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Meno Stato e più città

potenze crisi

Nel 2025 il baricentro economico del pianeta si sarà spostato verso est; secondo una ricerca del McKinsey Global Institute appena pubblicata, tra le prime 25 città del mondo ne troveremo 12 nei paesi emergenti (rispetto alle 4 attuali).

Shanghai occuperà la terza posizione in termini di Pil (rispetto alla 25a attuale) e come percentuale di famiglie con un reddito annuo superiore ai 20.000 dollari (oggi non si colloca nemmeno tra le prime 25). NewYork, Tokyo, Londra e Parigi conserveranno una posizione tra le prime 10, ma Philadelphia, Boston, San Francisco, Toronto, Sidney, Madrid e Milano saranno scomparse dalla top list. Le mega-cities saranno passate da 25 a 60 e in queste città si concentrerà un quarto della ricchezza mondiale; una città oggi sconosciuta ai più come Tianjin produrrà un Pil pari a quello della Svezia. L’urbanizzazione e l’industrializzazione faranno emergere dalla povertà un miliardo di persone e creeranno una classe di consumatori sempre più globale. Ma le geografie emergenti non rappresenteranno solo nuovi mercati di consumo. Sarà in queste aree che nasceranno migliaia di nuove aziende. Oggi tre quarti delle 8.000 aziende con oltre un miliardo di dollari di fatturato sono basate nei paesi sviluppati; nel 2025 saranno quasi raddoppiate (15.000) e la metà avrà sede nei paesi emergenti. In queste dinamiche il ruolo delle città è destinato a essere cruciale. Oggi 20 città ospitano un terzo delle mega-corporations, domani più di 330 agglomerati urbani ospiteranno per la prima volta una grande azienda; la competizione tra città per attrarre queste imprese (o farne crescere di nuove) sarà intensa. Nel mappamondo del 2025 l’Italia e le sue città sembrano destinate – in assenza di una politica economica fortemente innovativa – a una marginalità economica ancor più spinta di quella attuale. La nostra evoluzione demografica è penalizzante la demografia è un driver fondamentale per la crescita economica e il nostro è un paese che invecchia e non innesta forze nuove. La deindustrializzazione italiana non è cronaca di questi giorni, ma un trend che dura da oltre vent’anni ed è destinato a proseguire in mancanza di interventi incisivi. Si aggiunga poi la cronica difficoltà nell’attrarre investimenti a causa dei problemi strutturali (mancanza di infrastrutture adeguate, burocrazia, lentezza della giustizia amministrativa, incertezza regolamentare), la cui auspicata risoluzione con iniziative meritorie alla Destinazione Italia produrrà risultati in tempi medio-lunghi. Un destino di declino inevitabile? Non necessariamente, se sapremo coniugare le opportunità dell’urbanizzazione globale con le specificità e i punti di forza italiani.

Tre considerazioni:

1. L’Italia non ha megalopoli, ma la ricerca McKinsey segnala che 400 città di «medie dimensioni» produrranno nel mondo, da qui al 2025, un PIL aggiuntivo pari a quello degli Stati Uniti. E un certo numero di città italiane appartengono di diritto a questo gruppo; le periferie di alcune di esse manifestano già oggi – nonostante il periodo di crisi – un notevole fermento del mercato immobiliare, stimolato dalle esigenze abitative delle comunità di immigrati. Il trend non sarà di breve durata.

2. Abbiamo un territorio ricco di imprenditorialità, di medie aziende dinamiche e competitive anche sui mercati internazionali, con un ampio indotto locale. In provincia è facile trovare imprenditori che hanno innovato in modo completamente virtuale la gestione degli ordini, del magazzino e della contabilità, rendendo in prospettiva pressoché ininfluente la localizzazione geografica della produzione. Gli oltre 100 distretti industriali sono unici al mondo, non replicabili, e studiati da nazioni avanzate ed emergenti come modello.

3. L’Italia possiede asset naturalistici, architettonici, culturali e della tradizione eno-gastronomica che sono unici e possono essere ulteriormente valorizzati. Anche in questo ambito le iniziative individuali hanno anticipato di gran lunga le politiche di sistema; si pensi, solo a titolo di esempio, a quanti ex professionisti si sono convertiti al ruolo di «gestori dell’accoglienza», avviando bed & breakfast e riuscendo a farsi scoprire sul web dai tanti turisti stranieri desiderosi di venire in Italia.

Occorrerà individuare tre-quattro città (e un numero limitato di distretti) a cui applicare il concetto di «città metropolitana » o di agglomerato economico paragonabile a quello di una città di grandi dimensioni. Per queste aree andrà sviluppato un piano strategico e di investimento su un orizzonte di almeno dieci anni, che preveda infrastrutture adeguate, facilità di accesso, incentivi alla localizzazione, impiego diffuso della tecnologia, criteri gestionali ispirati ai principi delle «smart cities» e condizioni vantaggiose per gli investimenti. In secondo luogo, le istituzioni centrali e locali dovranno sviluppare politiche mirate di sostegno della «provincia» italiana, favorendo la partecipazione dei privati nell’innovazione dei modelli produttivi a rete e valorizzando maggiormente il patrimonio storico, culturale e ambientale del Paese. Infine, le aziende italiane sane e presenti da tempo sui mercati internazionali dovranno valutare quali città ( più che quali paesi) potranno rappresentare in futuro il miglior potenziale per il loro business all’estero. Questo potenziale andrà valutato in una doppia prospettiva: guardando ai milioni di consumatori con potere di spesa in crescita nei prossimi anni, ma anche alle aziende che in quelle città avranno sede; e che potranno vestire, un domani, i panni di clienti, fornitori o concorrenti.

(Fonte mckinsey)

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I Paesi emergenti sono i veri padroni dell’economia

Paesi-emergenti

Nel 2017 le economie che una volta venivano considerate emergenti arriveranno a produrre il 74% del Pil mondiale. In cinque anni, quindi, questi Paesi distribuiranno sul globo il doppio di beni e servizi prodotti dai Paesi industrializzati. Il cambiamento si è ormai imposto e le economie avanzate sono relegate nella retroguardia. Parlare quindi, oggi, di Paesi Emergenti è etimologicamente improprio poichè gli stessi sono già emersi e hanno tassi crescita che i Paesi Avanzati invidiano.

Autore della notizia è il Fondo Monetario Internazionale che indica un dato prevedibile ma al contempo allarmante. Nel 2013, per la prima volta, i paesi “emergenti” produrranno la maggior parte dei beni e dei servizi del mondo. Nel decennio passato la quota di Pil mondiale da essi prodotto ha superato quella dei Paesi industrializzati; ed entro cinque anni sarà il doppio di quella dei paesi industrializzati. Il cambiamento negli equilibri dell’economia globale è così grande che qualunque azienda che concentri le sue attività nelle economie occidentali sta vivendo nel passato.

I dati del rapporto parlano chiaro. Nel 1982-1987, i paesi avanzati o industrializzati producevano il 69 per cento del Pil mondiale, quelli in via di sviluppo o emergenti ne producevano il 31 per cento. Nel 1992-1997, i due gruppi sfioravano la parità, sia pure ancora con un lieve predominio occidentale: 54 per cento del Pil mondiale proveniva dai Paesi avanzati, 46 per cento dai Paesi emergenti. Nel quinquennio 2002-2007 si è verificato il primo sorpasso: solo il 33 per cento del Pil mondiale era prodotto dai Paesi industrializzati, mentre quelli emergenti producevano il 67 per cento. E nel quinquennio in corso, 2012-2017, il gap continuerà a crescere, fino a doppiare l’economia occidentale: 26 per cento del Pil mondiale prodotto dai Paesi avanzati, 74 per cento da quelli emergenti.

Negli anni ’80, afferma l’ex-capo economista della Goldman Sachs, Jim O’Neill, una crescita del Pil cinese del 10 per cento annuo era meno importante per il resto del globo di una crescita dell’1 per cento del Pil Usa. Oggi una crescita dell’8 per cento della Cina è più importante di una crescita del 4 per cento dell’America. E il peso delle “nuove economie” è destinato a continuare ad accentuarsi: entro il 2018 non ci sarà un solo Paese europeo tra i dieci che maggiormente contribuiscono al Pil mondiale. Se nel 1982 gli Stati Uniti contribuivano da soli a quasi il 30 per cento del Pil mondiale, oggi contribuiscono al 12 per cento. E nel 2018 Cina e India, da sole, rappresenteranno quasi la metà del Pil del mondo.

“Ragazzi, quando ero piccolo, i miei genitori mi dicevano: “Tom, finisci quello che hai nel piatto; in Cina e India la gente muore di fame”. A voi io dico: “Ragazze, finite i vostri compiti, perchè in Cina e India la gente è affamata dei vostri posti di lavoro”, Thomas L. Friedman.


Bric. I nuovi padroni dell’economia mondiale. Dieci anni fa, Jim O’Neill ha avanzato un’ipotesi sconcertante: i paesi del G7 – come gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Giappone – avrebbero smesso di essere le superpotenze economiche del pianeta. La globalizzazione avrebbe dato avvio a una nuova era, in cui i paesi emergenti (Brasile, Russia, India e Cina: nazioni popolose, in forte urbanizzazione, ricche di materie prime e piene di ambizione) avrebbero spodestato le più grandi economie occidentali. Così sono nati i BRIC.

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