Nel 2013 si assiste al ritorno degli italiani all’autoproduzione di alcuni cibi secondo una tradizione che sembrava destinata a perdersi ed è invece tornata di grande attualità di fronte ai ripetuti scandali alimentari e all’esigenza di ottimizzare i bilanci familiari. Una maggiore attenzione rispetto al passato viene riservata alla scelta delle materie prima che spesso vengono acquistate direttamente dai produttori agricoli in azienda, nelle botteghe o nei mercati di Campagna Amica.

Da una indagine Coldiretti/Swg risultano essere 9 milioni gli italiani che quest’anno al rientro dalle vacanze si mettono al lavoro tra pentole e vasetti nella preparazione di conserve fatte in casa per garantirsi una alimentazione più genuina e naturale, ridurre gli sprechi e risparmiare nel tempo della crisi. E proprio con l’obiettivo di valorizzare il Made in Italy dal campo al vasetto è nata la collaborazione tra l’azienda Rocco Bormioli accreditata da Campagna Amica e Fai (Firmato dagli Agricoltori Italiani) per sensibilizzare i cittadini verso uno stile di vita più sano ed attento alla salute, all’ambiente e alle tasche.

L’attività di trasformatori “fai da te”, continua la Coldiretti, comporta l’osservanza di precise regole in quanto la sicurezza degli alimenti conservati parte dalla qualità e sanità dei prodotti utilizzati, ma non può prescindere da precise norme di lavorazione che valgono per il settore agroindustriale, ma che devono valere anche per i consumatori casalinghi, soprattutto nella fase della sterilizzazione. La scarsa attenzione per le norme igienico sanitarie è molto pericolosa e può portare in casi estremi anche alla morte.

La grande differenza ed il vantaggio, la Coldiretti, è che nelle conserve casalinghe si utilizzano frutta e ortaggi di stagione provenienti dall’Italia che ha conquistato il primato in Europa e nel mondo della sicurezza alimentare con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite (0,4 per cento) che sono risultati peraltro inferiori di quasi quattro volte a quelli della media europea (1,5 per cento di irregolarità) e addirittura di circa 20 volte a quelli extracomunitari (7,9 per cento di irregolarità). Nei prodotti industriali invece non è obbligatorio indicare in etichetta la provenienza della materie prima agricola ed è facile mettere inconsapevolmente nel carrello della spesa marmellate con frutta proveniente dall’Europa dell’est, sott’oli africani o concentrato di pomodoro cinese.

Quindi tutti a preparare confetture fatte in casa, conserve di pomodori, succhi di frutta sciroppati, ortaggi sott’oli e sott’aceti, come facevano i nostri nonni. Una opportunità che consente di utilizzare frutta e verdura molto matura che, proprio per tale motivo  si può acquistare a cassette a prezzi convenienti, contribuendo ad evitare sprechi che nel tempo della crisi due italiani su tre (65 per cento) si sono impegnati a ridurre o annullare secondo le elaborazioni Coldiretti/Swg.

Condividi: