Ogni politico ha il suo prezzo

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Le cooperative campano di politica, mentre i candidati alle elezioni comunali sono “cavalli” su cui scommettere durante la campagna elettorale. E ognuno ha il suo prezzo. Il manifesto programmatico di Buzzi, così lo definiscono gli inquirenti nel corso della ventiduesima udienza del maxi processo Mafia Capitale. A leggere l’intercettazione dell’aprile 2013 in cui Buzzi spiega a Campennì come si devono tenere sotto scacco tutti i politici della Capitale, è il maresciallo De Luca del Ros, interrogato dai pubblici ministeri Luca Tescaroli e Paolo Ielo. La corruzione dei politici da parte di Salvatore Buzzi è trasversale.

“Questo è il momento che pago di più… le comunali… noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune…. e se sbagli investimento, se punti sul cavallo sbagliato… mò c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è… c’ho rapporti con Luca (Odevaine, direttore extra dipartimentale di Polizia e Protezione Civile della Provincia di Roma, ndr) quindi va bene lo stesso… lo sai a Luca quanto gli do? 5mila euro al mese… ogni mese… ed io ne piglio quattromila. I nostri sono molto meno ladri di… di quelli della Pdl… no, no questo te lo posso assicurà, te lo posso assicurà io che pago tutti, i miei non li pago… e che vuol dì, un conto è che sei sponsor… Ma tu lo sai perché io c’ho lo stipendio, non c’hai idea di quante ce n’ho… non ce li hanno… Pago tutti pago… Anche due cene con il sindaco (all’epoca Alemanno, ndr) 75mila euro ti sembrano pochi? Oh so 150 milioni eh. I miei (il Pd, ndr) ti posso assicurà che non li pago… Tu devi essere bravo perché la cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c’ho una cena da 20mila euro (quella per la campagna elettorale di Alemanno, ndr) pensa… questo è il momento che paghi di più perché stanno le elezioni comunali, poi per cinque anni… poi paghi soltanto… mentre i miei poi non li paghi più poi quell’altri li paghi sempre a percentuale su quello che te fanno. Lo sai a Luca Odevaine quanto gli do? 5mila euro al mese… ogni mese… ed io ne piglio 4mila… Schina 1.500 euro al mese… (inc.) quello stronzo che tu conosci un altro che mi tiene i rapporti con Zingaretti (Nicola Zingaretti, Presidente della Regione Lazio, ndr) 2.500 al mese. Un altro che mi tiene i rapporti al Comune 1.500, un altro a… sette e cinquanta… un assessore 10mila euro al mese… ogni mese, eh! Io mica c’arrivo a 10mila”.

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Non vi possiamo più guardare negli occhi

Almirante

Mafia Capitale è il simbolo della doppia morale fascista sull’immigrazione, da un lato il populismo delle marce contro, dall’altro il pragmatismo degli affari sull’accoglienza. “La mucca deve mangiare, e qui la mucca l’amo munta tanto”. È la regola di Mafia Capitale. Mungere la mucca dei finanziamenti pubblici per le grandi emergenze. La sanità, i profughi, i bambini che fuggono da guerre e carestie, la gente che a Roma cerca una casa, la monnezza che soffoca l’Urbe. Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e i loro complici politici, del Pd, del Pdl e della Destra, senza distinzioni, uniti dalla mazzetta, avevano un solo obiettivo: fare soldi. Soldi e potere.

Gli arresti nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale confermano che ormai gli immigrati sono diventati un business che frutta milioni e milioni di euro. Alemanno o Marino, erano loro i padroni nel Comune di Roma. Sceglievano i dirigenti e decidevano il bilancio, avevano agganci alla Regione, erano ben piazzati dentro prefettura e ministero dell’Interno. Quanto vale in termini di mazzette un immigrato? “Famo un euro a persona”. Tanti soldi. L’emergenza usata come strumento di corruzione. Oppure “Se vinceva Alemanno ce l’avevamo tutti comprati partivamo fiuuuuuu (nota del gip: fonetico intendendo partenza a razzo)”.

Alemanno che riceve una mail dalla ‘ndrangheta è una scena dada. L’ex ragazzo del Fronte della Gioventù, cresciuto tra le pagine di “Cavalcare la tigre” – il libro della decadenza attiva di Julius Evola – invece che a sbrigarsela col Kali-Yuga si ritrova impantanato tra gli sbaffi di ‘nduia. Luca Gramazio, esponente di punta della destra capitolina, in un’intercettazione dice: “Lassù qualcuno ci ama”. Per “Ama” si sottintende l’Azienda municipalizzata ambiente. E quella di questo ex ragazzo di An non è solo una spiritosaggine ma un lapsus rivelatore di un destino politico: avere ridotto la destra, a Roma, in una pagina del grottesco. Camerata, camerata, fregatura assicurata. Non lo sapevate, vero? È il mantra che attraversa l’onda di disonore di questi giorni. Pensate: quelli che ripetevano “Mussolini e i suoi furono appesi a testa in giù in Piazzale Loreto senza che un solo soldo cadesse dalle loro tasche”; anni di persecuzioni; ragazzi tratti dal piombo negli anni dell’odio; lo sguardo di Giorgio Almirante, infine, gettati nel pozzo buio della vergogna. Appunto, lo sguardo di Almirante: “Noi vi possiamo guardare negli occhi”, questo era lo slogan del Msi, il partito della legge e dell’ordine. La fiaccola del Fronte della Gioventù, la stessa che campeggia nella foto che riunisce Paolo Borsellino con i ragazzi missini, a Siracusa, soffocata da uno di loro: il futuro sindaco di Roma, Gianni Alemanno, responsabile di un omicidio politico, la buonafede. Quella di chi, da destra – in una posizione scomoda, minoritaria – sapendo di perdere sempre s’intignava nell’ossessione delle “Mani pulite”. È successo che la generazione degli sdoganati, convocati nella stanza del potere, s’è data alle bustarelle. Appunto: camerata, camerata, fregatura assicurata. Non era così, non è mai stato così. Enrico Endrich, fascista e già podestà di Cagliari, eletto nel Msi nel 1952, contesta la legge per l’indennità di pensione per i parlamentari e si dimette per protesta: “Essere deputati è un dovere politico, non un mestiere”. Alla sua morte, la vedova, rifiuta la reversibilità. Altra tempra, altri tempi. Non vi possiamo più guardare negli occhi”. Pietrangelo Buttafuoco

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La storia della banca clandestina di nome Coop

banca coop

Un milione 218 mila italiani hanno portato i loro risparmi alla Coop, cui hanno consegnato mediamente 9 mila euro a testa, per un totale di 10,86 miliardi che hanno fruttato interessi totali per 139 milioni di euro. Funziona così: si va alla Coop, si diventa soci, si chiede di aderire al prestito soci, si ottiene un libretto tipo quelli della Posta, si portano i soldi da depositare. Ci sono vantaggi notevoli rispetto alla banca, per esempio nessun costo e, soprattutto, nessuna tracciabilità. Comunque nessun vincolo. Il preavviso delle 48 ore previsto dal regolamento è una formalità dettata da qualche avvocato per far vedere che si sta sopra le 24 ore previste dai regolamenti Bankitalia. Ma quando uno ottiene una tessera magnetica con cui può pagare la spesa al supermercato o addirittura prelevare il contante dal Bancomat, sempre con addebito sul suo prestito sociale, che cosa può più giustificare la finzione di non chiamare tutto questo una grande banca? Alla Banca d’Italia però si ostinano a far finta di niente, finché non arrestano qualcuno. Sulla grande banca della Coop all’insaputa della vigilanza ne scrive oggi Giorgio Meletti sulle pagine del Fatto Quotidiano.

Alla Banca d’Italia devono essere un po’ distratti. Ci sono circa 11 miliardi di risparmi degli italiani depositati presso i supermercati a marchio Coop e gli occhiuti vigilantes del governatore Ignazio Visco nemmeno lo sanno. O fingono di non saperlo.

La storia della banca sommersa di nome Coop è una utile chiave di lettura per lo scandalo Mafia Capitale. L’ormai celebre foto dell’attuale ministro del Lavoro e allora presidente di Legacoop Giuliano Poletti con il ras della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi non segnala indicibili complicità o silenzi ma una realtà alla luce del sole: alle cooperative, bianche, rosse o nere, tutto è permesso. E secondo una retorica ben rodata chi le critica è un nemico del popolo, anche quando al popolo fanno sparire i risparmi.

Il problema della banca clandestina è stato sollevato dal Fatto un anno fa. Se uno porta i suoi soldi in banca, in caso di crac dell’istituto prescelto il suo deposito è garantito dal Fondo interbancario di garanzia. Se uno porta i soldi alla Coop, invece, non c’è nessuna garanzia. Enrico Migliavacca , vicepresidente dell’Associazione delle cooperative di consumo, scrisse al Fatto: “È falso affermare che siano a rischio 10 miliardi di risparmi delle famiglie”. I fatti hanno smentito tanto ottimismo. A Trieste la Cooperative Operaie ha fatto crac al termine di un’acrobatica agonia su cui sta facendo luce la magistratura, e si sono volatilizzati 103 milioni di risparmi di 17 mila risparmiatori. Subito dopo, in Friuli, è saltata la CoopCa, la cooperativa della Carnia. Altri 30 milioni di risparmi. È un mondo a due velocità. I clienti della Tercas, la Cassa di risparmio di Teramo commissariata dalla Banca d’Italia e il cui direttore generale, accusato del crac, è imputato di associazione a delinquere, non hanno perso un euro. I clienti delle Coop, invece, con il crac rischiano di perdere tutto.

Comè possibile? Basta chiamarsi cooperativa, come insegna il maestro Buzzi. Nella citata missiva Migliavacca affermava con nettezza: “Coop non è una banca”. Infatti la raccolta del risparmio che organizza in ogni suo punto vendita (11 miliardi di euro, circa dieci volte la raccolta della Tercas) si chiama “prestito soci”.

Il Fatto ha posto alla Banca d’Italia la seguente domanda: “Esiste una forma di vigilanza sul cosiddetto “prestito soci” delle cooperative?”. La risposta è stata: “No. In base alla legge, la Banca d’Italia è competente per la vigilanza sulle banche”. Una seconda, più stringente, domanda (“Un’attività definita di ‘gestione della liquidità dei soci’ può essere svolta da una cooperativa?”), ha ricevuto una risposta più stupefacente della prima: “In assenza di dettagli sulle specifiche caratteristiche dell’attività di ‘gestione della liquidità dei soci’, non è possibile affermare se essa rientri o meno tra le attività riservate agli intermediari finanziari”. Per aprire una banca serve l’autorizzazione della Banca d’Italia e bisogna sottoporsi alla sua vigilanza. Ma se uno apre una banca seguendo due accortezze (non scriverlo nell’insegna e non fornire dettagli alla Banca d’Italia) può fare quel che gli pare.

La questione è quasi teologica. Che cos’è una banca? Nelle “Istruzioni di vigilanza” della Banca d’Italia si trova la definizione: “La raccolta del risparmio tra il pubblico è vietata ai soggetti diversi dalle banche, fatte salve le deroghe previste dall’art. 11, comma 4, del T.U.”. La deroga riguarda il prestito con cui il socio finanzia l’attività della sua cooperativa. Poi si legge: “Sono comunque precluse ai soggetti non bancari la raccolta di fondi a vista e ogni forma di raccolta collegata all’emissione o alla gestione di mezzi di pagamento”. Quindi chi fa raccolta “a vista” o è una banca o delinque. Che cos’è la raccolta a vista? “La raccolta che può essere rimborsata su richiesta del depositante in qualsiasi momento con un preavviso inferiore a 24 ore”.

Adesso vediamo le cose che i distratti della Banca d’Italia – dopo aver scritto le stringenti regole – potrebbero vedere con una sia pure superficiale ricerca su Internet. Lo stesso Migliavacca di “la Coop non è una banca” scrive nel “Decimo rapporto delle cooperative dei consumatori”: “Il prestito sociale è una forma di deposito a vista immediatamente liquidabile”. A vista. E continua: “I soci prestatori possono utilizzare la carta Socio-Coop per prelevare contante dal proprio libretto di risparmio e trasferire denaro sul proprio conto corrente bancario. Inoltre (…) i soci prestatori possono utilizzare la carta SocioCoop come strumento di pagamento della spesa e per il prelievo di contante alle casse dei punti di vendita” (…)

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Le balle dello smemorato Alemanno

gianni alemanno

Si difende dalle accuse dell’inchiesta Mafia Capitale l’ex sindaco di Roma “lo smemorato” Gianni Alemanno: “Io non ho mai conosciuto Carminati e un anno e mezzo fa, avendo letto articoli di stampa, avevo messo in guardia i miei collaboratori: loro mi hanno giurato che non avevano a che fare con lui. Difendo l’onore della destra romana che è stata ed è fatta di tanti giovani che fanno un percorso di legalità, Carminati è più Banda della Magliana che politica e io non l’ho mai conosciuto, non ho mai avuto a che fare con lui. Che era in circolazione ancora l’ho letto sull’Espresso. Io pensavo fosse morto o in pensione”.

Ma “lo smemorato” Alemanno durante la sua amministrazione s’è circondato in Campidoglio da ex fascisti con trascorsi da galeotti, ha infilato la cricca di Carminati in società pubbliche, ha furbescamente dormito mentre l’Ama e l’Atac assumevano duemila dipendenti tutte per chiamata diretta e legate da rapporti familiari o politici ad esponenti del centrodestra locale, dirigenti aziendali e sindacalisti.

Gli intrecci tra i personaggi di Mafia Capitale e il mandato di Alemanno in Campidoglio sono fittissime. Il consigliere comunale Giovanni Quarzo e l’ex assessore Marco Visconti nonché l’ex capogruppo regionale Luca Gramazio, tutti e tre inquisiti.

A Eur spa, un’azienda che gestisce un patrimonio di centinaia di milioni di euro, ci ha spedito quel Riccardo Mancini, il suo fidato tesoriere, che non aveva mai negato l’amicizia con Carminati. Mancini è finito in carcere prima dell’ex estremista di destra, “er cercato”, due anni fa, per una tangente da 600.000 euro per una commessa di filo bus. E per i rifiuti Ama, c’era Franco Panzironi, che la retata di Mafia Capitale ha trascinato in galera, ma che i magistrati già tampinavano per Parentopoli. E Antonio Lucarelli, il capo segreteria in Campidoglio, l’intermediario che Carminati fa incontrare a Salvatore Buzzi, era cresciuto in Forza Nuova.

Come poteva, pover’uomo smemorato notare gli affari sporchi di Carminati & Buzzi? E poi quel Buzzi, personcina tanto carina, che all’ultima campagna elettorale, su commissione di Panzironi, gli organizzò una claque di 50 persone, dice Alemanno “lo consideravo persona al di sopra di ogni sospetto, era un esponente ed un capofila delle cooperative sociali, anche altre giunte erano in contatto con lui”. E intando Buzzi disperato per la sconfitta con Ignazio Marino, “se vinceva Alemanno, ce l’avevamo tutti comprati”.

Alemanno però sottolineiamolo non conosce Carminati, pensava fosse morto o in pensione…Molti nemici, uomo d’onore. Pizzo e moschetto, fascista perfetto.

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Con i Rom si fanno più soldi che con la droga

immigrati

A margine dell’inchiesta “Mafia Capitale”, l’eterna emergenza. 24 milioni per gestire gli 8 campi per 5000 nomadi. Decine di enti destinatari del flusso di denaro proveniente dal Comune.

“Con i rom si fanno più soldi che con la droga” dicono gli intercettati dell’inchiesta che in queste ore sta scuotendo Roma. Tra i fiumi di denaro che stanno emergendo in queste ore dall’inchiesta sulla nuova “Mafia Capitale”, uno pare provenire dal business dei campi rom. Sebbene non si conoscano ancora i termini di cosa ci sia di illecito nella gestione degli otto “villaggi della solidarietà” e dei tre “centri di raccolta” di Roma, può essere utile far un po’ luce sul finanziamento e sui costi delle strutture che ospitano in condizioni spesso degradate centinaia di famiglie ai margini della città.  Il rapporto realizzato dall’Associazione 21 Luglio dal titolo significativo “Campo Nomadi spa. Segregare, concentrare, allontanare i rom. I costi a Roma nel 2013” mette in fila i numeri del business dell’accoglienza dei rom a Roma. Già, perché come appare sempre più chiaramente oggi, di affare e pure bello grosso si tratta vista la quantità di denaro spesa dal Comune solo lo scorso anno. E le collusioni tra istituzioni e organizzazioni criminali per l’assegnazione degli appalti è sempre più evidente.

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Nel 2013, per i villaggi della solidarietà e per campi di raccolta nei quali vivono circa 5mila degli 8mila rom censiti sul territorio comunale hanno avuto un costo di 24 milioni e 108.146 euro. Più di 24 milioni per trovare una sistemazione meno che decente per 5000 persone. Quasi 5mila euro a persona.

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Dall’analisi dettagliata delle Convenzioni stipulate tra il Comune di Roma e i 35 enti gestori emerge che 16 milioni sono stati spesi per gli otto campi sparsi nella periferia – Lombroso (creato nel 2000), Candoni (2000), Gordiani (2002), Cesarina (anno 2003), Camping River (2005), Castel Romano (2005), Salone (2006), La Barbuta (2012) – più di 6 milioni per i 3 centri di raccolta e un milione e mezzo per le operazioni di sgombero.

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Non è un caso che proprio la gestione del campo di Castel Romano sia nel mirino degli investigatori. Il nome della cooperativa Eriches 29 compare a più riprese nell’inchiesta ed è la stessa cooperativa che, come si legge nel rapporto di Associazione 21 Luglio, riceve quasi due milioni di euro nel 2013 per la gestione del villaggio a sud di Roma.

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(Fonte pagina99)

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