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Fuori l’acqua dal mercato, fuori i profitti dall’acqua

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“La ricetta del governo Renzi non cambia nulla e mette in calendario una nuova stagione di privatizzazioni, con il mirabolante obiettivo di incassare 15 miliardi l’anno nei prossimi tre anni. L’attenzione, oltre che sulle grandi aziende partecipate dallo Stato, sarà ancora una volta puntata sui servizi pubblici locali. Il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua sottolinea come gli esiti referendari siano di fatto disattesi e addirittura contraddetti. 27 milioni di italiane e italiani hanno votato per la gestione pubblica e partecipativa dell’acqua nel 2011, per dire no alla privatizzazione dei servizi pubblici locali e ad oggi nessun Governo ha tradotto in pratica il voto democratico dei cittadini. E mentre Confindustria annuncia un prossimo progetto di riforma organica dei servizi pubblici locali, i grandi manager finanziari sono pronti a mettersi al lavoro: da Gamberale, amministratore delegato di F2i, che dichiara “Le privatizzazioni degli asset locali possono rispondere anche alla nuova ondata di interesse da parte degli investitori stranieri in Italia”; al presidente di Cassa Depositi e Prestiti, Bassanini, che dichiara: “Attraverso il fondo strategico siamo disponibili a sostenere con equity il processo di consolidamento delle utility locali”. Una convergenza delle elites politico-finanziarie con un unico obiettivo: chiudere i conti con la vittoria referendaria sull’acqua e consegnare i beni comuni e i servizi pubblici locali agli interessi dei gruppi finanziari privati. Se questo è il nuovo che avanza, non c’è molto da aggiungere. Ancora una volta, in tutto il Paese e in ogni territorio, il movimento per l’acqua saprà produrre resistenza sociale a questi tentativi fino alla completa affermazione di quanto deciso dalla maggioranza assoluta del popolo italiano: fuori l’acqua dal mercato, fuori i profitti dall’acqua.” Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

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Prodi il finto buono

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Prodi ha la responsabilità delle disastrose privatizzazioni che hanno impoverito il Paese negli anni Novanta. Calca la scena politica italiana da quasi trent’anni, si propone alla Seconda – e alla Terza – Repubblica, quando è figlio prediletto della degenerazione della Prima.

Il suo cursus honorum è costellato di incarichi prestigiosi assolti mediocremente: pessima la sua prima gestione del carrozzone Iri, disastrosa (seppur breve) la seconda, come inquilino di Palazzo Chigi è stato cacciato dalla stessa parte politica che là lo aveva mandato, da presidente della Commissione Ue si è attirato critiche unanimi della stampa internazionale… Eppure – sarà per quell’aria apparentemente inoffensiva e bonaria, da curato di campagna, che spinge i suoi avversari a sottovalutarlo (Massimo Giannini ha recentemente ironizzato: «I suoi artigli grondano bontà») – è sempre riuscito a risorgere dai propri fallimenti. Meglio: è riuscito spesso a far passare l’idea che venisse “epurato” per la propria ostinazione a difendere gli interessi generali invece che quelli dei soliti noti, proprio lui che ha sempre flirtato coi poteri forti e con le aree politiche legate a questi ultimi. Così, da ogni flop ha preso nuovo slancio, potendo contare sulle amicizie giuste, su un “ombrello” di potentati che l’hanno protetto, essendone lui fedele reggicoda. All’inizio fu la compatta falange della sinistra Dc, che poi risulterà non a caso l’unica componente dell’ex Balena Bianca a salvare le penne nella bufera giudiziaria di Tangentopoli. Poi, subito dopo, certi poteri italiani legati agli ambienti cattolici (Nanni Bazoli) e laici (Carlo De Benedetti ma anche Gianni Agnelli) del centrosinistra, con i conseguenti addentellati nel mondo dei mass media. Infine, l’ombra lunga di Goldman Sachs. È, questo, un capitolo piuttosto oscuro della nostra storia. Attraverso le privatizzazioni furono smantellati settori trainanti dell’economia italiana: quello agro-alimentare già dell’Iri (acquisito da gruppi inglesi, olandesi ed americani), il Nuovo Pignone dell’Eni, la siderurgia di Stato, l’Italtel, l’Imi.

Sono state inoltre privatizzate Telecom e in parte anche Enel ed Eni, già enti di Stato che potrebbero presto finire nelle mani delle solite multinazionali estere. Prodi, iniziatore e protagonista di questo processo, prima come presidente dell’Iri, specie durante il suo secondo mandato (1993-94), poi come presidente del Consiglio (1996-99). Ovviamente, appoggiato da forti gruppi di potere: Bilderberg, Rothschild, Goldman Sachs… Prendiamo allora quest’ultimo, una cosiddetta merchant bank (banca d’affari) già presente al famoso summit del Britannia, dove si decise lo smantellamento dello Stato-imprenditore italiano; ha poi ricoperto un ruolo essenziale nel processo di privatizzazione delle partecipazioni statali, favorendo l’intervento delle grandi multinazionali e di importanti uomini di potere nostrani, come Mario Draghi, ex vicepresidente Goldman per l’Europa, e poi proprio il Romano Prodi, a più riprese consulente di livello della banca e per questo assai ben remunerato (3,1 miliardi di lire di compensi, come scrissero il Daily Telegraph e l’Economist).

Draghi, oltre che direttore generale del Tesoro tra il ’96 e il 2003, presiedette nel ’93 il Comitato per le privatizzazioni; nello stesso periodo Goldman Sachs, tramite il fondo Whitehall, acquisì nel 2000 l’ingente patrimonio immobiliare dell’Eni di San Donato Milanese, oltre agli immobili della Fondazione Carialo e, assieme alla Morgan Stanley, quelli della Unim, Ras e Toro. Prodi era presidente dell’Iri quando decise la privatizzazione della Credito Italiano proprio tramite la Goldman Sachs, che fissò il valore delle azioni a 2.075 lire, meno di quello di Borsa (che era a quota 2.230). Ma dobbiamo all’attuale premier anche la perdita di molti dei marchi storici del nostro comparto agroalimentare, ovviamente finiti (male) in mano straniera. Prodi concluse la cessione dell’Italgel (900 miliardi di fatturato) alla Nestlé per 703, così come l’assai discussa vendita della Cirio-Bertolli-De Rica (fatturato 110 miliardi, valutata 1.350), ad una fantomatica finanziaria lucana (Fisvi) al prezzo di 310 miliardi, che ne garantì il pagamento con la futura alienazione di parte del gruppo stesso alla multinazionale Unilever.

Ma proseguiamo: quello della Sme a De Benedetti non è l’unica cessione sballata che Prodi avrebbe voluto effettuare, a prezzi poi rivelatisi impropri. Pensiamo alla Stet, ricca e potente finanziaria delle telecomunicazioni, che controllava Sip, ma anche Italtel e Sirti: nell’ottobre 1988 Iri vendette a Stet il 26% del pacchetto azionario Italtel per 440 miliardi, quando in base a un piano elaborato due anni prima da Prodi e Fiat ne avrebbe ricavati solo 210. O ancora, alla vicenda del Banco di Santo Spirito, acquistata dalla Cassa di risparmio di Roma diretta dal demitiano Pellegrino Capaldo: il progetto iniziale – appoggiato dall’attuale premier – prevedeva introiti per l’Iri tra i 350 e i 500 miliardi, mentre quello finale, profondamente trasformato, toccò quota 794 miliardi. Abbiamo già accennato alle cifre improprie della privatizzazione Credit, durante il “Prodi II” all’Iri.

E forse varrebbe anche la pena di rievocare altre storiacce, come quella della sciagurata gestione del buco Finsider o dei fondi neri Italstat. Riguardo alla vendita Alfa Romeo alla Fiat, Prodi, allora presidente Iri cui apparteneva il marchio del Biscione attraverso Finmeccanica, in tempi recenti ha sostenuto: «Volevo vendere l’Alfa alla Ford, fecero di tutto per impedirmelo e ci riuscirono». È stato subito smentito da Fabiano Fabiani, ex ad di Finmeccanica e all’epoca dei fatti a capo della delegazione che trattava per conto dell’azionista pubblico la cessione della casa automobilistica di Arese: «Non ho percepito un’opposizione di Prodi all’acquisizione dell’Alfa Romeo da parte della Fiat». Le cose andarono così. L’Alfa perdeva centinaia di miliardi l’anno eppure la Ford, probabilmente ritenendo che si potesse usare un nome di grande tradizione e una casa con clienti affezionatissimi per sbarcare in Europa, avanzò un’offerta assai generosa: ben 3.300 miliardi (secondo alcune fonti 4.000) per acquisire gradualmente il pieno controllo entro otto anni, piano di investimento di 4.000 miliardi per il quadriennio successivo all’acquisto, ottime garanzie per coloro che risultavano impiegati nel carrozzone. L’offerta venne formalizzata il 30 settembre del 1986 e restava valida fino al 7 novembre dello stesso anno. Tutti d’accordo? Non proprio. Prodi informò subito Cesare Romiti: nulla di male, poteva essere un tentativo per ottenere un rilancio Fiat, che puntualmente arrivò il 24 ottobre. Ma era assai deludente: prevedeva un prezzo di acquisto di 1.050 miliardi, in cinque rate senza interessi, prima rata nel 1993 (alla fine Fiat sborsò in realtà tra i 300 e i 400 miliardi), poi 4.000 miliardi di investimenti entro il 1995 e molti posti di lavoro da tagliare per recuperare competitività. Bene : il 6 novembre l’Iri di Prodi cedette l’Alfa alla famiglia Agnelli, quella che dieci anni più tardi, con Mortadella al governo, sarebbe stata tenuta artificialmente a galla con gli ecoincentivi per l’auto.

Lorenzo E. 

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Un palloncino gonfiato prima o poi scoppia

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La parola crisi deriva dal greco e significava, in origine: scelta, giudizio, interpretazione, decisione, risoluzione, esito. In sostanza, la crisi è un punto di svolta in cui talune decisioni andrebbero prese sulla base di interpretazioni e valutazioni appropriate della realtà, in vista di esiti voluti.

Successivamente, nel linguaggio giornalistico-popolare, la parola crisi è venuta a significare un periodo di difficoltà e si è tralasciato sia l’aspetto della interpretazione-comprensione che quello della decisione-risoluzione. O meglio, si è diffusa la convinzione che, mentre le persone comuni vivono/subiscono la crisi, l’interpretazione della stessa è compito di intellettuali e opinionisti, mentre la risoluzione deve essere affidata a politici, economisti e alti burocrati. 

Stando così le cose, non c’è da sorprendersi del fatto che nella interpretazione e nella risoluzione della crisi da parte di questi personaggi l’obiettivo dominante sia la preservazione degli interessi che tali categorie hanno e dei privilegi di cui godono. Più strano e difficile da comprendere e da accettare risulta invece il fatto che, anche taluni di coloro che sono opposti ai privilegi delle categorie dominanti, finiscano poi per dare una interpretazione della crisi che potrebbe risultare in decisioni che prolungano l’esistenza delle categorie dominanti, caso mai allargando soltanto l’area dei privilegiati e dei parassiti.

Purtroppo, non c’è molto di nuovo in tutto ciò. Già in passato, gli avversari del potere si sono associati al potere distruggendo gli aspetti rivoluzionari del loro pensare e agire. Ad esempio:

  • i socialisti hanno distrutto il socialismo comunitario e volontario e si sono associati allo stato pianificatore sorto dopo la prima guerra mondiale;
  • i capitalisti hanno distrutto il capitalismo del libero scambio e della libera impresa e si sono associati definitivamente allo stato protezionista dopo la crisi del ’29.

Adesso potrebbe essere la volta degli esponenti d un’altra corrente di pensiero e di azione, decisamente contraria al potere dello stato (gli anarco-capitalisti), di svolgere la funzione di fornire allo stato una boccata di ossigeno che ne prolungherà, per un po’, l’esistenza.

La crisi sociale ed economica che stiamo vivendo è, in effetti, la crisi dello stato nazional-territoriale sorto dalla prima guerra mondiale e che sta vivendo le sue ultime convulsioni.
A questa crisi reale dello stato si associa però, in molti casi, una crisi mentale di interpretazione e di risoluzione che potrebbe prolungare l’esistenza dello stato, contro le aspettative e contro i desideri di molti. Vediamo allora di soffermarci brevemente sull’interpretazione e su una possibile risoluzione della crisi.

Interpretazione della crisi

Innanzitutto, va rapidamente sgomberato il campo sul fatto che questa sia una crisi del capitalismo industriale e del libero scambio di beni e servizi reali. Infatti, industrie altamente innovative (come la Apple, per citarne una) non sono affatto in crisi e alcune regioni a basso parassitismo statale (ad es. la Svizzera) sono in una florida situazione.

Un’altra idea diffusa, e molto più sensata, fa risalire l’origine della crisi alla bolla edilizia (o, in altre parole ai problemi sorti dal subprime mortgage). Questa, però, mi sembra una interpretazione che si limita a cogliere l’apparenza ma non scende nel profondo della realtà.
E questo profondo è rappresentato dalla finanziarizzazione estrema della vita economica ai nostri tempi. Il prevalere del cosiddetto capitalismo finanziario su capitalismo industriale è un fenomeno vecchio di decenni (si veda: Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario) ma è solo verso la fine del secolo XX che ha raggiunto il suo apogeo, grazie anche alle produzioni a basso costo dell’Estremo Oriente (loro producono) e all‘indebitamento crescente degli stati occidentali (noi stampiamo denaro e consumiamo). Fare debiti e consumare sempre di più, sono le due facce della stessa medaglia, coniata dallo stato e diffusa largamente e legalmente nei paesi cosiddetti affluenti.

Questo modo di essere si è diffuso ed ha raggiunto livelli incredibili attraverso due fasi recenti:

  • la fase dei nuovi “conservatori” (Thatcher, Reagan). Negli anni della Thatcher e di Reagan si è assistito allo sviluppo di quella che è stata chiamata la finanziarizzazione (financialization) della vita economica. Le attività di produzione di beni e i loro produttori ristagnano rispetto alla crescita delle attività e dei profitti nel settore finanziario (Banche, Borsa).
  • la fase dei nuovi “progressisti” (Blair, Clinton). Tony Blair e Bill Clinton proseguono le politiche di “liberalizzazione” del settore finanziario iniziate negli anni precedenti con il risultato di produrre una effervescenza economica apparentemente solida nel breve periodo ma foriera di profondi squilibri nell’immediato futuro.

Se facciamo riferimento all’Inghilterra di Tony Blair e Gordon Brown, le Building Societies che prestavano denaro per l’acquisto di una casa sono potute diventare banche a tutti gli effetti e questa semplice liberalizzazione, attraverso il meccanismo della riserva frazionaria, ha permesso di moltiplicare notevolmente la massa monetaria. Inoltre, sotto il governo laburista, 1 milione di persone sono state inserite nei ranghi dello stato, alcune con salari del tutto considerevoli. Immaginatevi quindi il livello di indebitamento statale crescente e di circolante esistenti, il tutto volto ad alimentare una macchina consumistica colossale che permetteva allo stato, attraverso l’incameramento dei proventi della TVA (la tassa sul valore aggiunto), di continuare a fare debiti e di pagare interessi sul debito alle rendite finanziarie. Questa montagna di soldi affluiva poi anche alle banche ed era logico che esse lo prestassero a coloro che ne facevano richiesta, e soprattutto a quanti volevano comprare casa. A fronte di una notevole massa di acquirenti, i prezzi delle case non potevano che salire e quindi prestare 80 per l’acquisto di una casa che ne costava 100 aveva senso perché quella casa, l’anno successivo, avrebbe raggiunto il prezzo 110 e nel giro di alcuni anni il prezzo 140. Quindi talvolta la banca prestava l’intero ammontare del prezzo attuale di una casa nella prospettiva, estremamente fondata, che, il prezzo a cui la si poteva rivendere in caso di mancato pagamento delle rate, sarebbe stato maggiore.
In sostanza, tutti o quasi stavano costruendo un mondo di carta basato sulla carta straccia delle banconote a corso legale di cui l’ispiratore massimo e il regista supremo era lo stato centrale.

Per questo, quando si parla di bolle speculative, l’unica bolla che vedo è quella dello stato. Tutto il resto sono le bollicine, più o meno grandi, conseguenti all’esistenza dello stato parassita e scialacquatore. Se si esamina la gestione di Gordon Brown (ministro dell’economia) fino al 2008, le spese o gli sprechi di denaro pubblico (a seconda dei punti di vista) sono ammontati, secondo un analista, ad oltre un trilione di sterline (£1,229,100,000,000) (David Craig, Squandering, 2008)
La colpa della crisi, almeno per quanto riguarda l’Inghilterra è quindi da attribuirsi, a mio avviso, unicamente allo stato criminal-finanziario. Per questo, qualsiasi proposta che, consapevolmente o inconsapevolmente, finisca per convogliare verso lo stato ulteriori risorse è un assurdo soprattutto se proviene da persone che vogliono, o quantomeno proclamano di volere, la fine dello stato parassita. Ma questo è quanto potrebbe accadere. Vediamo come.

Risoluzione della crisi

Spiegare in dettaglio, caso per caso, perché è arrivata la crisi è come voler spiegare perché un palloncino gonfiato in continuazione poi alla fine scoppia o perché un castello di carta, quindi senza solide fondamenta, a un certo punto, crolla. Molto più utile invece è concentrarsi su come risolvere la crisi in modo che essa sia una opportunità per prendere decisioni benefiche per molti e non una occasione persa per continuare a salvaguardare gli interessi mafiosi di pochi.

Per fare ciò è importante smetterla di farsi manovrare come burattini dai fili costituiti da talune parole magiche e dai burattinai che le utilizzano per sviare le persone. In particolare, occorre non farsi né ammaliare né respingere da queste due coppie di parole:

a) socializzazioni – privatizzazioni
b) regolamentazioni – liberalizzazioni

Una delle caratteristiche di funzionamento dell’essere umano, per evitare un impiego continuo e logorante di energie preziose, è di rispondere in maniera automatica a determinati stimoli. Talvolta però, questa risposta automatica porta un individuo del tutto fuori strada. Il dramma sorge quando alcuni non si rendono conto di essere andati fuori strada e diventano facile preda di coloro che li porteranno, quasi a loro insaputa, per la loro strada.

Abbiamo già visto in passato che socializzazioni e regolamentazioni volute da socialisti altro non erano che statalizzazioni e imposizioni del gruppo dominante. Adesso, in tempi recenti, abbiamo visto che le privatizzazioni hanno portato sovente all’appropriazione di risorse da parte di mafie legate allo stato (il modello post-Unione Sovietica è in tal senso esemplare) e le liberalizzazioni hanno dato la possibilità ai banksters e a tutto l’apparato finanziario (Goldman Sachs in testa) di fare soldi dal nulla.

In sostanza, è doveroso riconoscere, senza nascondere la testa nella sabbia, che talune privatizzazioni industriali e liberalizzazioni finanziarie degli ultimi decenni, oltre a non liberarci dalla presenza asfissiante dello stato, hanno anche contribuito a porre le premesse per la crisi attuale. Ed è molto probabile che, per salvare nuovamente lo stato, nei prossimi mesi assisteremo, sotto la regia dello stato e di organismi internazionali, a una ripresa delle privatizzazioni camorristiche e delle liberalizzazioni gangsteristiche.
Esaminiamo allora uno scenario possibile e plausibile:

  • Lo stato (in Europa, negli USA) crea una massa monetaria gigantesca (quantitative easing) che finisce nelle tasche delle mafie di stato (fase in corso)
  • Questo denaro permette loro di comprarsi ogni sorta di beni tangibili (terreni, palazzi, isole, ecc) quando ripartirà una nuova fase di privatizzazioni.
  • Questi acquisti avverranno prima che l’inflazione riprenda a galoppare per cui questi beni saranno acquistati a prezzi stracciati.
  • A tutti gli altri toccheranno invece, nel breve-medio periodo, le conseguenze nefaste dell’inflazione e della perdita di potere d’acquisto delle remunerazioni (salari e profitti) derivanti dalla loro attività produttiva.
  • Obiettivo finale del potere: salvataggio dello stato e delle cosche mafiose ad esso associate che usciranno quasi indenni da questa crisi, almeno fino alla prossima crisi.

In altre parole, uno scenario probabile è che, per salvarsi, lo stato si venderà tutto quello che non gli appartiene (le spiagge, gli spazi pubblici, i monumenti, ecc.) e liberalizzerà ancor di più le attività finanziarie (ad esempio, allargherà il numero di coloro che possono emettere moneta a corso legale) e questo con il plauso osannante di tutti i “liberali” guidati dal loro pilota automatico che si accende d’entusiasmo al solo sentire le magiche parole “privatizzazioni” e “liberalizzazioni”, senza porsi alcuna domanda al riguardo. E, per tenere a bada la piazza di sinistra, guidata anch’essa dal pilota automatico che evita loro di porsi domande scomode quando la loro parte è al potere, probabilmente queste misure, in Italia, le attueranno i “socialisti” di stato (alla Giuliano Amato, per intenderci), come le precedenti privatizzazioni e liberalizzazioni le hanno fatte i “socialisti” di stato (alla Massimo d’Alema e Pier Luigi Bersani).

Esistono alternative a questo scenario obbrobrioso di marca liberal-socialista-statalista?
Eccome! Una alternativa, ad esempio, consiste nel capovolgere lo scenario privatizzazioni industriali e liberalizzazioni finanziarie e battersi per:

  • liberalizzazioni industriali : chiunque può produrre qualsiasi bene e fornire qualsiasi servizio in qualsiasi parte del mondo, distribuendolo dove vuole e al prezzo che vuole;
  • privatizzazioni finanziarie : chiunque può emettere una sua moneta o mezzi di pagamento elettronici e le persone decideranno quale vogliono usare e a quali condizioni, cioè a chi vogliono dare credito.

Chiaramente questo farebbe saltare il sistema delle mafie di stato e delle loro consorterie (crony capitalismo e crony socialismo) e condurrebbe alla fine dello stato territoriale monopolistico. E, al tempo stesso, anche il teatrino delle parti, la sceneggiata fasulla tra liberali e socialisti, entrambi operanti, di fatto, sotto il mantello dello stato, non attirerebbe più spettatori o sostenitori gabbati.

Quindi il problema è sempre lo stesso: smetterla di farsi abbindolare dalle parole e dai parolai (i politicanti e gli affaristi imbonitori), analizzare i fatti e prendere decisioni sulla base della dinamica del reale. Forse a quel punto capiremo che molte delle contrapposizioni che ci sembrano insormontabili non sono altro che invenzioni del potere che applica da secoli la strategia che ha sempre funzionato per dominare tutti: divide et impera. E forse, dalle contrapposizioni fasulle (destra-sinistra, pubblico-privato, socializzazioni-privatizzazioni) così care agli intellettuali da strapazzo, saremo capaci di passare alle armonie ritrovate (care a Bastiat) e a quell’ordine spontaneo che, una volta estromesso il potere monopolistico, è nella natura delle cose.

(Gian Piero de Bellis – Sulla crisi reale e mentale “ovvero sulle privatizzazioni camorristiche e le liberalizzazioni gangsteristiche”)

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