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Poveri pensionati italiani, sono i più tassati d’Europa

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L’Italia è il paese più longevo d’Europa, ma è anche quello che tratta peggio i propri pensionati. “Nel 2014 un pensionato medio perderà 1.419 euro di potere d’acquisto rispetto al 2008. Sono oltre 118 euro in meno al mese, sottratti a consumi e ai bilanci delle famiglie, che sempre più spesso sono sostenuti proprio dai pensionati, diventati durante la crisi pilastri del welfare familiare”. Lo dice Marco Venturi, Presidente di Confesercenti. Gli anziani, dopo una vita di contributi, pagano proporzionalmente più tasse di quando lavoravano. La cosa più assurda è che il prelievo fiscale è tanto maggiore quanto più la pensione è bassa. Meno soldi prendi e più paghi di tasse. Una logica di tasse meravigliosa. Le pensioni sotto i 1500 euro, infatti, possono detrarre 131 euro in meno dei lavoratori con lo stesso reddito.

Nel resto d’Europa le cose vanno all’esatto contrario. Sulla stessa pensione da 1500 euro, un nonno italiano paga il doppio rispetto a un suo “collega” spagnolo, il triplo rispetto a un inglese, quadruplo rispetto a quello francese e cento volte di più rispetto a un tedesco. Un pensionato italiano paga circa 4000 euro l’anno di tasse, il 20,7% di quanto riceve dall’Inps, in Germania quello stesso pensionato invece è tassato allo 0,2, pari a 39 euro annui. La stessa cosa è se si considerano pensioni più basse. Chi riceve circa 750 euro, -1,5 volte il trattamento minimo, è tassato al 9,17% dell’assegno previdenziale, mentre i suoi colleghi di Germania, Francia e Spagna e Regno Unito nulla. Ripeto, nulla! In Germania, Francia e Spagna la stessa pensione sarebbe esentasse. Ecco spiegato perché tanti Over 55 decidono di “scappare” all’estero con la pensione.

Conclude Venturi “è ora di dare una svolta definitiva a questa ingiustizia, ripensando il sistema fiscale. Soprattutto si deve tener conto dell’erosione del potere d’acquisto dei pensionati, estendendo anche a loro, come primo passo, il bonus fiscale, in modo tale da ridurre almeno la perdita su base mensile. Essere anziani non può essere considerato un peso sociale: dobbiamo reagire rivendicando rispetto, dignità sociale ed economica per i nostri pensionati”.

L’Italia non è un paese per giovani, non è un paese per anziani, è un paese per chi, allora l’Italia? Verrebbe da dire che l’Italia non è un paese per nessuno.

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Disuguaglianze economiche + ingiustizia sociale = Italia

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La disuguaglianza e l’ingiustizia sociale mettono a dura prova la democrazia. Una società fortemente diseguale, che preclude i meccanismi di promozione sociale al suo interno, che coniuga svantaggio economico con la mancanza di opportunità, che precarizza i diritti degli esclusi, che difende i privilegi e la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, mina la coesione sociale e pregiudica l’identificazione tra pari cittadini. Un legame sociale allentato, che non si aggrega intorno a beni comuni riconosciuti, rischia di incrementare la sfiducia istituzionale, di salvare solo l’apparenza ma in realtà di affossare la sostanza del principio di rappresentatività, di scoraggiare ogni partecipazione e coinvolgimento. Il conflitto sociale, nelle sue diverse espressioni, quando non è finalizzato al cambiamento costruttivo e diventa la mera espressione di rabbie e frustrazioni che sfociano in “guerre tra poveri” che frantumano l’opposizione della società, può essere utilizzato per politiche demagogiche e autoritarie, che ledono e riducono i diritti di tutti, e distorcono i delicati equilibri della compensazione tra i poteri, fondamentali per la tenuta delle garanzie a cui è preposto uno stato democratico. Là dove la redistribuzione più equa della ricchezza, nelle sue diverse modalità dirette e indirette, è invece un’attenzione costante da parte delle Amministrazioni dello Stato, la coesione sociale risulta più alta, i cittadini si sentono destinatari della preoccupazione e della solidarietà sociale organizzata, percepiscono maggiore dignità personale e si sentono titolari di diritti che vengono rispettati. Il maggiore senso dello Stato che ne deriva, il più diffuso rispetto della legalità, sono il risultato del sentimento di appartenenza a una comunità , di cui si percepiscono, pur nelle loro vicissitudini e sfortune, parte integrante e attiva. L’Italia, per quanto riguarda le disuguaglianze economiche e sociali, si colloca agli ultimi posti tra gli stati appartenenti all’Unione europea ed è scavalcata in termini di maggiore giustizia sociale da molti paesi degli altri continenti. La crisi economica, come si evidenzia dalle statistiche, amplia le sperequazioni e incide ancora più pesantemente sulle disuguaglianze. Una delle principali cause dell’attuale recessione, iniziata nel 2008 è la caduta del reddito disponibile, che ha determinato una profonda contrazione dei consumi delle famiglie. Nel 2012, infatti, in presenza di una flessione del prodotto interno lordo reale del 2,4 per cento, il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito del 4,8 per cento. Si tratta di una caduta di intensità eccezionale e che giunge dopo un quadriennio caratterizzato da un continuo declino (nel 2011 il reddito reale era inferiore di circa il 5 per cento rispetto a quello del 2007, ultimo anno in cui aveva presentato una dinamica positiva). Le famiglie operaie passano (tra il 2006 e il 2010) da 14.485 a 13.249 euro, con la perdita dell’8,5 per cento, mentre gli impiegati salgono solo dello 0,5 per cento. E, intanto, ci si indebita sempre di più: nei soli primi nove mesi del 2012 le famiglie indebitate sono passate dal 2,3 al 6,5 per cento. Il 60,6 per cento afferma di essere costretta a metter mano ai risparmi per arrivare a fine mese, il 62,8 per cento ha grandi difficoltà ad arrivarci e quasi l’80 per cento non mette da parte neanche un euro. Nel 2012 la propensione al risparmio delle famiglie italiane si e’ attestata su livelli sensibilmente inferiori rispetto alle famiglie tedesche e francesi, avvicinandosi a quella del Regno Unito, tradizionalmente la più bassa d’Europa. Lo scorso anno la propensione è scesa all’8,2%, ovvero 0,5 punti percentuali in meno del 2011 e 4 punti percentuali in meno rispetto al 2008. Un paese più povero è costretto a fare i conti innanzitutto con il proprio carrello della spesa. Sei famiglie su dieci per far fronte alle difficoltà economiche hanno ridotto la quantità e/o la qualità dei prodotti alimentari acquistati. Tale comportamento è divenuto particolarmente frequente nel 2012 e coinvolge ormai il 62,3 per cento delle famiglie, con un aumento di quasi nove punti percentuali nell’arco di soli dodici mesi. La punta massima del fenomeno si è verificata nel Mezzogiorno (al 73 per cento), ma in termini incrementali si sono avute variazioni anche più ampie al Nord, dove il salto è stato di quasi 10 punti percentuali. Aumenta, inoltre, di circa due punti percentuali la quota di famiglie che acquistano generi alimentari presso gli hard discount, soprattutto nel Nord. Bisogna invece cogliere nella crisi economica un’opportunità per invertire la rotta, per diminuire il divario tra ricchi e poveri e restituire dignità alle fatiche di molte, troppe persone che rimangono schiacciate da meccanismi economici perversi e dall’indifferenza di coloro che ne sono esentati e riescono a starne fuori. Solo in questo modo, facendo della recessione un’occasione di redistribuzione più equa della ricchezza nel nostro paese, non solo è possibile rilanciare lo stesso sviluppo come sostengono molti analisti economici, ma si mobilitano risorse morali oggi affievolite, rilanciando attenzione e solidarietà, ricostruendo un senso e una percezione del “noi” indispensabile per ricreare le condizioni di una nuova coesione sociale. La cronaca, in particolare di questi ultimi tre anni di crisi economica, ha registrato i numerosi suicidi di imprenditori che si sono sentiti assaliti e attanagliati da un gravoso e schiacciante senso di responsabilità verso le proprie maestranze sul lastrico, dei tanti artigiani e disoccupati non più in grado di mantenere le loro famiglie. Secondo ultimo rapporto sui Diritti globali 2013 , sono 121 le persone che tra il 2012 e i primi tre mesi del 2013 si sono tolte la vita per cause direttamente legate al deterioramento delle condizioni economiche personali o aziendali: nel 2012 i suicidi sono stati 89, mentre sono 32 nei primi tre mesi del 2013 il 40% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Stupisce il divario che, proprio per il risalto delle notizie e dei fatti da parte di giornali e mass media, si misura tra la consapevolezza diffusa dell’opinione pubblica e l’assenza di iniziative e di adeguate strategie per fronteggiare la drammatica situazione: ritardi non solo di azione ma anche di pensiero nel merito.
*Gruppo Abele

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