“Secondo me, se va avanti così, va a finire che a votare non ci va più nessuno.
No, dico, è una cosa grave. Grave per chi? Per la gente, no. Per i Partiti, nemmeno, tanto rimane tutto uguale. Lo Stato è lì, bello solido. E allora perché è grave? Ma se in America, che sono sempre più avanti di noi, non va a votare quasi nessuno. Che democrazia, eh! Stiamo diventando americani anche in questo.
E pensare che nel dopoguerra si picchiavano per andare a votare. Si picchiavano nelle strade, gran passione, nelle piazze, scontri, comizi, bianchi, neri, repubblicani, monarchici, destra, sinistra, tutti alle urne, anche le donne finalmente. Il suffragio universale.
Adesso, quella domenica lì, quelli di sinistra vanno a Riccione, quelli di destra vanno in Sardegna… il naufragio universale.
Ma perché fate le elezioni d’estate, che vince sempre il mare.
Il fatto è che la gente non pensa, o forse non sa, che appena gli arriva il certificato elettorale… DLIN!… scatta il suo contributo di lire quattromila che verrà diviso proporzionalmente tra i Partiti. Ma se uno non va a votare, le quattromila lire le paga lo stesso? Certo. Ma come sarebbe a dire? Uno entra in un supermercato, non compra la mostarda perché gli fa schifo, mica gliela fanno pagare. E se gli fanno schifo i partiti? DLIN! Quattromila.
Certo che se le quattromila lire invece di farcele pagare ce le dessero, avrebbero risolto il problema dell’affluenza alle urne.
D’altronde il voto è un diritto-dovere. Anche questa è bella. Che sia un diritto lo abbiamo capito tutti. Che sia un dovere, ultimamente non l’ha capito nessuno.
Che mestiere strano quello del politico. È l’unico mestiere in cui uno dice: «Io sono il più bravo». E se lo dice da sé. E te lo scrive, e te lo grida, nelle piazze, nei comizi. «Io sono l’uomo giusto al posto giusto». Complimenti. Quello che mi piace dei politici è la faccia come il culo.
Eccoli qua. Verifichiamo gli schieramenti. Ci mettiamo davanti a un tavolo con tutti gli omini e…
D’Alema di qua, Berlusconi di qua, belli lontani… per ora.
Veltroni vicino a D’Alema, Fini vicino a Berlusconi. Quando si dice “vicino”, si fa per dire. Bertinotti a sinistra, più a sinistra, ancora più a sinistra…. Oddio mi è sceso dal tavolo. E adesso come faccio? Prodi… lo mando in Europa. Casini vicino a Berlusconi, più indietro, indietro un casino. Di Pietro da questa parte, anche se andrebbe dall’altra, ma non importa. Maledizione! Cossutta mi sta risalendo sul tavolo. Dini, Dini lo bacio… che diventa un gran figo. Segni… Segni lo butto via. Bossi lo metto su un tavolo a parte, che gioca da solo. La Bonino… la Bonino per ora la tengo qui, in sospeso, poi casomai si fa un referendum. Buttiglione… lo metto di qua e lui salta di là, poi salta di qua, e poi salta di là. Sta’ fermo, Rocco! Che mi rovini il giochino! Macché, saltano tutti, Buttiglione, la Pivetti, Scognamiglio, Masi, anche Mastella è sempre lì che si prepara. Ma sì, ma sì, ma sì, saltate pure. Tanto si sa benissimo che invertendo l’ordine dei fattori il prodotto purtroppo non cambia.
E allora come si fa a tacciare di sterile menefreghismo uno che non vota? Potrebbe essere un rifiuto forte e cosciente di “questa” politica.
No, perché non è mica facile non andare a votare. Soprattutto non è bello farlo così, a cuor leggero, o addirittura farsene un vanto. C’è dentro il disagio di non appartenere più a niente, di essere diventati totalmente impotenti. C’è dentro il dolore di essere diventati così poveri di ideali, senza più uno slancio, un sogno, una proposta, una fede.
È come una specie di resa.
Ma al di là di chi vota e di chi non vota, al di là dell’intervento, al di là del fare o non fare politica, l’importante sarebbe continuare a “essere” politici. Perché in ogni parola, in ogni gesto, in qualsiasi azione normale, in qualsiasi momento della nostra vita, ognuno di noi ha la possibilità di esprimere il suo pensiero di uomo e soprattutto di uomo che vuol vivere con gli uomini.
E questo non è un diritto. È un dovere”. Giorgio Gaber
partiti
La protesta non gradita
Non piacciono alle associazioni di categoria, ai sindacati, alla Confindustria e ai partiti di governo. Non sono sponsorizzati da artisti, intellettuali e giornalisti. La rivolta dei forconi è la ribellione della gente, del popolo senza colore e bandiera. L’unica bandiera è la disperazione.
Di cosa parliamo quando parliamo di forconi. Nessuno lo sa ancora bene, forse neppure loro. Sono in cerca di una forma, di un’identità, di una bandiera o di un cappello.
Qualcosa però sta diventando evidente: non piacciono alla gente che piace. Non sono chic, non sono trendy, non sono cool, non indossano caschi neri e magliette del Che, non sono neppure figli di papà. Non spaccano vetrine. Non reclamano più Stato. Non si preoccupano del capitalismo. Poi, certo, uno di loro lascia Genova in Jaguar. Non è furbo. Non ci fa una bella figura. Era meglio un trattore, ma anche questi sono pregiudizi.
Non vogliono cambiare il mondo, ma si accontentano di sopravvivere. Non occupano e pretendono di non essere occupati: dalla cosa pubblica, dalla burocrazia, dall’Europa. Non parlano in nome di tutti, ma per se stessi. Non chiedono giustizia, ma libertà. Non piacciono alle associazioni di categoria, ai sindacati, alla Confindustria e ai partiti di governo. Purtroppo non hanno letto Ayn Rand. Non baciano i poliziotti per provocarli e senza dubbio non hanno il fascino maudit della ragazza No Tav. Le loro foto non faranno storia. Non ci saranno film, poesie, masturbazioni. Non si vince lo Strega raccontando storie su di loro. Sono da locanda e da taverna, non da Cinque Stelle e non basta un Suv per sdoganarli. Sono facce paesane, di gente con l’accento di provincia, con le «panze» da padroncini dell’autotrasporto, tutta gente da non far entrare in società.
Solo che davanti a loro, per caso o come un saluto discreto, i poliziotti si tolgono il casco. Forse perché in quei volti si riconoscono. C’è qualcosa di familiare, qualcosa dei padri o degli zii, c’è la frustrazione di un mestiere dove impari a ingoiare la saliva in silenzio, c’è che a un certo punto non vuoi più ascoltare quelli che parlano di spread, di debito e di Pil, di Imu e di Tares, di ogni discorso degli economisti sulle medicine amare per superare la crisi. Perché anche i poliziotti «tengono famiglia» e una busta paga con cui non arrivano a fine mese.
Sono buoni o cattivi i forconi? E chi lo sa? Sono al bivio e quando scoppia la protesta c’è sempre qualcuno che grida più forte. C’è chi cerca una rivincita dai verdetti della storia, chi lo fa per professione, chi ci specula e chi scommette sulla confusione, c’è chi paga e chi spera di guadagnarci. C’è chi lancia la locomotiva, chi butta le bombe carta e chi prende schiaffi dai tifosi dell’Ajax. È come la rivolta del pane. Neppure Manzoni conosceva i nomi dei buoni e dei cattivi. Sapeva che Renzo stava lì, nella folla, affamato come gli altri e piuttosto incavolato con le prepotenze dei signori e dei suoi bravi. Niente marxismo, nessuna coscienza di classe, piuttosto una scarsa fiducia nella provvidenza. Lazzari o futuristi? Nessuno sa come finiscono queste cose. A Boston per una tassa del due per cento sul tè spararono in faccia alla madrepatria. E poi crearono un impero. A Parigi la Marseillaise la cantò pure la ghigliottina, con le tricoteuses a godersi sotto il palco il reality show. Washington o Robespierre? Libertari o giacobini?
Probabilmente nessuno dei due. Restano due cose. Le ragioni della rabbia sono sacrosante e sarebbe un errore ignorarle. La rivolta dei forconi spiazza artisti, intellettuali e giornalisti. Quando mai si è visto che contadini, bottegai, pastori, artigiani e autotrasportatori scendono in piazza per reclamare qualcosa di così piccolo borghese come la riduzione delle tasse? Illuminante la risposta dei maestri del pensiero: questi puzzano.
*Vittorio Macioce