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Tirreno Power: In 18 mesi di chiusura salvate circa 80-180 persone

Tirreno Power

In diciotto mesi di chiusura della centrale Tirreno Power si sarebbero salvate circa 80-180 persone. A dichiararlo “Medici per l’Ambiente” che si avvale di quattro studi che hanno analizzato in termini di mortalità, morbilità, costi esterni in danni ambientali e sanitari le ricadute delle emissioni.

“Secondo l’inchiesta della Procura savonese e l’ordinanza di sequestro del GIP, nel periodo intercorrente tra il 1.1.2005 ed il 31.12.2010 sono attribuibili alla centrale 586 casi di ricoveri di bambini per patologie respiratorie e asmatiche; 2.097 casi di ricoveri di adulti per malattie respiratorie e cardiache; nel periodo intercorrente tra il 1.1.2000 ed il 31.12.2007 un numero di morti per malattie cardiovascolari e respiratorie pari a 427.

Quindi nei 18 mesi di chiusura centrale presumibilmente si sono evitate 80 morti premature (ad esclusione delle forme tumorali), 146 casi di ricoveri di bambini, 524 ricoveri di adulti. Sempre la Procura, che si è avvalsa dei parametri definiti dall’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) nel rapporto tecnico del 2011, ha calcolato sotto il profilo economico (per gli anni presi in esame dalla consulenza epidemiologica e in relazione ai ricoveri e decessi) 746 milioni di euro di danni sanitari sulla base del modello matematico ed in Euro 894 milioni sulla base del modello a recettore, per cui in media, in 18 mesi si sono evitati costi sanitari e ambientali per circa 152 milioni di euro.

Secondo lo studio dell’Università di Stoccarda/Istituto Somo del 2012 la centrale di Vado (definita la più ‘letale’ in assoluto in Italia) nell’anno 2010 ha provocato 120 morti premature, per cui nei 18 mesi di chiusura si presume che indicativamente si siano evitate 180 morti premature. Mentre secondo lo studio Lancet del 2007 per una centrale con produzione a carbone di 1.000 Gw/h ogni anno si prevedono 24,5 morti premature, 225 casi di malattie gravi,  13.288 casi di malattie minori. Quindi, per una centrale che produce di 4.500 Gw/h come quella di Vado Ligure, in 18 mesi di chiusura si prevede indicativamente che possano essersi evitate 164 morti premature, 1.518 casi di malattie gravi, e 89.694 casi di malattie minori.

Secondo lo studio Externe dell’Unione Europea del 2005 una centrale come quella di Vado Ligure produce 142 milioni di euro di danni complessivi (sanitari, ambientali, per CO2, ecc), per cui nei 18 mesi di chiusura si sono risparmiati 212 milioni di euro di danni, di cui 34,4 milioni di danni sanitari (dato comunque sottostimato, dato che negli anni le metodologie di calcolo di danno ambientale per centrali a carbone sono diventate molto più soffisticate). Ecco quindi i benefici di 18 mesi di spegnimento dei gruppi 3 e 4 a carbone: indicativamente da 80 a 180 persone si sono salvate, e si risparmieranno costi per almeno 140-200 milioni di danni sanitari e ambientali”.

Qualcuno dei soggetti anche istituzionali che in questi mesi hanno sostenuto l’azienda avrebbe preferito tenere in funzione i due gruppi, anche a costo di queste morti premature?  E’ un ‘effetto collaterale’ che i sostenitori del carbone ritengono ‘sostenibile’ per la nostra comunità? Questi dati inconfutabili mettono definitivamente a tacere coloro che sostengono che a Savona la situazione sanitaria è ottimale, e che siamo quindi di fronte a una “crisi misteriosa”. La Magistratura di fronte a questi dati allarmanti è stata costretta a intervenire per evitare la “prosecuzione di un reato”, in una situazione di disastro ambientale e di rarefazione lichenica, e per colpire un “disegno criminoso” che ha comportato danni devastanti per la comunità savonese”.

Medici per l’Ambiente attacca inoltre il segretario generale della CGIL, Giulia Stella che aveva manifestato la necessità di riaprire la centrare e di riavviare la produzione industriale.

“Secondo quattro studi con la centrale chiusa si sono salvate indicativamente da 80 a 180 persone. La CGIL vuole riaprirla lo stesso nonostante questi numeri allarmanti?”, attaccano: “Ecco i benefici di 1 anno e mezzo (11 marzo 2014 – 11 settembre 2015) di spegnimento dei gruppi a carbone (secondo 4 studi): indicativamente da 80 a 180 persone si sarebbero salvate, e si risparmieranno costi almeno per 140-200 milioni di danni sanitari e ambientali. Lei, al pari dei soggetti anche istituzionali che in questi mesi hanno sostenuto l’azienda, avrebbe preferito tenere in funzione i due gruppi, anche a costo di queste morti premature? E’ un ‘effetto collaterale’ che ritenete ‘sostenibile’ per la nostra comunità? Chi come Lei sostiene la riapertura a carbone non può non essere a conoscenza di questi dati, e si assumerà la responsabilità di queste scelte”.

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La Medicina di precisione modellata sul paziente

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Non più un’unica cura per tutti i pazienti con la medesima malattia, ma le cure più adatte per il singolo e a seconda delle caratteristiche genetiche personali. Non è la trama di un film di fantascienza, ma è la nuova visione della medicina, la cosiddetta medicina di precisione che in alcuni casi diventa medicina personalizzata, cucita su misura come un abito.

È un nuovo modo di pensare alla cura e alla prevenzione delle malattie, che prende in considerazione la peculiarità genetica e di stile di vita del singolo individuo“, commenta Carlo Alberto Redi, professore di Zoologia all’Università di Pavia, Accademico dei Lincei e membro del Comitato Etico di Fondazione Veronesi, che in questi mesi sta elaborando un documento proprio sulla Medicina di precisione. Un approccio così promettente che quest’anno il presidente Barack Obama ha stanziato 215 milioni di dollari per la Precision Medicine Initiative: una rete di scienziati al lavoro per rendere rapidamente la Medicina di precisione lo standard clinico. Un progetto simile in Gran Bretagna, il 100,000 Genome Project costerà 300 milioni di dollari.

Proprio a questo tema di frontiera è dedicata anche l’undicesima edizione della conferenza mondiale The Future of Science organizzata da Fondazione Veronesi, Fondazione Tronchetti Provera e Fondazione Giorgio Cini, che avrà luogo dal 17 al 19 settembre 2015 a Venezia: “La Medicina di precisione: come ci cureremo in futuro”.

La rivoluzione della medicina di precisione è iniziata nel 2000 col successo di una delle più grandi imprese scientifiche collettive partita vent’anni prima su intuizione di un grande scienziato italiano, Renato Dulbecco: il sequenziamento del genoma umano. Per la prima volta nella storia, l’umanità ha avuto a disposizione la sequenza esatta di “lettere” (in gergo tecnico “nucleotidi”) che compongono l’intero Dna umano. “Questi ultimi 15 anni di ricerca sui genomi ci hanno rivelato che la stessa malattia in ogni paziente è diversa e anche nello stesso paziente c’è una grande variabilità genetica e cellulare”, continua Il profcssor Redi.

Arriveremo sempre più vicini a una medicina personalizzata, certo, pensata magari non per individui ma per gruppi specifici. Spiega Veronesi: “Già oggi possiamo in molti casi chiudere in un cassetto i protocolli generalizzati a cui eravamo costretti fino a poco tempo fa e scegliere le terapie più adatte per il malato in un determinato momento della sua malattia. Un ragionamento analogo si può fare per la prevenzione delle malattie: a quali rischi è esposta una data persona? E cosa posso fare concretamente per ridurli?”.

La rivoluzione della Medicina di precisione o personalizzata non sta toccando solo le cure, ma anche i metodi di prevenzione e diagnosi: la possibilità di sequenziare i geni o piccoli frammenti di Dna e Rna indicativi di una malattia in fase iniziale potranno fare davvero la differenza nell’esito delle cure.

In certi casi questo approccio è già il presente. Un esempio viene dal tumore al seno: grazie alla biologia molecolare ormai si riescono a identificare le specifiche alterazioni genetiche che sono alla base da quel tumore. “Il processo si chiama “tipizzazione” e permette di scegliere la terapia più efficace: è inutile curare una donna con la terapia ormonale se il suo tumore non possiede i recettori per gli ormoni, mentre una paziente con alti livelli della proteina Her2 avrà maggiori probabilità di guarigione assumendo farmaci “intelligenti” che riconoscono proprio Her2, rispetto alla chemioterapia standard”, spiega il professar Redi.

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L’allevamento intensivo distrugge il pianeta

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Ogni anno 70 miliardi di animali sono uccisi per soddisfare il nostro bisogno di proteine, e circa i due terzi sono allevati in sistemi intensivi. Numeri destinati a crescere. Se ne prevedono 120 miliardi entro il 2050, quando la popolazione mondiale avrà raggiunto i 9 miliardi di individui, un dato, questo, che si sommerà ai regimi alimentari attuali, sempre più ricchi di carne. Il 40% dei cereali coltivati a livello globale e il 97% della soia sono utilizzati per alimentare il bestiame e l’Unep (United Nations Environment Programme) ha calcolato che, continuando su questa strada, i quantitativi di cereali che si prevede saranno destinati al bestiame nel 2050 potrebbero invece sfamare 3,5 miliardi di persone.

  • Ogni anno vengono allevati circa 70 miliardi di animali.
  • Nel mondo, due animali su tre vengono allevati intensivamente. Tenuti sempre al chiuso, in gabbia, stipati o in spazi ristretti. Trattati come macchine da produzione invece che da esseri senzienti quali sono.
  • A livello globale il 70% della carne di pollame, il 50% di quella di maiale, il 40% di quella bovina, il 60% delle uova, vengono prodotti in allevamenti intensivi. In Italia 85% dei polli sono allevati intensivamente, oltre il 95% dei suini vivino in allevamenti intensivi, quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo.
  • L’allevamento intensivo spezza il legame fra la terra e gli animali: toglie gli animali dal pascolo e li ammassa invece in capannoni e recinti fangosi.
  • L’allevamento intensivo è la più grande causa di maltrattamento animale sul pianeta.
  • Gli animali allevati industrialmente vengono in genere nutriti con alimenti commestibili come cereali, soia o pesce che potrebbero nutrire invece gli esseri umani.
  • Su una popolazione mondiale di 7 miliardi di persone, circa 1 miliardo di esse soffre la fame. Si prevede che la popolazione globale crescerà fino a 9 miliardi entro il 2050.
  • Se piantassimo in un campo tutte le coltivazioni utilizzate per alimentare gli animali da allevamento, arriveremmo a coprire l’intera superficie dell’Unione Europea, o la metà degli Stati Uniti.
  • Un terzo della raccolta mondiale di cereali viene utilizzato per alimentare il bestiame industriale; se fosse utilizzato direttamente per il consumo umano sfamerebbe circa 3 miliardi di persone.
  • Quasi tutta la produzione mondiale di soia viene data come mangime agli animali allevati industrialmente sotto forma di farina di soia. Se data invece alle persone, ne nutrirebbe un miliardo.
  • Gli allevamenti industriali non producono cibo, lo sprecano. Per ogni 100 calorie di cereali commestibili utilizzati come mangime per il bestiame, otteniamo solo 30 calorie sotto forma di carne o latte; una perdita del 70%. Il Report sulla Sicurezza Alimentare delle Nazioni Unite riconosce che i “sistemi intensivi..riducono l’equilibrio nella produzione di cibo” a livello mondiale.
  • L’allevamento intensivo fa crescere i prezzi del cibo aumentando la domanda di alimenti di base come i cereali in un periodo in cui la capacità mondiale di approvvigionamento si sta riducendo.
  • Almeno un terzo del pescato complessivo mondiale non raggiunge mai una bocca umana; una larga parte di esso viene destinata ad alimentare pesci allevati, suini e pollame.
  • Nel mondo, circa il 40% di tutto il pesce consumato dalle persone è oramai allevato e non è incluso nel summenzionato dato di 70 miliardi di animali.
  • Servono 2-5 tonnellate di pesce selvaggio per produrre 1 tonnellata di pesci carnivori da allevamento come salmone, trota e halibut.
  • Le Nazioni Unite stimano che nel mondo un terzo del cibo venga sprecato. Questo cibo costituisce il 28% dei terreni agricoli, per un valore di 750 miliardi di dollari, l’equivalente del PIL della Svizzera.
  • La sola Gran Bretagna spreca ogni anno in carne l’ equivalente di 110 milioni di animali allevati, per un valore di 2.4 miliardi di sterline.
  • Globalmente, si spreca ogni anno una quantità di carne corrispondente a 12 miliardi di animali allevati, per un valore di 486 miliardi di dollari. Questo dato include 59 milioni di bovini, 270 milioni di suini e più di 11 miliardi di polli.
  • Ogni anno viene abbattuta un’area di foresta pari alla metà della Gran Bretagna,prevalentemente per coltivare mangime per animali e allevare bestiame.
  • A livello mondiale l’industria del bestiame contribuisce al 14.5% delle emissioni di gas serra prodotte dall’uomo – più di tutte le nostre macchine, gli aerei, i treni messi assieme. Con l’allevamento intensivo come traino, il numero degli animali allevati è destinato a raddoppiare entro il 2050.

Malattie e salute

  • Le malattie originate dagli allevamenti intensivi costituiscono una minaccia quotidiana alla salute pubblica – si è riscontrato che le forme gravi di Salmonella, il batterio che causa intossicazione alimentare, hanno sei volte in più la probabilità di verificarsi negli allevamenti in batteria piuttosto che in allevamenti non in gabbia nel Regno Unito.
  • Due terzi dei polli in vendita in Gran Bretagna sono risultati positivi alla contaminazione da Campylobacter, una causa crescente di intossicazione alimentare. I polli, causa dell’80% delle infezioni in Gran Bretagna, sono più vulnerabili se stressati con diete povere e da condizioni tipicamente riscontrate negli allevamenti intensivi.
  • Metà degli antibiotici utilizzati nel mondo e circa l’80% di quelli usati negli Stati Uniti vengono somministrati agli animali da allevamento, principalmente per tenere lontane malattie altrimenti inevitabili negli allevamenti industriali. Questa pratica contribuisce a creare l’emergenza dei superbatteri resistenti agli antibiotici. La Direzione Generale di Medicina Veterinaria mostra che circa il 95% degli antimicrobici utilizzati negli allevamenti del Regno Unito è destinato a suini e pollame, le due specie più allevate con metodi intensivi.
  • Tenere gli animali in condizioni di intenso sovraffollamento crea un ambiente paragonabile ad una pentola a pressione per la diffusione di malattie come l’influenza aviaria altamente patogena. La FAO ha dichiarato che “globalmente, si ritiene che la maggior parte dei casi di HPAI (Influenza Aviaria Altamente Patogena) siano stati originati dalla mutazione di un virus a bassa patogenicità, derivato dagli uccelli acquatici, in un virus altamente patogeno di HPAI, attraverso il passaggio nei polli domestici. L’intensificazione della produzione di pollame, specialmente se non accompagnata da appropriate misure di biosicurezza, può favorire questo processo perché produce un grande numero di animali, vulnerabili, altamente concentrati, in cui il virus dell’influenza aviaria si apre un varco, una volta che è entrato nell’allevamento”.
  • Gli animali allevati intensivamente e alimentati a grano producono carne con una concentrazione maggiore dei poco salutari grassi saturi, con meno proteine e nutrizionalmente più povera di quella degli animali che possono pascolare.
  • Attualmente un tipico pollo da supermercato allevato intensivamente contiene circa il triplo di grassi e un terzo in meno di proteine di 40 anni fa.
  • Incentivate dall’accesso a carne di basso valore e scarsa qualità, le persone nel mondo occidentale stanno mangiando eccessive quantità di carne e la loro salute ne sta risentendo. La dieta occidentale, insieme all’allevamento intensivo, viene esportata in tutto il mondo, portando ad un’epidemia mondiale di disturbi legati all’obesità.

Risorse

  • L’allevamento di bestiame necessita di enormi quantità d’acqua – 22 vasche da bagno per un chilo di polli, 27 vasche per un chilo di suini e 90 per un chilo di manzo.
  • Fino a 2 miliardi di persone al momento stanno soffrendo per la scarsità di risorse idriche ed è probabile che questo numero cresca a 4-7 miliardi entro il 2050, ovvero più della metà della popolazione mondiale.
  • Una tonnellata di mais prodotto con l’agricoltura estensiva (alimento base per il bestiame degli allevamenti intensivi) richiede l’equivalente di un barile di petrolio per essere prodotto. L’agricoltura biologica è più efficiente energeticamente dell’agricoltura convenzionale in praticamente tutti i casi.

Ambiente e Inquinamento

  • L’impatto dell’allevamento intensivo va molto al di là dei confini del capannone in cui sono allevati gli animali; un enorme superficie di terreno è dedicata alle monocolture chimiche di cereali e soia per il mangime degli animali.
  • Alcuni dei nostri uccelli più amati sono scomparsi, specie una volta comuni nella campagna inglese come l’allodola, la tortora e, la pavoncella sono diminuite sensibilmente. Questo a causa dell’allevamento intensivo e dei cereali.
  • L’industria scozzese di allevamento intensivo di pesce ha prodotto emissioni di azoto paragonabili alla produzione di liquami di 3.2 milioni di persone. La popolazione della Scozia è di poco superiore a 5 milioni di persone.

In conclusione, si ha un allevamento intensivo laddove gli animali vengono trattati come macchine produttive piuttosto che come esseri senzienti con necessità di benessere quali sono. Comprende modalità di allevamento caratterizzate dall’uso di sistemi di restrizione (gabbie) o capannoni sovraffollati, o recinti esterni senza alcun arricchimento dove gli animali hanno la tendenza a contrarre malattie causate da questo tipo di produzione.

L’allevamento intensivo è energivoro; utilizza mangimi concentrati, intensa meccanizzazione e bassi standard lavorativi.

(Fonte ciwf)

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L’omeopatia è una bufala

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“Una ricerca in Australia conclude che è inefficace per il trattamento di qualsiasi patologia. Ma allora perché così tante persone la scelgono? Non sarà perché la medicina “tradizionale” spesso non sa dare le risposte giuste ai pazienti?

Bene: il metodo scientifico ha decretato che l’omeopatia non funziona, o almeno uno studio davvero “potente” statisticamente dice questo. È la voce più forte che abbiamo a disposizione nel panorama della discussione, e dobbiamo integrarla nelle nostre riflessioni, a prescindere del nostro “partito ” o “fede” di appartenenza.

Un domanda sorge spontanea: ma allora cosa succede a tutte quelle persone, milioni, che si curano e continuano a curarsi con l’omeopatia? Come è possibile che pur peggiorando e non migliorando, come da evidence based ci aspetteremmo che fosse, siano soddisfatte del trattamento e ripongano in queste cure, più in generale nella medicina alternativa, la fiducia e la speranza per la vita?
Cerchiamo di utilizzare alcuni fatti per muovere la riflessione; partendo dal comportamento delle persone.
I comportamenti delle persone.
Le persone spesso hanno irrazionalmente paura della tossicità delle prescrizioni della medicina tradizionale. Le persone, davanti ad un sintomo a-specifico, ( i.e. tosse, cefalea, stanchezza, sintomi intestinali, pallore, tachicardia, ansia, insonnia, mancanza di concentrazione, calo del desiderio sessuale, inappetenza) cioè potenzialmente imputabile a differenti condizioni eziopatogenetiche, spessosi auto-diagnosticano un problema, e provano a porvi rimedio senza passare dal medico, almeno in un primo momento, puntando su ciò che ” al massimo non mi fa nulla ma nemmeno male”: la strada soft della medicina alternativa.  Questo comportamento è molto presente fra le mamme circa i sintomi dei figli.
Le persone cercano riferimenti in cui credere. Hanno bisogno di trovare rifugio da paure, senso di smarrimento e incertezza, hanno bisogno di avere fede in qualcosa, e, culturalmente, la nostra società ha messo pesantemente in discussione il totem del camice bianco, spalancando paradossalmente le porte al mondo dell’alternativa. Le persone si riferiscono così a professionisti che spostano l’attenzione lontano dal riduzionistico mondo scientifico, ponendo l’accento sulla persona più che sulla patologia, in un clima relazionale che tendenzialmente è più carico di attenzione, accudimento, comprensione della persona nella sua globalità.
Le persone cercano una risposta precisa alla loro condizione, sempre! Non accettano il ” non so” “non capisco bene”, preferiscono credere spesso ad una spiegazione “alternativa” che però ha la presunzione di dire “questa cosa che lei sente esiste per questo motivo”, trasformando teorie personali anche bizzarre in fatti.
I medici tradizionali hanno paura di dire “non ho capito”, “non riesco a fare una diagnosi precisa”, vanno in ansia da prestazione se non giungono ad una causa formulando quindi  una diagnosi chiara e quindi proponendo una terapia mirata. E spesso hanno atteggiamenti di evitamento, tensione, irritazione, quasi nei confronti dei pazienti, come fosse colpa loro.
I medici alternativi spiegano con convinzione assoluta come mai la medicina tradizionale fallisce e al contrario la loro prassi è efficace dettagliando una chiara evidenza eziopatogenetica che spiega l’efficacia del dato rimedio alternativo.
Alcuni fatti:
Più del 25% dei sintomi per cui i pazienti si rivolgono ad un medico rimangono senza riposta diagnostica.  Molte condizioni cliniche (30%) si risolvono senza un cura specifica, in maniera spontanea. Parliamo di influenze, dolori muscolari, forme d’ansia, sintomi autoimmuni, sintomi cardiologici, e molti altri.
Le diagnosi sono sempre ( SEMPRE) delle astrazioni rispetto alla realtà, sono convenzioni tassonomiche, come i valori di riferimento degli esami del sangue (che cambiano da laboratori  a laboratorio, negli anni); quindi esiste dell’altro oltre la diagnosi, che spesso spiega risposte ai trattamenti inaspettate, eccezioni,  difformità rispetto alla regola dell’andamento della malattia.
D’altro canto si può parlare di depressione moderata, di tiroidismo subclinico, di ipertensione borderline, di entità patologiche moderate, che effettivaemente esistono nell’esperienza clinica di tutti i giorni, ma che possono giovarsi sia di interventi sullo stile di vita, sia di interventi medicali tradizionali, sia di interventi più soft e meno tradizionali.
Esiste una zona grigia di conoscenza della medicina, ancora molto ampia, fatta di sofferenza che non trova nel medico una risposta chiara, perché ancora non abbiamo capito tutto dei nostri malati. In alcuni ambiti, come la psicologia e la psichiatria,  arriva quasi al 100%: in questi ambiti chiunque dica “questo sintomo esiste per questa causa” sta mentendo, non esiste alcuna evidenza chiara e completa sull’eziopatogenesi.
Esiste l’effetto placebo, che non è fatto solo di pura soggezione e produce effettivi risultati, non sempre, non duraturi, ma effettivi, talvolta ( 45%), comparabile alla cura effettiva, almeno nel breve termine.
Conclusioni
La medicina alternativa non è la panacea e non funziona meglio ( forse non funziona proprio). È possibile che nella prassi clinica della medicina alternativa i pazienti trovino quello che cercano in quanto persone: speranza, fiducia, ascolto, sensazione di accudimento e presa in carico. Più che nella medicina tradizionale, forse oggi colpevole di non sapere come gestire il “non ho capito cosa ha, non so darle una risposta” e ancora troppo concentrata sulla malattia e non sul malato.
È possibile che nella prassi clinica della medicina alternativa più che sulla patologia i pazienti percepiscano un beneficio sulla zona grigia della conoscenza scientifica, fatta di sintomi specifici, di risultati che sono imputabili non tanto alla bontà della teoria (si badi bene: teoria, non evidenza scientifica) alternativa, quanto alla bontà della prassi del rapporto cura-malato.
I medici alternativi dovrebbero smettere di vendere ai malati certezze sulle presunte cause “alternative” del sintomo o del disagio.
Noi tutti, medici alternativi e non, dovremmo accettare una certa ignoranza della medicina, alternativa e non; cercare di capire meglio cosa facciamo, su cosa, come e per chi, accettando che molte delle cose che facciamo funzionano, non sappiamo bene perché e su che cosa, ma funzionano, danno un beneficio alle persone.
Forse, noi tutti medici, dovremmo guardare con occhi diversi, al malato e non solo alla malattia, misurare il risultato non solo sulla tassonomia della malattia, ma non perché questo processo è difficile allora tutti siamo autorizzati a cercare la strada dell’alternativa, quella in cui anche noi scienziati, finiamo per credere con atteggiamento fideistico, per scappare dalle nostre paure.” Michele Cucchi, Direttore Sanitario del Centro Medico Santagostino di Milano
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Odio i lunedì, mi metto in malattia

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Le imprese chiedono da tempo di intervenire sulla malattia dei propri dipendenti. La ricerca effettuata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, sembra fatta apposta per sostenere questa pretesa. Oltre il 30% dei certificati medici dei lavoratori dipendenti (operai o impiegati) infatti, viene presentato di lunedì. La famosa epidemia del lunedì.

Su oltre 13 milioni e 365 mila eventi di malattia registrati due anni fa, oltre 4 milioni (pari al 30,7 per cento del totale) sono stati denunciati a inizio della settimana. Complessivamente sono stati circa 106 milioni i giorni di malattia “persi” durante tutto l’anno. La ricerca è del 2012, ultimo anno per il quale sono a disposizione i dati estratti dall’Osservatorio sulla certificazione di malattia dei lavoratori dipendenti privati e pubblici dell’Inps, avviato nel 2011.

Nel pubblico ci si ammala più spesso, ma mediamente si perdono meno giorni di lavoro che nel settore privato. Secondo la Cgia i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08).

A possedere il record di giorni medi di malattia all’anno è la Calabria che arriva a 34,6 nel pubblico e 41,8 nel settore privato. Tra i lavoratori dipendenti più “cagionevoli” troviamo anche i siciliani (con 19,9 giorni medi di malattia all’anno), i campani (con 19,4) e i pugliesi (con 18,8). Gli operai e gli impiegati più “robusti”, invece, li troviamo a Nordest: in Emilia Romagna con 16,3 giorni all’anno, in Veneto con 15,5 e in Trentino Alto Adige, con 15,3 giorni di assenza per malattia.

Ma perché i lavoratori dipendenti si ammalano soprattutto di lunedì? Prova a spiegarlo Giuseppe Bortolussi, Segretario della Cgia: “Nel fine settimana si concentrano le attività conviviali e quelle legate al tempo libero. Con l’avvento della crisi, inoltre, sono sempre di più coloro che per risparmiare eseguono piccoli lavori di manutenzione nel proprio giardino o nell’abitazione in cui vivono. Iniziative che, in qualche modo, contribuiscono ad aumentare gli acciacchi degli italiani. Tenendo conto che molti medici di base il sabato e la domenica non svolgono la normale attività ambulatoriale, l’elevato numero di certificati che si riscontra al lunedì è in gran parte riconducibile a queste situazioni”.

Non è solo Vasco Rossi, come in una sua celeberrima canzone, a odiare il lunedì, ma quasi tutti gli italiani.

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