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Caporalato: 400 mila lavoratori trattati come schiavi

mappa capolarato

Sono circa 80 i distretti agricoli italiani in cui si pratica il caporalato. 400 mila i lavoratori che hanno trovato impiego nei campi mediante l’intermediazione illegale di manodopera, di cui l’80% sono stranieri comunitari e non. Un aumento del tasso di irregolarità del lavoro in agricoltura che, in poco più di dieci anni, è passato dal 20,2% al 24,8%. Cifre da brivido nonostante l’introduzione, nel 2011, del reato di caporalato (603 bis del codice penale) che, tuttavia, ha permesso di arrestare e denunciare circa 355 caporali, di cui 281 solo nel 2013 (un trend crescente considerato che nel 2011 le denunce sono state 11, 63 nel 2012). Questi i dati del secondo rapporto “Agromafie e Caporalato” redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, dedicato alla memoria del sindacalista siciliano rapito e ucciso dalla mafia nel ’48.

Il peso dell’illegalità e dell’infiltrazione mafiosa nell’intero settore agroalimentare, stimato nell’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia, è di circa 12,5 miliardi di euro. Questo dato però deve tener conto di una spiccata dimensione internazionale assunta dalle mafie negli ultimi decenni. Sono, infatti, più di 3600 le organizzazioni criminali di stampo mafioso attive solo nell’UE, con un danno stimato in 670 Miliardi di mancati ricavi, con un effetto depressivo per l’intero sistema economico comunitario. In questa rinnovata posizione delle mafie nello scenario globale, grande rilevanza è assunta dal controllo sempre più pervasivo della contraffazione dei prodotti agroalimentari e dalla gestione illegale della tratta degli esseri umani (che spesso rischia di essere il primo anello della catena rappresentata dal business dello sfruttamento lavorativo e del caporalato agricolo). Dati sconcertanti sono riportati in merito ai sequestri e le confische per mafia relativi a terreni, aziende e attività legate al settore agroalimentare.

Se facciamo riferimento solo al patrimonio confiscato i dati forniti dall’ANBSC ci dicono che sono circa 2245 i terreni a destinazione agricola sottratti ai clan, a cui vanno aggiunti 362 terreni con fabbricati rurali e 269 terreni edificabili (dunque più del 25% dell’intero patrimonio confiscato). Il dato però cresce notevolmente se facciamo riferimento ai dati forniti dal Ministero della Giustizia in merito alla somma dei beni sequestrati, confiscati in primo grado e in via definitiva. In questa speciale classificazione i terreni agricoli sono circa 24638, mentre non è possibile fornire un dato certo sulle aziende del comparto agroalimentare sul totale di 7623 aziende sottoposte a misure di prevenzione, l’unica certezza riguarda il dato dei fallimenti, che coinvolge circa il 93% delle aziende sottratte ai boss. Dunque se da un lato la Magistratura e le Forze dell’Ordine compiono lo sforzo straordinario di reprimere le mafie, allo stesso tempo latita una strategia di promozione della legalità attraverso il riutilizzo produttivo dei beni e delle aziende confiscate, con notevoli ripercussioni sull’occupazione dei lavoratori coinvolti e sulla necessità di sfidare le mafie sul terreno dove continuano ad avere consenso, il piano sociale e economico. Non molto diversi sono i dati sulla contraffazione alimentare aumentata del 150% nelle economie maggiormente sviluppate e del 128% in Italia, con danni pari a 60 Miliardi di euro se sommati al fenomeno dell’Italian sounding, cioè dei prodotti che secondo etichettatura mendace richiamano al Made in Italy e invece sono prodotti altrove e con materie prime di dubbia qualità. Emerge poi in modo dirompente il dato relativo al sommerso occupazionale nel settore agricolo, che nel caso dei lavoratori dipendenti tocca la media nazionale del 43%, con un valore aggiunto prodotto dall’economia sommersa pari al 36% per gli imprenditori disonesti che falsano la concorrenza e agiscono in un regime di mercato falsato.

Sconfortanti sono i dati sulla condizione dei lavoratori e le lavoratrici impiegate nel settore agricolo. Secondo le stime riportate nel Rapporto, sono circa 400.000 i lavoratori che potenzialmente trovano un impiego tramite i caporali, di cui circa 100.000 presentano forme di grave assoggettamento dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche, anche se negli ultimi anni le denunce sono sensibilmente cresciute. Dall’introduzione nel codice penale del reato di caporalato (art. 603bis del codice penale) sono circa 355 i caporali arrestati o denunciati, di cui 281 solo nel 2013. Sono circa 80 gli epicentri dello sfruttamento dei caporali, in 55 di questi epicentri sono stati riscontrate condizioni di lavoro indecente o gravemente sfruttato. Più del 60% dei lavoratori e delle lavoratrici costrette a lavorare sotto caporale – la maggior parte stranieri comunitari e non – non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente. Più del 70% presenta malattie non riscontrate prima dell’inserimento nel ciclo del lavoro agricolo stagionale. Poi ci sono le intollerabili tasse dei caporali che sono pagate dai lavoratori e dalle lavoratrici e da tutti noi in termini di mancato gettito per la fiscalità generale. Il fenomeno del caporalato e il correlato sfruttamento lavorativo non costituiscono una piaga solo meridionale, ma sono alquanto diffusi e contrastati in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Veneto.

Solo in termini di mancato gettito contributivo il caporalato ci costa più di 600 Milioni di euro l’anno, una cifra calcolata sulla media di 70 giornate lavorate l’anno. I lavoratori impiegati dai caporali percepiscono un salario giornaliero inferiore di circa il 50% di quello previsto dai contratti nazionali e provinciali di lavoro, cioè circa 25/30 Euro per una giornata di lavoro che dura fino a 12 ore continuative. A questo bisogna aggiungere le “tasse” da corrispondere ai caporali dovute al trasporto (circa 5 euro), all’acquisto di acqua (1,5 Euro a bottiglia) di cibo (3,5 Euro per un panino) e commissioni varie dovute all’impossibilità di accedere a beni di prima necessità come il cibo e i medicinali. In molti casi, soprattutto al sud, i lavoratori sono costretti anche a pagare l’affitto degli alloggi fatiscenti nei tantissimi ghetti lontani dai centri urbani e da occhi indiscreti. I lavoratori non scelgono di vivere in questi contesti fatiscenti, ma sono costretti a farlo, visto che solo in quei luoghi troveranno un caporale che gli offrirà una giornata lavorativa.

Nell’indagine svolta emerge sempre più in forma dirompente la debolezza di alcuni strumenti legislativi: da un lato la fragilità dell’attuale norma contro il caporalato che punisce solo il caporale e non gli imprenditori che si avvalgono della loro intermediazione, dall’altro la scarsa applicazione delle previsioni normative previste dal recepimento della Direttiva europea n.52, che avrebbe dovuto assicurare un regime di protezione speciale per i lavoratori e le lavoratrici sfruttate. In particolare sono le donne e i bambini ad essere l’anello più debole dello sfruttamento, le prime spesso costrette a essere inserite nel circuito dello sfruttamento della prostituzione e i secondi costretti a lavorare nonostante la giovane età in condizioni che non fanno onore ad un paese che si definisce civile.

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Dall’Italian Sounding all’Italiana Laundering: Made in Italy a rischio

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L’Italia è il paese della buona tavola, del cibo di qualità, di prodotti unici al mondo. Buona parte del merito di questa unicità è rappresentato dal settore agroalimentare, da sempre fiore all’occhiello del Made in Italy che però non riesce a scrollarsi di dosso le vesti di Cenerentola. Oltre alla crisi, a rendere ancora più complicato negli ultimi anni lo sviluppo di questo settore vitale per l’economia del nostro Paese, anche l’appetito delle mafie. Camorra, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta sono state ancora una volta capaci di anticipare i tempi e ormai da anni hanno messo le mani su un business, quello dell’agroalimentare, il cui giro d’affari si attesta attorno ai 14 miliardi di euro l’anno, 7 dei quali provenienti solo dalla produzione agricola.

La forma più classica di Italian sounding consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani con l’utilizzo di nomi, parole, immagini che richiamano l’Italia, inducendo quindi ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani. È una forma di falso Made in Italy molto diffusa in àmbito internazionale nel settore agroalimentare, nel quale il nostro Paese può vantare una grande varietà di eccellenze. Oggi occorre però non trascurare la diffusione, accanto a questa pratica totalmente illecita, di una forma più raffinata di Italian sounding, legale, seppur, nei fatti, ingannevole. Se in passato era frequente la pratica di acquistare all’estero le materie prime per alimenti poi trasformati e lavorati in Italia e venduti come Made in Italy, in questi anni si è invece diffusa in misura crescente la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane. In questo caso il nome non soltanto suona italiano, ma viene unanimemente associato all’azienda che dal momento della sua nascita, per anni, ha messo sul mercato il prodotto. Il fenomeno si è notevolmente intensificato nel nuovo Millennio e mostra ulteriori segni di crescita negli ultimi tre anni. Quasi tutti i settori alimentari sono stati coinvolti, dalle bevande alcoliche ai dolci, dai salumi ai latticini. Gli acquirenti sono soprattutto aziende francesi, svizzere, spagnole e statunitensi. La Francia si è concentrata sul settore caseario, la Spagna sull’olio, i colossi multinazionali svizzeri e statunitensi hanno diversificato gli investimenti orientandosi su tipologie eterogenee di prodotti.

L’assorbimento di una fetta tanto importante del comparto agroalimentare nazionale da parte di aziende estere comporta lo svuotare di sostanza il marchio del Made in Italy, poiché sono sempre di più le realtà industriali, grandi e piccole, ormai italiane solo di nome. In molti casi il cambio di gestione determina una perdita della qualità, come conseguenza della delocalizzazione produttiva e della scelta di materie prime non locali. Piuttosto che la valorizzazione della diversità, che rappresenta uno dei valori del Made in Italy autentico, si favorisce l’omologazione. Questa particolare forma lecita di Italian sounding finisce anche per infrangere il patto di fiducia con i consumatori, tradendone di fatto le aspettative. È un paradosso tutto italiano. Da un lato si mobilitano energie per diffondere anche nei cittadini meno attenti la consapevolezza del valore aggiunto offerto dal marchio nazionale e si utilizza il Made in Italy come volano di un settore, quello alimentare, sempre più centrale in tempi di crisi. Dall’altro lato una parte tanto consistente di quelle imprese che del Made in Italy stesso erano rappresentative porta ormai bandiera straniera. Va ricordato che alcuni dei marchi italiani assorbiti da aziende straniere hanno potuto beneficiare di un processo di efficace riorganizzazione, rilancio e rafforzamento finanziario. Alcune realtà che rischiavano la chiusura sono riuscite a sopravvivere e, con un gruppo multinazionale forte alle spalle, a reggere il confronto con il nuovo mercato globalizzato. In generale, però, almeno nel settore agroalimentare, l’acquisizione da parte di aziende straniere coincide con lo svuotamento della componente realmente italiana del marchio e, talvolta, con l’assorbimento della concorrenza italiana o con una concorrenza irresistibile nei confronti delle altre imprese italiane dello stesso settore merceologico. Esiste inoltre la possibilità che i gruppi stranieri proprietari di aziende agroalimentari un tempo italiane si spingano a chiudere gli stabilimenti italiani e a trasferire l’intera produzione all’estero, dove i costi sono più contenuti. In questo caso si devono considerare i risvolti occupazionali del passaggio di proprietà, per la perdita di posti di lavoro in un settore cardine qual è quello dei prodotti alimentari fortemente connotati come italiani. Senza considerare i danni ambientali derivanti dal venir meno degli investimenti per il mantenimento del territorio. In questo meccanismo distruttivo basato sul classico Italian sounding e sulle sue forme più raffinate e legali, ma anche sull’agropirateria nelle sue diverse declinazioni, l’Italia è al tempo stesso vittima e colpevole. Sono molte le aziende costrette, per sopravvivere, ad adeguarsi a regole imposte dai grandi gruppi: produrre a costi bassissimi per restare sul mercato, il che è possibile solo ricorrendo a materie prime scadenti, sacrificando quindi la qualità. I danni che ne derivano sono molteplici: la privazione del marchio, l’abbassamento progressivo della qualità dei prodotti, l’imposizione di standard produttivi bassi alle aziende locali, che dovrebbero essere custodi delle produzioni tipiche e si trovano invece costrette a fare scelte che le mantengano competitive. Chi perde maggiormente in questo meccanismo sono da un lato i produttori locali, costretti ad abbassare qualità e prezzi, impoverendosi, dall’altro lato, ovviamente, i consumatori, cui arrivano prodotti sempre più scadenti. Nella dinamica che si sta così affermando gli alimenti falsi e di bassa qualità non sono soltanto quelli prodotti all’estero, ma anche quelli provenienti dalle aziende italiane.

L’Unione europea si configura come una delle aree di libero scambio più grandi del mondo, con un bacino di circa mezzo miliardo di utenti/consumatori. La libera circolazione delle merci impone agli Stati Membri un certo grado di corresponsabilità in merito a questioni estremamente sensibili, soprattutto nell’ambito della tutela del consumatore. Tale aspetto è particolarmente rilevante per quanto concerne il settore agroalimentare, dove i concetti di sicurezza e controllo della qualità diventano assolutamente centrali. La disparità tra le singole normative nazionali, la poca chiarezza della legislazione comunitaria, la discrepanza nei controlli alle frontiere esterne, rappresentano fattori che incidono non solo sulla “salute” del cittadino, ma anche sugli orientamenti economico-produttivi di un mercato volatile e soggetto ad una concorrenza estera sempre più pressante. Un nodo cruciale è rappresentato dalla labile linea di separazione tra prodotti “commestibili” e prodotti “di qualità”, la cui demarcazione non sembra essere possibile se non attraverso valutazioni di tipo soggettivo, influenzate più da fattori culturali che da parametri scientifici. La protezione dei prodotti genuini è una priorità soprattutto per alcuni Stati Membri, principalmente del Sud dell’Europa, che operano per difendersi da una concorrenza spesso ai limiti della legalità. In questo senso, la questione dell’etichettatura dei prodotti diventa centrale; tuttavia, l’Unione europea non sembra aver raggiunto un grado di raccordo soddisfacente in merito. L’infiltrazione criminale nel settore agroalimentare trae linfa dalle mancanze della normativa comunitaria, in quanto i produttori sono continuamente in cerca di soluzioni, anche illegali, per abbattere i costi e rimanere competitivi sul mercato.

*Eurispes-Coldiretti

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Se la legalizzazione fosse l’unica strada per combattere il narcotraffico?

legalizzazione della droga

La legalizzazione è l’ultima spiaggia per impedire i  profitti derivanti dal monopolio sul commercio delle droghe illegali garantito alla criminalità organizzata dalle leggi proibizioniste, le narcomafie con il riciclaggio hanno infiltrato l’economia legale (al Nord come al Sud e al Centro) e si stanno letteralmente comprando le nostre città.

Il 32% degli italiani ha fumato cannabis almeno una volta nella vita. In Italia il mercato illegale delle droghe proibite garantisce alle mafie un giro d’affari annuo stimato in almeno 24 miliardi di euro, coinvolgendo 250/400 mila piccoli spacciatori, 3 milioni di consumatori abituali, con oltre 800 mila persone coinvolte in procedimenti amministrativi per possesso di droga e 28 mila detenuti per violazione della legge sugli stupefacenti (fonte: Commissione di studio sul mercato illegale delle droghe). Il Comune di Milano il 1° agosto scorso ha pubblicato una relazione di 111 pagine sui traffici e gli interessi della rete criminale che agisce in città. Nel periodo considerato che va da gennaio 2011 a luglio 2012, si contano 39 incendi, 13 intimidazioni con bombe artigianali o armi da fuoco e un omicidio. Anzi tre. Tutto in solo venti mesi. Meno di due anni.

Un bilancio pesante, ma per il prefetto di Milano tutto è sotto controllo e non c’è alcun allarme. Quante ancora dovranno essere le vittime di questa infame guerra per arrivare alla legalizzazione e alla riduzione del danno, chiedevano nella loro dichiarazione il senatore radicale Marco Perduca e Leonardo Monaco di Radicali Italiani.

E proprio i Radicali, si stanno battendo ed hanno proposto, una petizione online “contro le mafie della droga proibita: legalizzazione, autocoltivazione e riduzione del danno”. Decenni di politiche proibizioniste hanno totalmente fallito. La legalizzazione di produzione, commercio e vendita delle droghe rappresenta l’unica e necessaria alternativa. Inoltre, questa petizione, chiede alla Camera dei Deputati di discutere ed approvare la Proposta di Legge n. 2641 (Bernardini e altri) per la depenalizzazione della coltivazione domestica di piante dalle quali possono essere estratte sostanze stupefacenti o psicotrope. Legalizzare la droga non significa renderla libera. Legalizzare la produzione delle piante, consentendo un guadagno non alla criminalità organizzata ma a chi legalmente produce e vende, registrandosi, pagando le tasse, includendo così in un sistema lavorativo legale i propri dipendenti, è una proposta sensata e condivisibile. Ci vuole tanto? Perchè non non viene presa in considerazione questa ipotesi? Perchè?

Il Governo italiano dovrebbe promuovere politiche di riduzione del danno in analogia a quanto avviene in Europa, reintroducendone il concetto anche nei documenti ufficiali da cui era stato espulso persino il termine, e di favorire le misure alternative alla pena (collocamento in comunità o agli arresti domiciliari) per i detenuti tossicodipendenti in modo che possano scontare la pena usufruendo di misure alternative, assicurando una migliore assistenza socio-sanitaria oltre a un notevole risparmio economico per lo Stato.

Mondoallarovescia.com appoggia l’iniziativa dei Radicali nella convinzione che attraverso queste politiche si possa contrastare la criminalità organizzata e nel contempo combattere realmente il mondo della droga e gli interessi economici delle Mafie.

Per aderire alla petizione dei Radicali Italiani clicca qui.

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Le mafie non bruciano le speranze

Fonte ANBSC

 

La mattina del 12 giugno 2012 altri due incendi in contemporanea hanno colpito due uliveti confiscati alle mafie e affidati temporaneamente a Libera. Colpite in Sicilia dalle fiamme un uliveto a Castelvetrano, e altro uliveto in località Staglio a Partanna. Ancora fiamme, ancora incendi colpiscono terreni confiscati alle mafie . “Dieci giorni fa incendio oliveto – denuncia Libera – a Castelvetrano, poi duemila piante di arance a Belpasso nel catanese, ieri due quintali di grano andati in fumo ieri a Mesagne per non citare le varie intimidazioni subite a Borgo Sabotino e nella piana di Gioia Tauro in Calabria. Non possiamo piu’ pensare a delle coincidenza, sono colpiti beni confiscati restituiti alla collettività, sono un attacco al lavoro quotidiano di chi si impegna quotidianamente contro il potere criminale. Nessuno pensi che con le fiamme di vandalizzare e fermare questo impegno. Contro queste fiamme il “noi” del nostro paese è chiamato in gioco e deve sentire forte questo impegno nella lotta alla criminalità. “Non possono lasciare – ha dichiarato Don Luigi Ciotti, presidente nazionale di Libera – indifferenti i recenti episodi di vandalismo a danno dei beni confiscati alle mafie, dalla Puglia alla Sicilia, dal Lazio alla Calabria. Quei beni non sono solo uno schiaffo alle organizzazioni criminali, uno strumento per indebolirle in ciò che le rende forti: l’accumulazione illecita di capitali. Sono opportunità di lavoro, di economia sana e trasparente e prima ancora di cambiamento culturale. Proprio in questi giorni 6000 giovani si apprestano a passare parte delle vacanze in quei luoghi, vere palestre di cittadinanza, dove imparano che la democrazia e la giustizia sociale sono concetti vuoti se non si fondano sulla cooperazione e l’impegno di ciascuno di noi. Libera sente un debito di gratitudine verso chiunque – ha concluso Don Luigi Ciotti – dalle forze dell’ordine alle istituzioni e amministrazioni locali – contribuisce per garantire la sicurezza di quelle realtà, ma alla luce del susseguirsi degli incendi e vandalismi è chiaro che qualcosa nel meccanismo di tutela deve essere rivisto. Cosi come, a monte, va potenziato lo strumento della confisca, e in particolare devono essere sbloccati quei numerosi beni ancora soggetti a ipoteca bancaria, impossibilitati quindi a svolgere la loro preziosa funzione sociale, educativa, culturale, economica». I beni immobili che devono essere sbloccati sono 2.590 (Dati 31 dicembre 2011), sulle quali pesano appunto presenza di ipoteche, procedure giudiziarie in corso e beni aziendali. Mentre le aziende ancora da destinare sono 276 (26,1%).

Intervistato da Repubblica il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso e’ sicuro “che ci sia una strategia contro l’utilizzo dei beni confiscati , dobbiamo verificare se e’ diretto solo contro Libera come sembra o in generale contro le associazioni che gestiscono i beni confiscati”. Ed annuncia: “Per la prevenzione, d’ora in avanti utilizzeremo la Forestale, ho già parlato con loro e sono disponibili, lo Stato deve dare un segnale a questi attacchi”.

LA SOLIDARIETÀ DI UNIPOLIS. Di fronte al ripetersi di gravi atti intimidatori nei confronti delle Cooperative di Libera Terra che gestiscono beni confiscati alle mafie in Sicilia, Calabria e Puglia, la Fondazione Unipolis esprime tutta la propria solidarietà ai soci e ai lavoratori delle cooperative colpite, insieme all’impegno a continuare nel sostegno al loro lavoro e all’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Grazie alla determinazione di Libera, di tanti giovani, di organizzazioni economiche, d’impresa e sociali, di istituzioni locali e nazionali, sono nate e si sono sviluppate le cooperative che hanno restituito all’uso sociale e alla collettività un patrimonio rilevante che era stato sottratto dalle mafie con la violenza e la protervia, trasformandolo in prodotti che costituiscono una concreta testimonianza della volontà di riscatto di quei territori e delle persone che li abitano. Evidentemente, c’è chi ancora non vuole accettare che in quelle zone del Paese ci sia chi opera per creare opportunità di lavoro pulito e regolare, di sviluppo sano, in un contesto di legalità e di giustizia sociale.

Anche il presidente nazionale di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza e Mimmo Fontana, presidente regionale di Legambiente Sicilia esprimono solidarietà a Libera: “Le mafie rubano, accumulano ricchezze illegalmente, ammassano beni. E se lo Stato questi beni li confisca, allora bruciano tutto. Accade quasi ogni giorno, da un po’ di tempo a questa parte. Ulivi, giardini, campi di grano, casolari, fattorie, vigneti: bruciati da quei criminali per dire che quella roba resta la loro, di nessun altro. A farne le spese è soprattutto Libera, l’associazione guidata da don Ciotti, protagonista, con le sue cooperative di giovani, del ritorno alla collettività dei beni confiscati alla mafia. Un affronto alla legalità e al Paese, contro cui è necessario fare un fronte comune. Ai mafiosi diciamo che i ragazzi di Libera domani torneranno tra i campi. Anche col nostro aiuto”.

 

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